La responsabilità delle Strutture sanitarie e delle Regioni in materia di contagio

16 Settembre 2020

Gli Autori affrontano la tematica Covid-19 e le responsabilità delle strutture nei confronti dei pazienti-utenti e dei propri dipendenti sanitari. Seguirà un approfondimento in merito al rischio organizzativo e alle possibili esimenti per gli operatori sanitari.
Premessa necessaria. Il maldestro tentativo di offrire uno scudo agli operatori sanitari *

* Giovanni Pasceri

La preoccupazione, che da “eroi” i medici diventino facile bersaglio di richieste di risarcimento dei danni e dei pregiudizi subiti dai pazienti a causa dell'emergenza Covid-19, in caso di omessa o ritardata diagnosi, ovvero a causa di lesioni o morte di pazienti che pur non direttamente riconducibili all'episodio pandemico, possano essere indirettamente collegabili a tale causa, ha visto fiorire diverse proposte normative, a dir la verità, apparse, da subito, volte a creare una “sanatoria generale” principalmente per le Aziende Sanitarie e le loro scelte organizzative, spesso abnormi, rispetto alle concrete esigenze e alle necessità organizzative definite con il processo di Aziendalizzazione sanitaria e conseguentemente per le Regioni e le loro responsabilità derivanti dalla modifica del titolo V della Costituzione in conseguenza alla L. Cost. n. 3/2001 che ha mutato profondamente la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni.

Sul punto, la Corte Costituzionale che con sentenza n. 510/2002, già all'indomani della riforma costituzionale, evidenziava “il quadro delle competenze è stato profondamente rinnovato ed in tale quadro le Regioni possono esercitare le attribuzioni, di cui ritengano di essere titolari, approvando una propria disciplina legislativa anche sostitutiva di quella statale”.

Le proposte alluvionali sono sembravate cogliere l'interesse di bilanciare i due valori contrapposti: il diritto della salute da una parte e, allo stesso tempo, il diritto di proteggere i sanitari (e con esso le Regioni e le Aziende sanitarie) da azioni intentate, spesso, senza un concreto fondamento giuridico. Esse piuttosto sono apparse sostanzialmente tese a garantire una “impunità generalizzata” che, per diverse ragioni, nel nostro ordinamento non può fare ingresso.

In particolare, l'emendamento proposto al Senato della Repubblica, in sede di conversione in legge del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 (1766), del 1 aprile 2020, «Responsabilità datori di lavoro operatori sanitari e sociosanitari» stabiliva che: 1. Le condotte dei datori di lavoro di operatori sanitari e sociosanitari operanti nell'ambito o a causa dell'emergenza COVID-19, nonché le condotte dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio non determinano, in caso di danni agli stessi operatori o a terzi, responsabilità personale di ordine penale, civile, contabile e da rivalsa, se giustificate dalla necessità di garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell'assistenza sanitaria indifferibile sia in regime ospedaliero che territoriale e domiciliare. 2. Dei danni accertati in relazione alle condotte di cui al comma 1, compresi quelli derivanti dall'insufficienza o inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale, risponde civilmente il solo ente di appartenenza del soggetto operante ferme restando, in caso di dolo, le responsabilità individuali». Senza entrare nel merito della questione, la cui analisi ci spingerebbe ad affrontare temi e istituti necessariamente in modo più approfondito rispetto allo scopo del presente contributo, appare chiaro che, anche tale emendamento, nella sua genericità e indeterminatezza, è apparso in prima specie incostituzionale oltre ad essere non conforme agli ordinari canoni regolatori dei principii della responsabilità civile e penale conseguente a contratto o fatto illecito.

La proposta di emendamento al Decreto “Cura Italia”, conseguentemente, è stata “ritirata” non solo in ragione di tali rilievi ma, soprattutto, in conseguenze delle vibranti proteste avanzate da più parti ed in particolare dagli stessi sindacati di categoria, che, appunto, hanno denunciato come l'emendamento fosse finalizzato ad offrire uno “scudo” alle Regioni e alle Strutture sanitarie che, in questo modo si sarebbero defilate dalla propria responsabilità organizzativa e gestionale rispetto i propri operatori sanitari contagiati o deceduti a causa della mancanza di dispositivi individuali di protezione.

