Il mondo (giudiziario o no) che verrà

08 Settembre 2020

Nessuno poteva immaginare che il nostro Paese avrebbe dovuto affrontare una crisi sanitaria ed economica di tale portata. Nessuno può oggi prevedere quale saranno i riflessi esatti di tale realtà epidemiologica. Questa nostra prima riflessione sui settori di impatto di questa realtà drammatica e l'analisi che segue vuole essere una (quanto più possibile prudente e realistica) disamina di quelli che a nostro avviso saranno gli scenari del futuro prossimo a venire.
Introduzione

Nessuno poteva immaginare che il nostro Paese avrebbe dovuto affrontare una crisi sanitaria ed economica di tale portata. Nessuno può oggi prevedere quale saranno i riflessi esatti di tale realtà epidemiologica.

Forse non è nemmeno “etico” sbilanciarsi in affermazioni aventi margini e sembianze di certezza, in un momento in cui persone lottano ancora dentro e fuori gli ospedali per fronteggiare un nemico invisibile e non ancora circoscrivibile.

Tuttavia, il mondo di prima del Covid-19 non si ritroverà nelle stesse misure e dimensioni anche quando questa gravissima emergenza sarà superata.

Parliamo certamente del mondo sanitario, aziende ed operatori in prima linea, ma anche delle aziende diversamente coinvolte anche in via diretta (come le strutture di lungodegenza o RSA).

Chi ha sofferto per un danno che ritiene ingiustamente subito ha legittimo titolo per richiedere alla sintesi della funzione giurisdizionale, una indagine sulle eventuali cattive gestioni delle attività di contenimento e cura della malattia.

Il mondo economico subirà poderosamente gli effetti di questa contrazione forzata delle attività così vitali in una libera economia ed i riflessi dei profili civilistici coinvolti si registreranno anche nel mondo assicurativo, attore, sempre più necessario del mondo sanitario, seppure ancora trascurato dal legislatore delegato che manca nella realizzazione degli obblighi di garanzia pur previsti dalla lungimirante e assai calzante legge n. 24/2017 (mancano, come si sa, i decreti attuativi degli artt. 10 e 12 della così detta “legge Gelli – Bianco”).

Abbiamo pensato per tali ragioni che fosse giunto il momento di aggiungere una nostra riflessione ponderata (a quelle prestigiose già pubblicate anche e soprattutto su questa Rivista) sui mutamenti della disciplina civilistica della responsabilità sanitaria e dei principali profili coinvolti da questa tragedia mondiale.

In questo contesto abbiamo identificato tre macro aree di analisi che si articolano nei seguenti tre interventi che verranno pubblicati in sequenza con breve intervallo fra loro:

  • La disciplina della responsabilità del danno da Covid e il perimetro dei danni risarcibili;
  • Il contagio da covid come infortunio ed i possibili riflessi sulla responsabilità' del datore di lavoro;
  • L'impatto dell'emergenza covid sulle coperture assicurative.

Questa nostra prima riflessione sui settori di impatto di questa realtà drammatica e l'analisi che segue vuole essere una (quanto più possibile prudente e realistica) disamina di quelli che a nostro avviso saranno gli scenari del futuro prossimo a venire.

La disciplina della responsabilità del danno da COVID e il perimetro dei danni risarcibili

Con l'entrata del Paese nella “fase due” si aprono, assieme alle primarie attività produttive, anche le necessarie riflessioni sugli scenari futuri, conseguenze di quanto accaduto e su quali riflessi economici e giudiziari questa pandemia avrà nei molteplici settori che impegnano direttamente o trasversalmente la sanità italiana.

Ma il Covid-19 ha cambiato i nostri comportamenti e cambierà anche i profili di coinvolgimento dei diversi attori della scena e non solo del mondo sanitario, certamente il più esposto a importanti pressioni e cambiamenti.

Verrà il momento di valutare come la grave emergenza sanitaria si sia “specchiata” sui canoni della responsabilità introdotti solo di recente con la nota legge n. 24/2017 (cd “Legge Gelli-Bianco”) che ha modificato anche la struttura del processo civile sanitario.

Fra i primi attori della nostra storia recente, i medici, chiamati da mesi ad un massimo sacrificio sotto ogni profilo, anche personale, appaiono oggi ancor di più l'avanguardia di un sistema sanitario che ha mostrato crepe ma al tempo stesso le potenzialità del sistema di tutela nella sicurezza delle cure verso la collettività, sottoposto ad uno stress test senza precedenti.

Come si sa, la legge 24 ha disposto che l'operatore dipendente o strutturato nell'azienda sanitaria risponda solo in caso di comprovata sua condotta negligente, imprudente o imperita secondo i canoni della responsabilità extracontrattuale.

Certamente potrà risultare arduo identificare, per il vero, degli specifici indici di responsabilità in una gestione emergenziale della pandemia, dove l'assenza di linee guida chiare e l'impatto massivo del fenomeno sulle strutture e la loro organizzazione, potranno portare a responsabilità dell'operatore sanitario solo nel caso di una “colpa grave” accertata in concreto (art. 2236 c.c.).

Per i sanitari si potrà aprire semmai, è l'auspicio, una fase di riflessione che tragga testimonianza dal loro ruolo di meccanismo primario ed imprescindibile della funzione sociale clinica, in un'ottica di ritrovata alleanza terapeutica medico-paziente e che li sottragga ad una preconcetta ricerca della colpa, che troppo stesso prescinde dal contesto organizzativo nel quale si trovano ad operare, anche al di fuori di questa realtà pandemica.

Si vuol dire, che già prima della emergenza pandemica, nei meccanismi di determinazione della responsabilità degli operatori sanitari, si sono sempre più “scoloriti sullo sfondo” i profili operativi e funzionali del quadro clinico ed organizzativo nel quale gli stessi operatori si trovano a svolgere la professione.

Oltre a “marginalizzare”, infatti, sempre più la funzione organizzativa nel contesto emergenziale e di complessità speciale difficoltà prevista dall'art. 2236 c.c., troppo spesso l'indagine clinica e causale rispetto alla condotta del sanitario si è astratta senza ragione dall'esame della realtà aziendale nella quale il singolo professionista opera.

