La liquidazione delle spese processuali tra congruità e decoro della professione

28 Luglio 2020

La liquidazione delle spese processuali è un tema oggetto di dibattito attuale. I termini decoro della professione di avvocato e congruità della determinazione del compenso dovuto allo stesso riassumono le criticità che la giurisprudenza di legittimità recente ha inteso superare, tentando di ricondurre la quantificazione degli onorari da parte del giudice nell'ambito di operatività dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nonché del criterio di valutazione dell'equità, facendo così assurgere a canoni-guida l'interpretazione dei parametri ex D.M. n. 55/2014 e il valore effettivo della causa, al fine di realizzare l'equo contemperamento degli interessi delle parti coinvolte. Tuttavia, appare d'obbligo una riflessione sulla fondatezza della nozione di equo compenso e sui limiti del potere di reinterpretazione delle norme da parte del giudice.
Il compenso per la prestazione professionale dell'avvocato

La l. n. 247/2012, rubricata «Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense», statuisce, in caso di liquidazione giudiziale del compenso dovuto per la prestazione professionale dell'avvocato, che la determinazione sia effettuata secondo quanto indicato dal decreto del Ministro della giustizia, su proposta del Consiglio Nazionale Forense, affinché possa definirsi «equo». Prevede, ancora, che il giudice debba disporre, «oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfetarie».

Il D.M.10 marzo 2014, n. 55 individua ex art.13, comma 6, l. n. 247/2012 i parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense anche in sede giudiziale, stabilendo che occorre tener conto delle «caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate».

Ai fini della maggiorazione o diminuzione dei valori medi descritti nelle tabelle allegate al predetto regolamento, il giudice deve tener conto della complessità delle fasi della controversia, del numero dei soggetti coinvolti nella causa, dell'esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto, dell'adozione di eventuali condotte abusive, al fine di ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli.

Ordunque, le predette disposizioni disciplinano l'attività che il giudice deve espletare per liquidare gli onorari. In particolare occorre verificare l'attività difensiva svolta, alla luce delle peculiarità del caso specifico, al fine di stabilire «se l'importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato all'effettivo valore della controversia, e, in tale ultima eventualità, il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere ritenuto corrispettivo della prestazione espletata» (Trib. Bolzano, sez. I, sent. 27 febbraio 2020).

Con riguardo al valore della causa, la giurisprudenza di legittimità recente (Cass. civ., ord. 21 maggio 2020, n. 9378) afferma che deve essere determinato in base al cumulo delle domande a norma del codice di procedura civile, ex artt. 10 e ss. c.p.c., che indica i presupposti necessari per procedere alla somma dei valori delle plurime domande eventualmente proposte in giudizio (Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, l, Torino, 2019). Quindi, nell'ipotesi in cui l'attore presenti una pluralità di domande nei confronti del convenuto nel medesimo processo, per accertare il valore della causa, quale parametro per la liquidazione degli onorari, occorre procedere alla somma delle domande stesse (cumulo oggettivo c.d. semplice, Celeste, art. 10 c.p.c., in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Cendon, Milano, 2012).

Parte della dottrina (Luiso, Diritto processuale civile I, 2019) sostiene che nelle fattispecie del cumulo condizionato in senso proprio o cumulo eventuale o subordinato (Mandrioli-Carratta, op. cit.), in cui l'attore, a fronte del rigetto della domanda formulata in via principale, ne propone un'altra e del cumulo alternativo, in cui l'attore non indica alcuna preferenza tra due domande non sia possibile operare la somma dei valori. Diversamente, nella fattispecie del cumulo condizionato in senso improprio o successivo o condizionale in senso stretto (Mandrioli-Carratta, Luiso), in cui l'attore, a fronte dell'accoglimento di una domanda, richiede l'esame di un'altra in vista di un probabile contestuale accoglimento di entrambe, si ritiene possibile tale somma.