La norma, così come formulata, risultava “premiale” per le Regioni ed Aziende sanitarie a cui potrebbe essere contestata una eventuale responsabilità (che verrà nel caso contestata e accertata) rispetto quelle Regioni e Aziende sanitarie che, invece, hanno gestito in modo corretto e con i mezzi adeguati l'evento pandemico.

Infine, per completezza, sulla medesima questione, sono state avanzate, in modo disorganico, diverse proposte normative le quali però, anch'esse, in modo più o meno evidente, soffrivano della genericità nella determinazione della fattispecie, nonché della mancanza di aderenza ai contrapposti principii costituzionali intesi a garantire la tutela dei cittadini e degli operatori sanitari rispetto lo scopo di “proteggere” le Aziende e le Regioni, da azioni civili e penali, spesso, meramente “esplorative”, che non tengono conto della coartazione delle ordinarie cautele esigibili dalle strutture sanitarie e dagli stessi operatori in seguito alla lotta contro la pandemia determinata dal Covid-19 (in questo senso: Cupelli: Spunti sull'art. 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (convertito nella legge 5 giugno 2020, n. 40) in Sistema Penale, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Giuridiche “C. Beccaria”).

Segue. Il tentativo di accedere ed estrarre copia dei verbali del Comitato Tecnico Scientifico

La questione, tuttavia, a causa dell'elasticità delle competenze non chiaramente definite tra Stato e Regioni in seguito alla modifica del Titolo V della Costituzione, rischia, di intaccare non solo le singole Regioni ma anche lo stesso Governo e la sua organizzazione.

Per tali ragioni, il Presidente del Consiglio Conte e i Ministri Bonafede, Di Maio, Gualtieri, Guerini, Lamorgese e Speranza hanno ricevuto una notifica riguardante un avviso ex art. 6, comma 2, legge cost. n. 1/1989 da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma che comunica loro la trasmissione al Collegio di cui all'art. 7 della citata l.Cost. n. 1/1989 degli atti di un procedimento penale che sarebbe iscritto le ipotesi di reato in concorso (art. 110), epidemia (art. 438), delitti colposi contro la salute pubblica (art. 452) e omicidio colposo (art. 589), abuso d'ufficio (art. 323), attentato contro la costituzione dello Stato (art. 283), attentati contro i diritti politici del cittadino (art. 294) in seguito a diverse denunce presentate da diversi soggetti in relazione alla gestione dell'emergenza Covid-19. La trasmissione da parte della Procura al predetto collegio, accompagnata da una relazione nella quale l'Ufficio della Procura "ritiene le notizie di testo infondate e dunque da archiviare", successivamente in effetti archiviate.

Residuano, in virtù delle richiamate competenze regionali e dell'autonomia gestionale delle singole Aziende, le eventuali responsabilità in ordine alla gestione sul territorio dell'evento pandemico.

Si pensi al fatto che già in data 26 gennaio 2020 il Ministero della Salute aveva, già, emanato una direttiva finalizzata all'esecuzione di una attività di screening per gli aeroporti di Fiumicino e Malpensa così come il giorno successivo 27 gennaio 2020 l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava il Coronavirus a “rischio globale elevato”, ovvero alla successiva del 31 gennaio 2020 con la quale il Consiglio dei Ministri, aveva -già - dichiarato lo “stato di emergenza” su tutto il territorio nazionale, in ragione dell'allarme lanciato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.

Se ciò è vero, alla data del 2-3 febbraio 2020, quando l'INMI, l'Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, isolava il virus, restavano pochi dubbi circa la natura pandemica già segnalata dal Governo cinese e dall'O.M.S.