Si auspica in questo senso, oltre alla ripresa di un meccanismo di indagine più equilibrato, la miglior valorizzazione giudiziale della realtà operativa nella quale collocare (anche con funzione concausale) l'operato del sanitario.

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Proprio le aziende sanitarie saranno necessariamente esposte – a tempo debito – ad uno screening sulle proprie capacità organizzative e di ricettività delle indicazioni emergenziali che, dalla dichiarazione dello “stato di emergenza” del gennaio scorso in poi, hanno rappresentato le linee guida per fronteggiare una emergenza del tutto nuova.

Ci saranno necessarie indagini giudiziarie sull'impulso delle parti che si ritengano vittime della gestione organizzativa ed assistenziale (le cronache riferiscono di procedimenti civili e penali già avviati) nelle quali i canoni probatori saranno particolarmente rilevanti per indagare su reali e mai presunte ipotesi di responsabilità organizzative e funzionali, tanto nelle strutture demandate alle cure, quanto, come detto, in quelle di lungodegenza (le RSA), proiettate queste ultime verso funzioni mai governate in precedenza di contenimento epidemiologico.

I profili difensivi per le strutture sanitarie, chiamate a rispondere della gestione dei contagi e della cura dei malati, saranno resi più complessi dalla natura contrattuale della loro presunta responsabilità, aggravata da una sorta di presunzione causale che da sempre la giurisprudenza riconosce in caso di infezioni nosocomiali (in questo caso per contagio da Covid-19).

Anche i lavoratori del comparto sanitario e non sono diventati attori primari della realtà emergenziale da quando si è deciso (art. 42 della Legge 27/2020) di ampliare la tutela infortunistica da contagio, in ottica previdenziale, ampliando i margini di intervento dell'INAIL ogni qual volta possa essere presunta la causa virulenta collegata alle funzioni del lavoratore contagiato, a prescindere dal rilievo di una reale responsabilità del datore di lavoro (circolare INAIL n. 22 del 20 maggio 2020).

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Come detto in premessa, tutte le grandi crisi (anche sanitarie) proiettano nel futuro ingenti riflessi economici e sociali che rappresentano il costo dell'attacco alla salute dei cittadini.

All'enorme dispendio di risorse statali necessarie per il contenimento del contagio e la cura dei malati, si sommerà il costo dei danni che dovranno essere risarciti alla fine del percorso giudiziario e nelle ipotesi di comprovata responsabilità delle strutture coinvolte in prima linea.

Qui la riflessione deve essere allargata al mondo assicurativo, che da tempo (complice l'elevato costo del ramo in termini di rapporto premi/sinistri) appariva “freddo” nella scelta di offrire coperture alle aziende sanitarie ed agli operatori del settore e che, inevitabilmente, sarà indotto ad un ancor maggiore diffidenza oggi, delimitando i rischi futuri e quindi l'ombrello di una garanzia patrimoniale in assenza della quale il costo dei risarcimenti si rifletterà necessariamente sui bilanci delle aziende sanitarie.

Si è detto già che in perdurante assenza dei decreti attuativi della Legge “Gelli” (art. 10 L. 24/2017), il mondo della sanità non vive oggi una realtà, pur auspicata dalla norma, di pienezza dell'obbligo assicurativo e si dibatte tra forme di “autoassicurazione”, che per lo più si traducono in assenza di garanzie (le così dette SIR), ovvero in una forte delimitazione delle stesse (per lo più con franchigie contrattuali molto alte, o esclusioni da rischio COVID).

Inevitabile la riflessione sul costo sociale che il presumibile incremento delle cause e l'assenza di tutela patrimoniale avrà sul conto economico del comparto sanitario.

Lo stesso mondo assicurativo, infine, appare oggi in allarme per i possibili riflessi che l'interpretazione traslatizia del concetto di “infortunio” da COVID-19 potrà avere sulle polizze RCO a copertura della responsabilità dei datori di lavoro ed anche sulle polizze private infortuni, ove la nuova definizione previdenziale di infortunio da causa virulenta dovesse colpire il rischio normalmente inquadrato nel diverso regime della malattia, professionale o meno.

Infine, l'organizzazione delle aziende sarà chiamata a rispondere attraverso i suoi vertici operativi delle decisioni e dei presidi di sicurezza adottati nella fase di emergenza, secondo lo schema di giudizio proprio del D. Lgs. n. 81/2008, con rifessi per le figure apicali ed anche per le persone giuridiche, in vigenza del D. Lgs. n.231/2001 (responsabilità “penale” dell'azienda).

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Se queste sono le “macroaree” di impatto della esperienza nazionale da Covid-19, valgano, di seguiti, le nostre prime riflessioni sui canoni giuridici ed assicurativi di maggior rilievo.

Sulla responsabilità sanitaria da contagio

Un aspetto che non mancherà di emergere nelle cronache anche giudiziarie è legato alla efficacia della lotta perpetrata alla diffusione virale in contesto sanitario.

Alla mole di pazienti “Covid” presenti o ricoverati nel corso dell'emergenza, si potrà ritenere associata l'aliquota di chi potrà provare di avere contratto il virus proprio durante la degenza nelle strutture anche per ragioni diverse da quelle epidemiologiche.

Tanto la conoscenza del virus, quanto i protocolli di cura e contrasto erano (e sono ancor oggi) sconosciuti al mondo scientifico e certamente non si potrà imputare alle aziende sanitarie il mancato rispetto di protocolli e linee guida aventi valenza e finalità curative.

Diversa questione potrebbe nascere nell'analisi della realtà epidemiologica dal punto di vista della efficacia degli strumenti doverosamente posti in atto per contrastare la diffusione del virus.

Ci si chiede se – sul piano giuridico – si possa associare la lotta al contagio Covid alla normale struttura giuridica delle così dette infezioni nosocomiali.