Con riguardo alla domanda riconvenzionale, essa non si somma con la domanda principale, poiché è a quest'ultima contrapposta e non è ravvisabile l'unidirezionalità delle domande. Nel caso di specie opera il «parametro correttivo» del valore effettivo della controversia (Cass. civ., sez. II, sent. 25 settembre 2018, n. 22711). Infatti, si rammenta che l'art. 5, comma 1, D.M. n. 55/2014 prevede, tra l'altro, che «in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione speciale».

Il professionista, in caso di recupero delle competenze professionali, seguirà le procedure previste dal d.lgs. n. 150/2011 (procedimento sommario c.d. sui generis e procedimento monitorio), sia se la domanda sia limitata al quantum, sia seessa riguardi anche l'an della pretesa (Cass. civ., Sez. Un., sent. 23 febbraio 2018, n. 4485).

La liquidazione delle spese processuali

L'applicazione dei criteri indicati dal D.M. n. 55/2014 ha dato luogo a un ampio dibattito giurisprudenziale, che tenta di porre fine ai dubbi interpretativi derivanti dalla normativa regolamentare. Un recente orientamento della giurisprudenza di merito ne ammette la deroga con riguardo alla liquidazione di compensi relativi a procedimenti con oggetto sostanzialmente analogo. Con il decreto dell'11 maggio 2020, il Tribunale di Vicenza, pronunciandosi sul reclamo promosso da un avvocato, asserisce la sostanziale identità delle questioni oggetto dei procedimenti, che possono ricondursi «a mera ripetizione argomentativa della prima» controversia, affermando che «i compensi della fase di studio sono dovuti esclusivamente per il primo procedimento e che, per gli altri due procedimenti, i compensi della fase introduttiva e decisionale devono essere liquidati nella misura del 50% dei minimi, in disapplicazione del D.M. n. 55/2014».

La decisione sembra confliggere con la nozione di equo compenso, che può definirsi tale quando è proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, nonché quando è conforme ai criteri fissati dal regolamento introdotto dal decreto del Ministro della giustizia ex art. 13, comma 6, l. n. 247/2012.

Nel caso di specie, il giudice di seconde cure, in sede di reclamo sulla determinazione del compenso dovuto al difensore per la prestazione professionale effettuata, ritenendolo irragionevole e non proporzionato, «canoni che debbono sempre ispirare la normazione primaria e secondaria, ex art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, sul contenzioso amministrativo», ne ha disposto una liquidazione unitaria, in deroga alle previsioni del D.M. n. 55/2014, potendo «disapplicare l'atto amministrativo illegittimo», ovvero la tariffa professionale.

Orbene, detta pronuncia suscita perplessità sia con riguardo alle ipotesi in cui opera il potere di disapplicazione previsto exart. 5, L. 20 marzo 1865, n. 2248 all. E., sia con riguardo a quanto indicato dall'art. 4, comma 9, D.M. n. 55/2014 in ordine alla possibilità di dimezzare il compenso dovuto all'avvocato, ovvero di incidere in peius sui minimi tabellari, esclusivamente nelle ipotesi di responsabilità processuale ex art. 96 c.p.c., inammissibilità, improcedibilità o improponibilità della domanda e soltanto nei confronti del difensore della parte soccombente.

Il decoro della professione

La giurisprudenza più recente della Cassazione sottolinea la possibilità in capo al giudice di liquidare le spese processuali nel rispetto dell'art. 2233, comma 2, c.c., secondo il quale la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione (Cass. civ., ord., Sez. VI, 10 aprile 2020, n. 7780; (Cass. civ., sez. VI- 1, ord.15 dicembre 2017, n. 30286).

I parametri e le soglie numeriche individuati dal D.M. n. 55/2014, essendo venuto meno il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, «costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica “standard” del valore della prestazione professionale» (Cass. civ., sez. VI, sent. 15 marzo 2019, n.7479).

La formula prevista dall'art. 4, comma 1, del predetto decreto ministeriale «diminuzione di regola fino al 70%» deve essere interpretata, «in conformità al suo chiaro tenore letterale, nel senso che la diminuzione applicabile sul valore medio può essere determinata in una percentuale non superiore al 70% del medesimo, ossia nel senso che l'importo minimo liquidabile corrisponde al 30% di tale valore medio; non già nel diverso senso che l'importo minimo liquidabile corrisponda al 70% del valore medio, ossia che la diminuzione applicabile sul valore medio non possa eccedere il 30% del medesimo (in termini, Cass. civ., n. 7482/2019)».