Proprio in ragione a tale profilo, la Fondazione Enaudi ha richiesto al Governo e per esso alle sue competenti Amministrazioni, mediante accesso generalizzato, di accedere ed estrarre copia dei verbali (i. 28 febbraio 2020, citato nelle premesse del DPCM del 1° marzo 2020; ii) 1° marzo 2020, citato, anch'esso nelle premesse del DPCM del 1° marzo 2020; iii) 7 marzo 2020, citato nelle premesse del DPCM dell'8 marzo 2020; iv) n. 39 del 30 marzo 2020, citato nelle premesse del DPCM del 1° aprile 2020; v) n. 49 del 9 aprile 2020, citato nelle premesse del DPCM del 10 aprile 2020) del Comitato Tecnico Scientifico, nominato ai sensi dell'art. 2 dell'O.C.D.P.C. n. 360/2020, che costituiscono atti presupposti, -siano essi intesi come atti vincolanti o meno-, sottesi ai DPCM emessi in fase di lockdown anche in ragione delle “valutazioni”, evidentemente scientifiche, espresse dal Comitato Tecnico Scientifico.

La richiesta, peraltro, è stata giustificata anche in conseguenza al fatto che gli stessi verbali non sono stati pubblicati e che, allo stesso tempo, sono stati puntualmente richiamati a supporto dell'emanazione dei DPCM nelle more emanati dal Consiglio dei Ministri.

Allo stesso tempo, per la natura dell'atto e per la preminenza dell'interesse collettivo e del diritto alla salute, non appare una evidenza che depone per la loro “riservatezza”.

Nonostante ciò, alla Fondazione è stato negato l'accesso ai verbali del Comitato, tanto da costringere la predetta Fondazione a ricorrere avanti il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sede di Roma, il quale, al contrario, ha disposto il diritto di “accesso generalizzato”, entro trenta giorni, ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico motivando, in modo attento e puntuale, le ragioni di fatto e di diritto che sostengono la richiesta di accesso: «Le misure restrittive di diritti e libertà di rango costituzionale imposte agli italiani risulterebbero motivate sulla scorta delle valutazioni operate dal Comitato tecnico scientifico».

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. I- quater, sentenza 13 – 22 luglio 2020, n. 8615, Presidente Caminiti – Estensore Pisano, accogliendo il ricorso promosso, ha concluso: «la ratio dell'intera disciplina normativa dell'accesso impone di ritenere che se l'ordinamento giuridico riconosce, ormai, la più ampia trasparenza alla conoscibilità anche di tutti gli atti presupposti all'adozione di provvedimenti individuali o atti caratterizzati da un ben minore impatto sociale, a maggior ragione deve essere consentito l'accesso ad atti, come i verbali in esame, che indicando i presupposti fattuali per l'adozione dei descritti DPCM, si connotano per un particolare impatto sociale, sui territori e sulla collettività». Secondo il TAR Lazio, infatti, «I DPCM, oggetto dell'odierno contenzioso sono atti amministrativi generali, frutto di attività ampiamente discrezionale ed espressione di scelte politiche da parte del Governo che trovano la propria fonte giuridica nella delega espressamente conferita dal legislatore all'esecutivo in un atto avente forza di legge, ovvero, in particolare dapprima nell'articolo 3 del decreto legge 6/2020, convertito con Legge n. 13/2020 e, poi, nell'articolo 2 del decreto legge 19/2020, convertito con legge 35/2020, e rinvengono la propria ragione nell'esigenza temporanea ed urgente di contenere e superare l'emergenza epidemiologica causata dal Covid-19».

Contrariamente all'obbligo imposto dal Tribunale Amministrativo, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Protezione Civile, di consentire alla parte ricorrente, Fondazione Enaudi, di prendere visione ed estrarre copia della documentazione richiesta nel termine di giorni trenta decorrente dalla comunicazione dell'istanza o, se a questa anteriore, dalla notificazione dell'ordinanza emessa dal T.A.R. Lazio, la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Protezione Civile, ha impugnato la predetta Ordinanza avanti al Consiglio di Stato, minando così alla base le ragioni di trasparenza indicate dal T.A.R. Lazio Roma.