Sappiamo che la giurisprudenza, in tema di infezioni in azienda sanitaria, è sempre stata molto rigorosa nei confronti delle strutture ospedaliere.

E' vero che il tema delle infezioni nosocomiali ha presentato notevoli profili di complessità, tanto in ambito medico quanto in ambito giuridico.

Anzitutto, la pluralità dei fattori produttivi del fenomeno infettivo rende spesso arduo individuare la causa specifica e, conseguentemente, affermare quale sia il suo antecedente causale; per di più, in presenza di soggetti deboli (quali bambini, anziani, immunodepressi), i più colpiti dalle infezioni, è ancor più difficile distinguere gli effetti strettamente connessi al contagio rispetto alle preesistenti patologie.

Molte infezioni, inoltre, sono per loro natura “inevitabili” (circa il 70% del totale), nel senso che, pur adottando tutte le precauzioni previste dalla letteratura medica, esse rappresentano una complicanza non “prevenibile” di determinati interventi.

Tutto ciò ha, inevitabilmente, effetti anche in ambito giuridico, soprattutto circa le problematiche relative alla ripartizione dell'onere probatorio tra paziente e struttura nonché del conseguente accertamento della responsabilità.

In assenza di norme ad hoc, la giurisprudenza si è orientata nello stabilire che nell'ambito delle infezioni nosocomiali trovano applicazione i criteri generali; pertanto, in primo luogo va accertata la sussistenza di una relazione causale tra la prestazione sanitaria e l'infezione (che solo in caso positivo può dirsi “nosocomiale”); successivamente, va verificato se la condotta della struttura ospedaliera presenti profili di colpa causalmente ricollegabili al contagio ovvero se quest'ultimo dipenda da una circostanza non imputabile.

Ciò posto, e sempre in applicazione dei principi generali, l'onere della prova in materia di infezioni nosocomiali risulta così ripartito.

Il paziente deve provare che all'attività sanitaria è conseguito non già il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze del caso, bensì l'insorgenza di una lesione o patologia in precedenza insussistenti, tra le quali è da annoverarsi anche un processo infettivo contratto nel corso delle prestazioni ospedaliere.

Sulla struttura grava l'onere di provare che la prestazione è stata correttamente adempiuta (avendo in particolare posto in essere tutte le precauzioni idonee ad evitare l'insorgenza di infezioni) e che la patologia infettiva rappresenta una conseguenza inevitabile (nel senso che quand'anche prevedibile non era in alcun modo prevenibile) e, dunque, alla stessa non imputabile.

Non esiste dunque una responsabilità oggettiva della struttura per le ipotesi di infezioni nosocomiali, seppure non deve essere nascosta la difficoltà di fornire in concreto tale prova liberatoria.

A mero titolo di esempio riportiamo una recente decisione del Tribunale di Milano in relazione ad un'infezione occorsa all'esito di un intervento chirurgico agli arti inferiori per un problema settico che ha comportato la necessità di ulteriori interventi (Tribunale di Milano, sez. I, ord. 9 aprile 2019, n. 2728).

Il Tribunale – a fronte di una CTU che ha affermato la sicura natura nosocomiale dell'infezione, pur nell'incertezza in ordine alla sua specifica causa – ha ritenuto che le prove fornite dalla struttura sanitaria non fossero idonee ad escludere la colpa della stessa nella determinazione dei danni. Invero, nonostante la convenuta abbia genericamente dimostrato di aver adottato linee guida e protocolli diretti ad evitare le infezioni nosocomiali, è mancata la prova che, nel caso specifico, tali protocolli siano stati scrupolosamente osservati, in quanto dalla cartella clinica e dalla check list preoperatoria non è emerso il rispetto di tutte le attività di prevenzione.

In senso analogo si è pronunciato il Tribunale di Agrigento (Trib. Agrigento, 2 marzo 2016 n. 370), in un caso di infezione nosocomiale contratta in occasione di interventi chirurgici per il trattamento di una frattura al piede. In particolare, il Giudice ha rilevato la corretta somministrazione della terapia antibiotica e della profilassi pre e post operatoria, ma ha ritenuto che mancasse la prova sia della preesistenza dell'infezione sia dell'efficace asepsi della strumentazione chirurgica e degli ambienti ospedalieri; e ciò nonostante nella struttura ospedaliera fosse presente uno specifico organismo di gestione e controllo delle infezioni ospedaliere ed una convenzione con l'istituto di Igiene della facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di Palermo, per la consulenza ed il controllo delle infezioni ospedaliere ed il monitoraggio ambientale delle aree a rischio infettivo.

Interessante è anche la sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 257/2011, che si è pronunciata sull'inadeguatezza della prova liberatoria in riferimento al trattamento post-operatorio.

Il caso riguardava un'infezione conseguente a episiotomia non adeguatamente trattata, in quanto alla paziente erano stati somministrati antibiotici generici dopo tre giorni dall'intervento in luogo dei necessari antibiotici specifici e del preventivo esame di emocultura. La Suprema Corte affermò nel caso che, sebbene il trattamento antibatterico possa non avere successo, non si giustificava l'omissione delle indagini dirette ad accertare quali fossero i medicinali più efficaci (nella specie, l'emocultura).

Si pone quindi un tema in generale di provare (per la struttura) che sia stato fatto tutto il possibile in fase post-operatoria per debellare il batterio, dovendosi ritenere altrimenti inefficace la prestazione sanitaria e, quindi, sussistente la responsabilità della struttura per i danni conseguenti all'infezione.

La prova del corretto adempimento da parte della struttura ospedaliera deve dunque riguardare due aspetti:

  • il primo consiste nell'adozione di tutte le cautele previste dalle leges artis (sia in relazione ai locali che alla strumentazione) per prevenire l'insorgenza di patologie infettive;
  • il secondo consiste nella prescrizione di un trattamento terapeutico adeguato in seguito al contagio.