Si rammenta che l'orientamento risalente della Suprema Corte, in vigenza della disciplina precedente all'introduzione dell'equo compenso, era fondato sulla vincolatività dei minimi tariffari, anche in relazione all'importanza dell'attività svolta dal legale (Cass. civ., sez. VI- 1, ord. 15 dicembre 2017, n. 30286).

L'orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al D.M. n. 55/2014, considera i parametri individuati da tale disposizione, quali «fattori di concretizzazione della liquidazione del compenso professionale» (Cass. civ., ord. 23 aprile 2020, n. 8146). Sui valori medi il giudice potrà effettuare aumenti e diminuzioni secondo le percentuali previste. Pertanto, solo ove se ne discosti in misura apprezzabile, dovrà indicarne i criteri seguiti, sempre nel limite fissato dall'art. 2233 c.c., che preclude la possibilità di liquidare, al netto del rimborso spese, somme meramente simboliche.

La motivazione della decisione del giudice

Si è visto che il D.M n. 55/2014 attribuisce al giudice, nella quantificazione delle spese processuali dovute, la facoltà di applicare aumenti e riduzioni ai valori medi indicati nelle tabelle allegate al regolamento.

La Suprema Corte (Cass. civ., sez. VI – 2, ord., 14 gennaio 2020, n. 461; Cass. civ., sent. n. 2386/2017) ha affermato la sussistenza di un onere motivazionale in capo al giudice, allorquando debba decidere dell'onorario di avvocato «sia nell'evenienza in cui ritenga di riconoscere l'aumento, sia nell'evenienza contraria». Ordunque, si ritiene ammissibile la possibilità di scendere anche al di sotto o di salire anche al di sopra dei limiti risultanti dall'applicazione delle percentuali massime di scostamento, purché ricorra apposita e specifica motivazione (Cass.civ., n.11601/2018).

Invero, nel caso di specie, poiché l'avvocato aveva assistito più soggetti con la medesima posizione processuale, il giudice avrebbe potuto aumentare il compenso unico per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 20 per cento, fino a un massimo di dieci soggetti, ex art. 4, comma 2, prima parte, del D.M. n. 55/2014.

Il d.lgs.n. 104/2010, all'art. 26, comma 1, nel disciplinare le modalità di liquidazione delle spese di giudizio nel processo amministrativo, fa riferimento, tra l'altro, al rispetto dell'onere motivazionale, nonché dei principi di chiarezza e sinteticità richiesti al giudice e alle parti nella redazione degli atti.

La giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. III, sent. 24 aprile 2019, n. 2635) ritiene priva di giustificazione la mancata liquidazione delle spese vive concretamente sostenute, allegate e dimostrate dal ricorrente, anche nel caso i cui questi possa, ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 104/2010, difendersi personalmente, senza l'assistenza del difensore.

La mancanza di accordo tra le parti sul compenso

L'art. 2233, comma 1, c.c. , prevede che il compenso del professionista, ove non sia convenuto tra le parti e non possa essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è fissato dal giudice.

Nel caso di specie, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente (Cass. civ., sent. 10 gennaio 2017, n. 269; Cass. civ., sent. 31 gennaio 2017, n. 2386), il predetto dispone di un potere discrezionale nella liquidazione degli onorari insindacabile in cassazione, ove sia fondato su una congrua motivazione e sia conforme alle tariffe professionali.

A tal proposito, la Suprema Corte ha affermato che «in tema di compenso del professionista, le tariffe obbligatorie che, ai sensi degli artt. 2233 c.c. e 636, comma 1, ultima parte c.p.c., escludono la discrezionalità del giudice sulla determinazione del concreto ammontare dei compensi sono solo quelle fisse e non quelle con determinazione del massimo e del minimo, le quali hanno la funzione di stabilire i limiti dell'autonomia privata nella determinazione del compenso dettando anche i criteri di liquidazione che, in mancanza di accordo, il giudice deve rispettare e non anche di attribuire al professionista l'unilaterale potestà di indicare il compenso dovuto e fissare, così, l'oggetto principale dell'obbligazione del proprio cliente» (Cass. civ., sez. VI - L, ord. 12 novembre 2019, n. 29212).