Nelle more con provvedimento n. 4574/2020 Reg. Prov. Caut, emesso dalla terza sezione del Consiglio di Stato, ha però stabilito che, sino al 10 settembre i verbali del Comitato Tecnico Scientifico possono rimanere riservati in virtù del fatto gli stessi «hanno costituito il presupposto per l'adozione di misure volte a comprimere fortemente diritti individuali dei cittadini, costituzionalmente tutelati ma non contengono elementi o dati che la stessa appellante abbia motivatamente indicato come segreti" e, dunque, "le valutazioni tecnico-scientifiche si riferiscono a periodi temporali pressoché del tutto superati" e che "la stessa Amministrazione, riservandosi una volontaria ostensione fa comprendere di non ritenere in esse insiti elementi di speciale segretezza da opporre agli stessi cittadini», sospendendo il provvedimento del TAR Lazio.

La novità di maggiore rilievo è la spontanea ostentazione da parte del Governo dei cinque verbali richiesti dalla Fondazione Enaudi. Dai cinque verbali datati 28 febbraio, 1 marzo, 7 marzo, 30 marzo e 9 aprile 2020, sostanzialmente risulta che il 7 marzo 2020 il Comitato tecnico scientifico aveva proposto al Governo di «adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus (specificatamente: Lombardia e nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti), l'altro sul territorio nazionale» mentre, in realtà, due giorni dopo, il Presidente del Consiglio dei Ministri con il DPCM del 9 marzo 2020 determina il lockdown sull'intero territorio nazionale.

La responsabilità della struttura sanitaria come datore di lavoro. Introduzione **

** Valentina Vitale

La pandemia da COVID-19, come il terremoto, è un evento quanto inevitabile quanto, nella sua verificazione, prevedibile.

Analogamente al terremoto, non può aversi certezza del “quando” avverrà e della “gravità” degli effetti ma questo non giustifica una impreparazione organizzativa e gestionale da parte di alcune Aziende sanitarie (in questo modo Pasceri: Libera professione bloccata in molte Regioni. Ecco perché illegittimo, in Doctor33 del 31 maggio 2020)

Utilizzando la medesima analogia, così come non è possibile costruire case senza rispettare le norme antisismiche, del pari, non è tollerabile che le Regioni e Strutture sanitarie siano prive di un piano sanitario per le emergenze infettive o pandemiche sempre più frequenti (si pensi all'ordinaria influenza stagionale più o meno virulenta, alla Sars, all'Aviaria H5N1, alla cd. influenza suina A H1N1 solo per citare le ultime pandemie sviluppate, sostanzialmente, nell'ultimo decennio).

Non è parimenti tollerabile che le Aziende sanitarie e le Regioni, a cui spetta la vigilanza, consentano in modo sistematico e costante essere sotto organico e adottino, sovente, scelte organizzative contrarie alle normative vigenti (si pensi, ad esempio, alla mancata attivazione della guardia attiva o dell'utilizzo anomalo della guardia attiva, alla telemedicina senza la dovuta giustificazione, alla disorganizzazione gestionale etc., al blocco della mobilità sostituibile a costo zero con un contratto a tempo determinato in attesa dello svolgimento del concorso etc,) sino ad arrivare alla mancata presenza dei dispositivi di protezione individuale per gli stessi operatori etc.

È noto che l'influenza e le pandemie influenzali si trasmettono in modo pressoché simile sicché non è, ancora una volta, tollerabile che alcune aziende sanitarie siano prive di un piano organizzativo e dei necessari dispositivi di protezione individuale e ciò proprio in ragione della sostenuta

e

difesa della regionalizzazione del sistema sanitario e aziendalizzazione del sistema sanitario, sempre difesa soprattutto quando si tratta di “amministrare” l'oramai servizio sanitario regionale.

La frammentarietà normativa si riscontra anche in materia di igiene e sicurezza sul luogo di lavoro, laddove l'art. 117 Cost., comma 3, colloca tra le materie riservate alla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni anche la tutela e sicurezza del lavoro spettando alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, determinando in modo «criptico in merito ai contenuti ed ai confini della competenza legislativa attribuita alle Regioni» (così: Magnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, in ADL, 2002 n. 3, 646).