Tale prova liberatoria, tra l'altro, deve considerare attentamente tutte le circostanze del caso concreto, fornendo esempi specifici delle cautele in concreto adottate (esempi che devono emergere anche dalla cartella clinica) e non bastando una prova generica e decontestualizzata rispetto alla fattispecie in questione (quale, appunto, l'adozione di protocolli in materia di sterilizzazione e lo svolgimento di verifiche a campione della disinfestazione).

L'azienda onerata della prova, inoltre, deve dimostrare – sempre con stretto riguardo al caso concreto – l'efficacia delle procedure ad evitare l'evento e, dunque, che l'infezione sia anteriore all'intervento o legata ad un fattore imprevedibile. Infine, deve essere prodotta una cartella clinica dettagliata, che contenga l'indicazione di tutte misure applicate nella fase pre e post operatoria.

In sintesi, la prova per essere liberatoria deve essere specifica, efficace, dettagliata nonché comprovata dalla analitica compilazione della cartella clinica.

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Tuttavia, anche la posizione processuale del paziente che assuma un contagio o una infezione per la condotta colpevole della struttura sanitaria, è gravata di incombenti probatori di non poco conto.

Secondo la giurisprudenza più recente in tema di nesso causale, del resto, è sempre il paziente che ha l'onere di fornire la prova della sussistenza del nesso eziologico: “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato (paziente) provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione; l'onere per la struttura sanitaria di provare l'impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari” (Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392; in senso conf. Cass. civ., 16 gennaio 2009, n. 975; Cass. civ., 9 ottobre 2012, n. 17143; Cass. civ., 31 luglio 2013, n. 18341; Cass. civ., 12 settembre 2013, n. 20904; Cass. civ., 20 ottobre 2015, n. 21177; Cass. civ., 14 novembre 2017 n. 26824; Cass. civ., 7 dicembre 2017 n. 29315; Cass. civ., 29 gennaio 2018 n. 2061; Cass. civ., 15 febbraio 2018 n. 3704; Cass. civ., 21 marzo 2018 n. 7044; Cass. civ., 19 luglio 2018 n. 19204; Cass. civ., 20 novembre 2018 n. 29853, Cass. civ., 26 febbraio 2019 n. 5487 e, da ultimo Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28991 e 28992, nonché Cass. civ., 26 febbraio 2020 n. 5128).

Seguendo tali principi, ne consegue che: «Se, al termine dell'istruttoria resta incerta la reale causa del danno, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano quindi sull'attore», ed ancor più precisamente «la causa incognita resta a carico dell'attore relativamente all'evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell'istruttoria, resti incerta la causa del danno o dell'impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull'attore o sul convenuto» (Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392; in senso conf. Cass. civ., 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. civ., 14 novembre 2017 n. 26824; Cass. civ., 7 dicembre 2017 n. 29315; Cass. civ., 29 gennaio 2018 n. 2061; Cass. civ., 15 febbraio 2018 n. 3704; Cass. civ., 21 marzo 2018 n. 7044; Cass. civ., 19 luglio 2018 n. 19204; Cass. civ., 20 novembre 2018 n. 29853, Cass. civ., 26 febbraio 2019 n. 5487 e, da ultimo Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28991 e 28992, nonché Cass. civ., 26 febbraio 2020 n. 5128).

Una volta fornita tale prova, a questo punto, sarà la struttura a dover fornire la prova liberatoria.

In particolare: sulla responsabilità sanitaria da contagio nelle RSA

Cercando ora di avere ora una visione allargata, che vada oltre il tracciato della responsabilità comune da infezione nosocomiale è indubbio come il tema della responsabilità delle RSA sia molto delicato sotto tale profilo.

Le RSA, infatti, sono già state in questi giorni oggetto di attacchi sia sul fronte interno che sul fronte esterno.

Sul fronte interno i lavoratori delle RSA (dipendenti e/o collaboratori), hanno lamentato una carenza di sicurezza sul lavoro, con contagi da COVID 19 dei medesimi lavoratori, da qualificarsi come infortunio sul lavoro.

Sul fronte esterno, si sono attivati i parenti dei pazienti delle RSA i quali asseriscono che il contagio da COVID 19 sarebbe avvenuto all'interno della struttura.

Le RSA, in primo luogo, non possono essere equiparate ad una struttura ospedaliera, ma più propriamente a strutture “socio-sanitarie”.

Nelle “Linee Guida del Ministero della Sanità sulle residenze sanitarie assistenziali”, del 31 maggio 1994, si legge che: «la RSA rappresenta la collocazione residenziale dell'anziano e del soggetto disabile non assistibili adeguatamente a domicilio».

In pratica: «la RSA si colloca in una posizione particolare e sostanzialmente diversa sia dalle unità operative ospedaliere geriatriche, di riabilitazione e di lungodegenza, sia dalle attuali residenze extraospedaliere (case di riposo, case albergo, ecc.) che hanno per gran parte valenza sociale».

La R.S.A., in buona sostanza: «è il fulcro residenziale extraospedaliero dell'assistenza alla persona non autosufficiente».

Le Residenze sanitarie assistenziali (R.S.A.) realizzano: «un livello medio di assistenza sanitaria (medica, infermieristica e riabilitativa) integrato da un livello alto di assistenza tutelare ed alberghiera. È rivolta ad anziani non autosufficienti e ad altri soggetti non autosufficienti, non assistibili a domicilio. La RSA trova riferimento normativo nella legge n. 67/1988 e nel DPCM 22 dicembre 89».

Per quanto attiene gli aspetti strutturali ed organizzativi, l'unità di base è il modulo o nucleo, composto di 20-25 posti per gli anziani non autosufficienti e di 10-15 posti (secondo la gravità dei pazienti) per disabili fisici, psichici e sensoriali, utilizzando in maniera flessibile gli stessi spazi edilizi.

In base alle loro condizioni psico-fisiche, sono ospiti delle R.S.A.:

- anziani non autosufficienti (in media 4 moduli da 20-25 soggetti, fino ad un massimo di 6 moduli). Nelle R.S.A. per anziani, di norma, un modulo di 10-15 posti va riservato alle demenze;

- disabili fisici, psichici e sensoriali (in media 2 moduli, massimo 3 da 10-15 soggetti)”.

