Contestazioni a catena: nel calcolo dei termini di durata delle misure cautelari vanno imputati “tutti” i periodi...

31 Luglio 2020

La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all'art. 297, comma 3, c.p.p. deve essere effettuata computando l'intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee.

La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all'art. 297, comma 3, c.p.p. deve essere effettuata computando l'intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee.

Questo il principio di diritto statuito dalle Sezioni Unite, con sentenza n. 23166/20 depositata il 29 luglio, che accoglie l'orientamento minoritario, affacciatosi più di recente nella giurisprudenza di legittimità (e appoggiato anche dall'avvocato generale in articolate note), ma più garantista per l'imputato che, qualora sia sottoposto a più misure ordinanze della medesima misura per lo stesso fatto (benché diversamente circostanziato o qualificato), ovvero per fatti diversi connessi commessi anteriormente all'emissione del primo provvedimento cautelare, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave. Tale norma del codice di rito sulle c.d. contestazioni a catena (art. 297, comma 3, c.p.p.) presuppone tuttavia che i fatti siano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione.

La diversa lettura ermeneutica della disposizione. Su tale norma si è registrato un conflitto in Cassazione: se in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione dei termini di custodia cautelare deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare, ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee, oppure computando l'intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee.

Il caso concreto. Per comprendere i termini concreti della quaestio, si consideri che il 7 settembre 2018 il GIP di Monza disponeva nei confronti di un uomo custodia cautelare in carcere per avere detenuto in concorso ai fini di spaccio 4/5 kg di eroina. Il 23 ottobre 2019 lo stesso soggetto veniva colpito da analoga misura custodiale, stavolta da parte del GIP di Milano, relativo ad un ingente quantitativo di cocaina (circa 100 kg) che l'indagato avrebbe acquistato e successivamente spacciato in concorso nel corso di più anni. L'uomo proponeva riesame dinanzi al Tribunale della libertà di Milano sostenendo che i termini di durata massima di quest'ultima misura cautelare dovevano essere retrodatati alla data di emissione della precedente misura cautelare adottata nei suoi confronti il 7 settembre 2018, con conseguente dichiarazione di inefficacia della seconda misura per decorrenza del termine massimo di fase (relativo alle indagini preliminari) di un anno.

Il contrasto in sede di legittimità sulle modalità di calcolo con le quali operare la retrodatazione. Il Tribunale milanese, pur riconoscendo il presupposto delle contestazioni a catena dei reati oggetto delle due misure cautelari – ossia che tali condotte contestate erano soggettivamente connesse e desumibili dagli prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza – rigettava la richiesta di riesame dell'indagato aderendo all'orientamento maggioritario di cassazione secondo cui la retrodatazione della decorrenza dei termini della misura cautelare imporrebbe, per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale della custodia cautelare subita per prima, imputando alla seconda misura solo i periodi relativi a fase omogenee (Sez. VI, n. 15736/2013 e 50761/2014; Sez. fer., 47581/2014).

I termini non sono scaduti se si computano solo quelli di fase della prima ordinanza. I termini di fase non erano stati superati in quanto la prima ordinanza cautelare, emessa il 7 settembre 2018, non aveva consumato l'intera durata annuale, posto che il 12 dicembre 2018 il PM aveva chiesto il rinvio a giudizio, l'11 febbraio 2019 era stato disposto il giudizio abbreviato e il 13 marzo 2019 era intervenuta sentenza di condanna. Consequentur, alla seconda ordinanza custodiale poteva eventualmente essere imputato solo il termine relativo alle indagini preliminari – dal 7 settembre 2018 all'11 febbraio 2019 – e non l'intero periodo di detenzione subito dall'accusato con riguardo al primo provvedimento cautelare.

La contrapposta posizione di Cassazione. Avverso la decisione del Tribunale del riesame di Milano ricorre in cassazione l'indagato deducendo la violazione di legge processuale ex art. 297 comma 3 c.p.p., richiamando l'orientamento più recente di legittimità per il quale la retrodatazione andrebbe calcolata sulla base dell'intero periodo di custodia cautelare presofferto e non limitarsi ad imputare solamente i periodi di fasi omogenee, anche perché la norma non prevede alcun frazionamento della custodia cautelare presofferta, realizzandosi così, impropriamente, una dilatazione dei termini massimi di custodia cautelare (Sez. VI, n. 3058 e 20305 del 2017; Sez. IV, n. 36088/2017; Sez. VI, 21177/2019). Così leggendo la disposizione processuale, applicando il principio della retrodatazione, dal 7 settembre 2018, doveva ritenersi esaurito il termine massimo di un anno di fase alla data di esecuzione della seconda ordinanza (23 ottobre 2019).