Misura delle spese processuali e proporzionalità

Per completezza argomentativa, appare di pregio citare la pronuncia costituzionale di seguito descritta.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 139 del 6 giugno 2019, ha confermato la legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c. che disciplina la condanna alle spese per responsabilità aggravata e lite temeraria.

Nel caso di specie, il Tribunale di Verona ha sollevato la questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 96, comma 3 c.p.c. per contrasto con gli artt. 23 e 25 Cost., poiché, applicando detta norma, si rischiava di comminare una sanzione indeterminata ex ante, di sovrapporsi con il risarcimento per lite temeraria previsto dal primo comma dello stesso articolo. Inoltre, la previsione della condanna ad una somma “equitativamente determinata” non forniva sicuri parametri di riferimento al giudice.

Con riguardo all'art. 25 Cost. , la Corte ha rilevato che la riserva di legge assoluta prevista riguarda esclusivamente le sanzioni penali, non le prestazioni patrimoniali imposte per legge, quale quella prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c.; con riguardo all'art. 23 Cost., la Corte rileva che il potere di condanna a una somma equitativamente determinata si ravvisa nel processo amministrativo, nel processo contabile e in quello tributario, con il precipuo fine di contrasto all'abuso del processo.

Inoltre, l'equità costituisce un criterio integrativo di una fattispecie legale, ovvero di una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge. Ancora, occorre rammentare che la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, ord. 11 ottobre 2018, n. 25176; Cass. civ., sez. III, sent. 11 ottobre 2018, n. 25177; Cass., sez. III, ord. 25 giugno 2019, n. 16898, Cass.,sez. III, ord. 4 luglio 2019, n. 17902) ha precisato che l'art. 96, comma 3, c.p.c. rinviando all'equità, «richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma da tale disposizione prevista va rapportata alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa».

In conclusione

Si è visto che l'istituto esaminato costituisce una fattispecie complessa. Nonostante sia una figura codificata, si presta a elaborazioni da parte della giurisprudenza, che, reinterpretando le norme in materia, possono dar luogo ad ambiguità applicative, a volte, prima facie, sorrette da motivazioni stereotipe.

Dunque, la questione rilevante ruota intanto intorno all'onere motivazionale, che rappresenta una scelta di policy per il giudice in sede di liquidazione degli onorari del professionista.

Con riguardo alla compensazione delle spese, la Cassazione ha precisato che le spese di giudizio possono essere compensate, qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni espressamente motivate, che devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa. Tali motivazioni non possono essere espresse con una formula generica, non idonea a consentire il necessario controllo (Cass. civ., sez. VI – 5, ord. 29 aprile 2020, n. 8272).

Il confine di operatività del criterio del valore della causa è riformulato dalla giurisprudenza di legittimità secondo l'accoglimento della domanda dell'attore o il suo rigetto: nella prima ipotesi, il valore sarà pari alla somma attribuita dal giudice; nella seconda ipotesi si applica il principio del disputatum, ovvero il valore sarà pari alla somma infondatamente richiesta dall'attore (Cass. civ., sent. 12 giugno 2019 n. 15857).

In applicazione del criterio della soccombenza, l'abolizione dei minimi tariffari può operare nei rapporti tra professionista e cliente, ma l'esistenza della tariffa mantiene la propria efficacia quando il giudice debba procedere alla regolamentazione delle spese di giudizio (Cass. civ., Sez. VI2, ord. 21 ottobre 2019, n. 26706).

I principi sanciti, che rappresentano le tecniche di determinazione da parte del giudice delle spese processuali, devono essere letti in chiave teleologica – funzionale, che tiene in debito conto gli interessi sottesi, con l'evidente intento di trovare un punto di equilibrio tra il decoro della professione di avvocato e le specificità del caso concreto.

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