Sul piano delle tipologie edilizie: “le residenze sanitarie assistenziali utilizzano come moduli base:

- nuclei elementari singoli per anziani non autosufficienti da 20 a 25 posti che possono beneficiare anche dei servizi sanitari e sociali posti all'esterno;

- nuclei elementari singoli per disabili fisici, psichici e sensoriali da 10 a 15 posti che possono beneficiare anche dei servizi sanitari e sociali posti all'esterno.

Tali nuclei, variamente aggregati ed articolati tra loro, danno origine:

- per soggetti anziani non autosufficienti, a sistemi di più nuclei che non vanno di norma oltre gli 80 posti residenziali e che possono arrivare (garantendo un'idonea separazione tra nuclei) fino ad un massimo di 120 posti, in zone ad alta densità abitativa ed urbana. Tali strutture sono dotate di propri servizi sanitari e sociali secondo la composizione degli ospiti e con le adeguate connessioni con i servizi sanitari e sociali esistenti sul territorio. In ogni struttura con nuclei in numero di 4, o superiori a 4, va garantita la presenza di un nucleo riservato alle demenze;

- per disabili fisici, psichici e sensoriali, a sistemi di 2 0 3 nuclei, secondo la gravità della patologia e quindi da 20 a 45 posti residenziali”.

L'organizzazione per nuclei: «consente di accogliere anche nella stessa struttura residenziale gruppi di ospiti di differente composizione senza peraltro determinare interferenze - data la relativa autonomia dei servizi di nucleo -e salvaguardando tutti gli aspetti di riservatezza personale. Nel contempo, essa crea occasioni di socializzazione spontanea all'interno del nucleo, nelle relazioni tra nuclei e nei rapporti con i fruitori esterni del centro servizi a ciclo diurno, di cui la residenza deve essere possibilmente dotata. Oltre a garantire la migliore assistenza agli ospiti, anche sotto il profilo gestionale, l'organizzazione per nuclei modulari e dotati di servizi autonomi, appare essere la più idonea per un razionale impiego del personale e per la utilizzazione delle risorse».

La RSA, infine, debbono disporre di: «di spazi per le attività di servizio di ciascun nucleo e per le attività sanitarie curative e riabilitative comuni (da collocare preferibilmente in un'area dei servizi socio¬sanitari a ciclo diurno aperta anche alla fruizione della popolazione esterna) e di spazi per attività di tipo ricreativo e di relazione sociale che rivestono importanza fondamentale per il mantenimento dell'equilibrio psichico ed emotivo dell'ospite».

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Fatta questa doverosa premessa distintiva sul mondo RSA, che, come si è visto, è totalmente differente dal mondo ospedaliero, ed ha delle peculiarità proprie, a cominciare proprio dalla vita sostanzialmente in comune delle persone ivi ospitate, è altrettanto vero che, in quanto “struttura socio-sanitaria” la RSA è soggetta alle disposizioni della Legge Gelli (n. 24/2017), ed in particolare, per quanto ci riguarda, agli artt. 1 e 7 di tale normativa, che dispongono, rispettivamente:

Art. 1: «La sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell'interesse dell'individuo e della collettività. La sicurezza delle cure si realizza anche mediante l'insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all'erogazione di prestazioni sanitarie e l'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative. Alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in di convenzione con il Servizio sanitario nazionale».

Art. 7: «La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorche' non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attivita' di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina».

Le RSA, pertanto, pur svolgendo attività differenti da quelle svolte dalle strutture ospedaliere, sono a loro equiparate ai fini della sicurezza delle cure, prevenzione del rischio e responsabilità civile dalla Legge Gelli.

In una possibile vicenda che veda coinvolta una RSA in un contenzioso legato al supposto contagio per infezione da Covid 19 contratta da persone residenti/ospiti delle RSA, si pone in generale sul piano civilistico una delicata indagine del piano probatorio, che diversamente incombe sulle parti processuali: sulla parte istante che lamenti l'avvenuto contagio in degenza, e sulla parte resistente che invece, sarà chiamata a dimostrare la inesistenza causale fra regole di contenimento infettivo e contagio del paziente.

L'origine dell'infezione da COVID 19 nei pazienti di una RSA, a ben vedere, può essere stata provocata da tre fattori:

- Un parente e/o visitatore che ha portato l'infezione all'interno della struttura;

- Un operatore sanitario infetto che lavorando all'interno della struttura ha diffuso il virus;

- Un paziente proveniente da altra struttura affetto da COVID 19 che ha portato all'interno della struttura il virus.

Partiamo dall'ultima ipotesi che è quella che ha provocato più clamore mediatico, a causa del fatto che, quantomeno per la Regione Lombardia, a far data dall'08 marzo 2020, a seguito della Deliberazione XI/2906, alcune RSA, hanno accettato al loro interno persone provenienti da strutture ospedaliere esterne, affette dall'infezione e “ritenute” guarite.

Leggendo tale provvedimento, si può notare come la Regione Lombardia, in considerazione della situazione emergenziale abbia approvato uno specifico allegato 2: «contenente le indicazioni specifiche alle strutture extra ospedaliere affinché possano fornire il supporto all'assistenza dei pazienti durante la fase emergenziale così come specificate».

Nell'allegato 2, in particolare, si legge che: «A fronte della necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti, occorre mettere a disposizione del Sistema Regionale i posti letto delle “Cure extra ospedaliere” (subacuti, postacuti, riabilitazione specialistica sanitaria (in particolare pneumologica), cure intermedie intensive e estensive, posti letto in RSA).