La soluzione delle Sezioni Unite. Il Supremo Collegio sposa tale ultimo orientamento, seppur ancora minoritario. A farvi propendere sono anzitutto il dato testuale in quanto l'art. 297 comma 3 c.p.p. («i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave») non contiene alcuna indicazione circa la necessità di procedere a ulteriori calcoli finalizzati alla sommatoria dei periodi di custodia cautelari subiti in riferimento a ciascuna misura cautelare, né pone alcuna preclusione circa l'imputazione di periodi di custodia a fasi processuali diverse.
Si ha in questi casi una sovrapposizione di misure cautelari, ritenendosi necessaria la rimodulazione della durata dell'ordinanza successiva mediante la regressione del suo termine iniziale al dies a quo della prima misura. Attraverso la retrodatazione si realizza così un “riallineamento” tra misure cautelari che, pur dovendo essere coeve, sono state separatamente adottate, ovvero in uno “slittamento all'indietro” della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla data di esecuzione di quello iniziale.

Soluzione conforme alla ratio e alla finalità dell'istituto. Il Massimo consesso ritiene anche che l'orientamento accolto sia l'unico compatibile con i molteplici arresti della Corte costituzionale in tema di contestazioni a catena e retrodatazione. La Consulta ha infatti sottolineato che lo scopo dell'istituto è quello di comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari al fine di impedire la diluizione dei termini in ragione dell'episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari (n. 89/1996) e di garantire la certezza della durata custodiale (n. 408/2005).

La giurisprudenza costituzionale. Particolare rilievo assume la pronuncia n. 233/2011 nella quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale proprio dell'art. 297 comma 3 c.p.p. nella parte in cui non prevede che la retrodatazione operi anche qualora, per i fatti contestati nella prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all'adozione della seconda ordinanza. Risulta violato l'art. 13 Cost. perché si realizza una sostanziale elusione dei termini di durata massima delle misure cautelari ivi imposto: il ritardo nell'adozione del secondo provvedimento cautelare determina l'espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell'imputato per effetto del ‘cumulo materiale' di periodi afferenti a ciascun reato.
A ciò si aggiunga che in altre decisioni la Corte costituzionale aveva nettamente preso le distanze dalla necessità che il calcolo della retrodatazione rispetto l'omogeneità dei termini di fase (n. 229/2005).

Il possibile contrasto con l'art. 13 Cost. Pertanto, l'orientamento maggioritario (oggi respinto dalle Sezioni Unite) rischiava di porsi in contrasto con l'art. 13 Cost. in quanto non garantisce i valori della certezza e durata minima della custodia cautelare a fronte del rischio di diluizione dei termini conseguente all'episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari o da una imponderabile valutazione soggettiva del titolare del potere cautelare. Sul punto le Sezioni Unite sono categoriche: «Sarebbe infatti agevole aggirare il fenomeni delle contestazioni a catena mediante il frazionamento delle iniziative cautelari e mirate scelte procedimentali del PM».

Il richiamo alla CEDU. Il Supremo Collegio ricorda che anche una lettura convenzionalmente orientata impone si seguire l'esegesi datane all'art. 297 comma 3 c.p.p. in quanto l'art. 5 CEDU («Nessuno può essere privato della libertà se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge») è stato di recente ritenuto dalla Corte di Strasburgo violato in un caso in cui il P.M. aveva dapprima tenuti separati due procedimenti penali e presentato una seconda richiesta cautelare alla scadenza del termine massimo di durata relativo alla prima misura, procedendo poi alla riunione dii tutti i procedimenti a quello ordinario (Corte EDU; Sez. I, 26 maggio 2020, I.E. contro Moldavia), considerando ‘arbitrario' il periodo dii custodia successivo alla scadenza del termine massimo relativo alla prima misura cautelare.

Fonte: Diritto e Giustizia

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