A tal fine si dispose: - una ricognizione dei posti letto disponibili in Regione Lombardia nei diversi setting di cura extra ospedaliere sopra elencati; - il blocco da lunedì 9 marzo p.v. dell'accettazione di pazienti provenienti dal territorio verso le strutture sopraelencate;- l'anticipo delle dimissioni verso il domicilio dei pazienti ricoverati presso le strutture sopra elencate;- il blocco del 50% del turn over delle RSA che abbiano le seguenti caratteristiche:

o presenza di assistenza medica H24;

o assistenza infermieristica H24;

o presenza di specialisti geriatri / cardiologi / pneumologi;

o possibilità di effettuare indagini di laboratorio;

o possibilità di effettuare diagnostica radiologica;

o possibilità di garantire ossigenoterapia;

Sul piano operativo, venne prevista l'istituzione di una “Centrale Unica Regionale Dimissione Post Ospedaliera” atta a ricevere le richieste di dimissione da parte degli ospedali per acuti ed a individuare in modo appropriato la struttura di destinazione.

Venne altresì stabilito l'onere di individuare da parte delle ATS le strutture autonome dal punto di vista strutturale (padiglione separato dagli altri o struttura fisicamente indipendente) e dal punto di vista organizzativo, sia fra le strutture non inserite nella rete dell'emergenza urgenza e POT, sia tra strutture della rete sociosanitaria (ad esempio RSA) da dedicare all'assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi».

È stata prevista una: “Centrale Unica Regionale Dimissione Post Ospedaliera” che, tra le altre cose, faciliti: “i rapporti tra struttura dimittente e strutture accettanti, garantendo la pianificazione, la regia e il monitoraggio d'esito dell'intero percorso assistenziale che si colloca tra la dimissione ospedaliera e il rientro a domicilio” e operi: “in coordinamento con l'Unità di Crisi regionale” ponendo: “la propria operatività tra … cure intermedie sociosanitarie intensive (specialistica e generale-geriatrica) e estensive (mantenimento), RSA convertite in mantenimento/post-acuta, e PRINGE e post-acuta già Contrattualizzati”.

La Delibera Regionale, poi, prevede che a carico dell'ATS vi sia l'attività di: «individuare, per il territorio di riferimento, strutture sanitarie e sociosanitarie che rispondano ai requisiti sopra descritti; individuare, per il territorio di riferimento, strutture sanitarie e sociosanitarie autonome dal punto di vista strutturale (padiglione separato dagli altri o struttura fisicamente indipendente) e organizzativo da dedicare all'assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi; individuare, per il territorio di riferimento, posti letto di riabilitazione specialistica dedicata; individuare, per il territorio di riferimento, la rete di riabilitazione specialistica pneumologica da destinare ai pazienti COVID e le strutture di riabilitazione specialistica pneumologica da riservare ai pazienti non COVID che necessitano di interventi riabilitativi pneumologici specialistici; .. assicurare la possibilità di consulenza palliativa presso le Strutture Sociosanitarie o Sanitarie dedicate a pazienti COVID (POT, RSA che soddisfano la caratteristica di indipendenza di cui sopra, etc…); monitorare l'appropriata e tempestiva transizione delle strutture coinvolte nel processo per una pronta implementazione dello stesso; gestire gli aspetti di modifica e integrazioni contrattuale correlate all'attivazione di questi servizi sulla base delle indicazioni regionali che verranno emanate».

Venne previsto che le RSA (così come le altre strutture coinvolte), peraltro, ricevano un “riconoscimento economico” ed un “incremento di budget” per tale attività, la cui formalizzazione viene: “demandato a successivi provvedimenti”.

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Anche per quanto riguarda la questione della diffusione del virus per l'ingresso di parenti affetti da COVID all'interno delle strutture, si annotano provvedimenti normativi che hanno disciplinato le modalità di accesso e di visita.

A questo proposito è altresì vero che solo con il DPCM del 01 marzo 2020 venne disposto dall'art. 2 lettera K che: «Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nelle regioni e nelle province di cui all'allegato 2 (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e le Province di Pesaro e Urbino e Savona) sono adottate le seguenti misure di contenimento .. k) rigorosa limitazione dell'accesso dei visitatori agli ospiti nelle residenze sanitarie assistenziali per non autosufficienti».

Il DPCM del 04 marzo 2020, all'art. 1, lettera m) ha poi esteso a tutto il territorio nazionale la previsione che: «Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19, sull'intero territorio nazionale si applicano le seguenti misure: m) l'accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (RSA) e strutture residenziali per anziani, autosufficienti e non, è limitato ai soli casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura, che è tenuta ad adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezione».

L'art. 2 del medesimo DPCM ha inoltre previsto che: «Sull'intero territorio nazionale si applicano altresì le seguenti misure: a) il personale sanitario si attiene alle appropriate misure di prevenzione per la diffusione delle infezioni per via respiratoria previste dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e applica le indicazioni per la sanificazione e la disinfezione degli ambienti previste dal Ministero della salute;… f) ) nelle pubbliche amministrazioni e, in particolare, nelle aree di accesso alle strutture del servizio sanitario, nonché in tutti i locali aperti al pubblico, in conformità alle disposizioni di cui alla direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione 25 febbraio 2020, n. 1, sono messe a disposizione degli addetti, nonché degli utenti e visitatori, soluzioni disinfettanti per l'igiene delle mani».

Con il DPCM 08 marzo 2020 vengono letteralmente riproposte le medesime misure previste dal DPCM del 04 marzo 2020. L'art. 2 lettere q), infatti, ribadisce che: «1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19, sull'intero territorio nazionale si applicano le seguenti misure: q) l'accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (RSA), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani, autosufficienti e non, è limitata ai soli casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura, che è tenuta ad adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezione».

Va detto dunque, per onor del vero, che fino al 01 marzo 2020 non vi era alcun limite normativamente previsto all'accesso di parenti e visitatori nelle RSA.

Un vero limite stringente su tutto il territorio nazionale venne introdotto a livello centrale e generale solo a far data dal 04 marzo 2020, lasciando peraltro la possibilità alle direzioni sanitarie ancora di far entrare parenti e visitatori, seppure con l'obbligo di «adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezione».

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Da ultimo un cenno (ed un profilo di approfondimento istruttorio) dovrà essere dedicato anche alla questione della regolazione e della reperibilità dei presidi previsti anche sul piano diagnostico / preventivo (tamponi e dei DPO, quali mascherine, ecc.).

Per fare un esempio, e rimanere in un contesto territoriale grandemente esposto alla crisi epidemiologica, sempre la Regione Lombardia con l'ordinanza n. 514 del 21 marzo 2020 non pare aver espressamente previsto per gli operatori delle strutture socio-sanitarie il monitoraggio clinico quotidiano e la conseguente necessità di effettuare dei tamponi in caso di temperatura corporea oltre la soglia critica.

Vero è altresì che gli operatori sanitari delle strutture socio- sanitarie come le Rsa sono stati parificati a quelli delle strutture ospedaliere solo il 27 marzo 2020 quando la Regione ha annunciato il via libera allo screening degli operatori delle Rsa alle stesse condizioni del personale ospedaliero.

Inoltre, il 30 marzo, con la delibera XI/3018, la Regione Lombardia ha previsto l'effettuazione dei tamponi anche per gli ospiti delle Rsa con sintomi covid. Il compito di assegnare alle strutture un laboratorio di riferimento e definire le relative procedure è stato tra l'altro attribuito all'Agenzia per la tutela della salute, l'Ats.

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Se quella che precede è una indagine – come ci pare – quanto più fedele alla realtà normativa che ha regolato (con funzione anche di indirizzo e guida delle stesse strutture sanitarie a diverso titolo coinvolte (e primariamente proprio le RSA), appare evidente che le strutture socio sanitare siano state esposte ad un succedersi di provvedimenti normativi e disposizioni tutt'altro che chiare.

Ci si è trovati di fronte pertanto ad una situazione di assoluta emergenza, non solo regionale o nazionale, ma mondiale, dal momento che l'OMS, dopo aver parlato di epidemia in data 30 gennaio 2020, ha dichiarato ufficialmente la pandemia il 13 marzo 2020, per un virus che ha fatto la sua comparsa nel mondo (anche scientifico) solamente nel gennaio del 2020.

Anche per le aziende sanitarie, dunque, oltre che per gli operatori come sopra detto, potrà essere altresì invocata la disposizione di cui all'art. 2236 c.c. che, ricordiamo, prevede che: «Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave».

È certamente noto che in particolare le disposizioni di cui all'art. 2236, in primo luogo, si applicano ai soli casi di imperizia e non di imprudenza e negligenza: «la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell'art. 2236 c.c. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà (perché trascendono la preparazione media o perché non sono stati ancora studiati a sufficienza, ovvero dibattuti con riguardo ai metodi da adottare) e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica provochi un danno per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione; la sussistenza della negligenza va valutata in relazione alla specifica diligenza richiesta al debitore qualificato dall'art. 1176 comma 2 c.c. ed il relativo accertamento compete al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato” (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 5945 del 10 maggio 2000; in senso conforme Cass. civ., Sez. III, sent. n. 6937 del 1 agosto 1996 e Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2014 n. 5506).

In secondo luogo, la norma è stata prevista dal Legislatore per il prestatore d'opera e non per le strutture, anche se «l'art. 2236 c.c. …sebbene collocato nell'ambito della regolamentazione del contratto d'opera professionale, è applicabile, oltre che nel campo contrattuale, anche in quello extracontrattuale, in quanto prevede un limite di responsabilità per la prestazione dell'attività professionale in genere, sia che essa si svolga sulla base di un contratto, sia che venga riguardata al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio» (Cass. civ., Sez. II civ. 17 marzo 1981 n. 1544).

In ogni caso, l'unica cosa sicura è che le strutture socio-sanitarie dovranno, come abbiamo in precedenza anticipato, attrezzarsi sotto il profilo difensivo, avendo comunque l'onere di fornire la prova liberatoria.

E dunque, sinteticamente, e a mero titolo esemplificativo ed esaustivo:

  • provare quando sono stati chiusi gli accessi al pubblico (parenti e visitatori) degli ospiti delle RSA;
  • quando e come il personale delle RSA è stato dotato di dispositivi di sicurezza;
  • se i dispositivi di sicurezza erano idonei;
  • in quali reparti i pazienti accolti sulla base della Delibera della Regione Lombardia sono stati sistemati, quale personale era addetto.

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Sul fronte dell'indagine giudiziale crediamo che, a valle delle riflessioni che precedono, i canoni di accertamento della responsabilità da contagio Covid-19 in struttura e nelle RSA dovrà necessariamente accedere a questi nuclei fattuali:

a) individuazione degli specifici profili di rischio in base alla tipologia della struttura interessata e dell'attività ivi svolta;

b) ricognizione e analisi di tutte le attività clinico-assistenziali svolte dall'inizio dello stato di emergenza dovuto alla diffusione del virus Covid19 (numero di pazienti trattati, numero di nuovi accessi/dimissioni, numero di trasferimenti tra diversi reparti/strutture, altro);

c) ricognizione e analisi di tutte le misure organizzative assunte per far fronte a tale emergenza a tutela dei pazienti e del personale dipendente (elaborazione e implementazione di protocolli e procedure, indicazioni impartite al personale, limitazioni agli accessi, limitazione delle attività clinico-assistenziali, riorganizzazione del lavoro, approvvigionamento e distribuzione dei dispositivi di protezione individuale, altro)

d) ricognizione a analisi di tutte le indicazioni ricevute dalle Autorità ministeriali, regionali e locali e dell'eventuale corrispondenza con tali Autorità (compresa l'eventuale adesione a specifiche iniziative per la gestione dell'emergenza);

e) ricognizione e analisi di tutte le eventuali segnalazioni pervenute alla struttura dai dipendenti, dalle rappresentanze sindacali, dai pazienti e dai loro familiari in relazione alla gestione dello stato di emergenza dovuto alla diffusione del virus Covid19 e alle loro condizioni/preoccupazioni in tale contesto;

f) ricognizione e analisi di tutte le eventuali iniziative giudiziarie già assunte nei confronti della struttura o comunque prospettate in termini concreti (tramite lettere di diffida o simili);

g) ricostruzione dello stato epidemiologico della struttura (numero di tamponi eseguiti, numero di casi con positività Covid19 registrati tra il personale e i pazienti, numero di decessi in presenza di positività Covid19 o di sospetta positività, confronto rispetto al numero di decessi riscontrato nello stesso periodo dell'anno scorso, confronto rispetto ai dati statistici relativi ad altre realtà aziendali e regionali così come riportati negli studi ISS, altro);

h) ricognizione e analisi di tutti i presidi organizzativi già esistenti (sistema di gestione della sicurezza, modello di organizzazione, gestione e controllo ex d.lgs. 231/2001, procedure interne, altro) e valutazione della rispettiva tenuta ed efficacia in caso di accertamento da parte dell'Autorità giudiziaria;

i) ove necessario, aggiornamento o redazione ex novo dei necessari presidi organizzativi (sistema di gestione della sicurezza, modello di organizzazione, gestione e controllo ex d.lgs. 231/2001, procedure interne, altro) e assistenza nella relativa implementazione, anche al fine di predisporre una più efficace difesa della struttura in caso di eventuali contestazioni ex d.lgs. 231/2001, nonché di prevenire l'applicazione di eventuali misure interdittive, anche in via cautelare.

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Ebbene, se una riflessione deve esserci concessa dopo questa analisi della realtà anche normativa che si aprirà di fronte a chi sarà attore, convenuto e mediatore (nel senso della funzione giurisdizionale) delle diverse istanze e proposizioni difensive processuali, è che la complessità del quadro storico, epidemiologico e normativo dovrà essere ben delineato e valorizzato primariamente da chi proporrà l'istanza risarcitoria e la censura alla condotta dell'azienda.

Ciò non solo per rispetto dei canoni distributivi dell'onere probatorio che reggono il processo civile, ma anche, e soprattutto (ci sia concesso) per un doveroso rispetto verso chi in questi mesi si è trovato esposto ad una azione virale mai indagata in precedenza e del tutto esente da regolazioni guida.

Questo per non esporre ingiustamente coloro che, a vario titolo e livello siano già stati provati dalla virulenza della realtà clinica, a coinvolgimenti giudiziari infondati o pretestuosi che non siano sostenuti da fondata istanza, magari per un approccio superficiale e non ben allineato ai canoni giuridici richiamati.

Sulla quantificazione dei possibili danni

Non di poco conto è il tema dei possibili danni risarcibili a fronte della nuova realtà da “responsabilità da “Covid”.

Un tema che si è già posto è, innanzitutto, quello della indagine causale diretta delle possibili conseguenze virali, soprattutto rispetto a quei pazienti (presenti spesso nei reparti di degenza ovvero all'interno delle strutture di accoglienza cd RSA) i quali presentavano (e presentano) diverse patologie pregresse, indipendenti dal COVID.

A tale proposito si impongono due osservazioni.

In primo luogo, dovrà essere fornita dagli istanti la prova che i loro congiunti siano davvero deceduti a causa del COVID e non in presenza di COVID.

Una statistica (certamente oggi purtroppo da aggiornare ma indice degli andamenti percentuali per di più in una fase assai aggressiva del virus) riferita ufficialmente dall'ISS al 16.04.2020 stabilisce che, su 1738 pazienti deceduti “il numero medio di patologie osservate su questa popolazione è di 3,3”.

Solo 62 pazienti dunque presentavano 0 patologie (cioè il 3,6%).

Va rammentato che secondo giurisprudenza ormai pacifica: «se l'azione o l'omissione colpevole concorre con la causa naturale nella produzione dell'evento lesivo, sul piano della causalità materiale sarà del tutto indifferente la preesistenza, coesistenza o concorrenza della causa naturale stessa» (in senso contrario, non condivisibilmente, Cass. civ., n. 975/2009). Le conseguenze dannose della lesione, invece, valutate sul piano della causalità giuridica (criterio eziologico che indaga, appunto, sulla relazione tra la lesione e le sue conseguenze), andranno liquidate, nella loro effettiva e complessiva consistenza, attribuendo all'autore dell'illecito la (sola) percentuale di aggravamento della situazione preesistente (Cass. civ., n. 15991/2011; Cass. civ., n. 28986/2019; Cass. civ., 15 gennaio 2020 n. 514).

Non di minor conto, nei meccanismi di valutazione rispetto ai noti di liquidazione compensativa dei danni alla persona (oggi a livello nazionale tutti riferibili alle note “tabelle milanesi”) è la variabile legata all'età media (decisamente avanzata) delle persone statisticamente decedute che, pertanto, avevano aspettative di vita ridotte.

Sempre sulla scorta dei dati ufficiali dell'ISS: “al 16 aprile sono 227 dei 19.996 i pazienti deceduti positivi all'infezione da SARS COV2 di età inferiore ai 50 anni (1,1%)”.

La maggioranza invece delle persone decedute aveva tra gli 80 e gli 89 anni (40,5%).

Infine, di difficile collocazione medico legale e scientifica potrà anche essere l'inquadramento della natura dei danni residuali o permanenti a chi abbia contratto e subito gli effetti del Covid (per ragioni causalmente imputabili a condotte colpose di terzi), rispetto agli effetti privativi delle funzionalità biologiche ed esistenziali. Si ritiene, infatti, che i “guariti da Covid” per lo più residuino postumi permanenti di portata relativa riferibili per lo più a conclamate insufficienze respiratorie.

Sia i profili di causalità giuridica e materiale, sia quelli legati alla portata dei danni subiti nella proiezione causale propria del danno risarcibile (quello certamente riferibile alla colpa dell'operatore sanitario o meno cui attribuire l'evento patogenetico del danno preteso) avranno dunque un riflesso essenziale nell'impatto macroeconomico che, alla fine dell'iter accertativo e valutativo di eventuali responsabilità e danni da “Covid” graverà sul sistema sanitario in via diretta ovvero anche indiretta (in caso di copertura assicurativa valida per lo specifico rischio) .

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