La riforma federalista dello Stato e il decentramento amministrativo hanno poi favorito una disorganicità e stratificazione normativa che determina una irregolare ripartizione del concreto interesse pubblico generale i cui confini, sovente, sono opachi.

In un siffatto quadro di torbidità normativa vengono favorite anche inconsapevolmente, forme di irresponsabilità nell'applicazione dei principi in materia di sicurezza sul luogo di lavoro e dei principi sottesi al sistema sanitario nazionale: «Ci si riferisce, nel caso di specie, non al conflitto di attribuzione che avviene tra soggetti che appartengono a diversi poteri dello Stato, ma al conflitto di competenza tra Stato e Regione che può sorgere quando un atto, dello Stato o di una Regione, sia reputato immediatamente e direttamente invasivo dell'altrui sfera di competenza o anche quando, è stato ritenuto, sia anticipato da un altro atto che ne costituisca il precedente logico e giuridico o determini una mera e necessaria esecuzione all'atto contestato. La modifica del titolo V della Costituzione ha determinato il nascere di una copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha tentato, in mancanza di chiare norme delineatrici delle competenze tra Stato e Regione, soprattutto, guarda caso, in ambito sanitario -ove maggiormente viene definita la spesa pubblica e la gestione politica dei partiti- di dare una interpretazione alle norme che spesso determina ulteriori attriti tra normative anche pubbliche oltre che contrattuali. La Corte Costituzionale, tentando di delineare il contorno del conflitto di competenza ha tracciato una linea di demarcazione, a volte discutibile proprio in ragione della scivolosità della materia, dettando i contorni della riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione, sia riguardo al ricorso ai fondamentali istituti che caratterizzano i principi di “prevalenza”, “leale collaborazione” e “sussidiarietà» (in questo modo: Pasceri – Cerqueti in “Brevi note sulla prevalenza della normativa statale in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 in Movimento Forense).

Segue. La rilevanza costituzionale delle norme sulla sicurezza sul luogo di lavoro

A prescindere dalle diatribe dottrinali e i vari tentativi giurisprudenziali di comporre la materia in vista di una omogeneità e unicità delle norme, a parere degli autori, la disciplina relativa alla tutela lavorativa non può essere nemmeno in via regolamentare essere lasciata alle Regioni sia in ragione degli artt. 3 e 32 della Costituzione proprio in vista del principio di omogeneità previsto dall'art. 117, lettera m), della Costituzione.

Al contrario, una ricostruzione storico-teleologica della norma, anzi, dovrebbe escludere in radice la possibilità che possano verificarsi fraintendimenti Stato-Regioni alla luce dell'art. 9 dello Statuto dei Lavoratori e in ragione al fatto che la disciplina prevenzionistica trova fondamento nei principi fondamentali della nostra Costituzione nonché fondamento nella norma sovranazionale europea a cui il legislatore deve conformarsi.

In particolare, l'art. 152 del Trattato, che istituisce la Comunità europea stabilisce che “la protezione della salute umana” costituisce un elemento ineludibile che deve sempre sovraintendere le politiche normative dei membri della Comunità.

In particolare, la direttiva 89/391/CE 56, riguardante la promozione della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro è stata recepita in Italia mediante il d.lgs. n. 626 del 1994 a cui si è aggiunta, nel tempo, una significativa produzione normativa nazionale e comunitaria che ha determinato la necessità di riordinare l'intera disciplina in un “Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro” varato con il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

Il legislatore italiano, già nel 1942, all'art. 2087 c.c. ha stabilito -però- un principio prevenzionistico, volutamente, ampissimo secondo cui il datore del lavoro deve adottare le misure di sicurezza che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (così come ricordato da Veneziani, La responsabilità penale per omesso impedimento degli infortuni sul lavoro, in Dir. proc. pen., 1998, 1144).

La norma civilistica ancorché possa apparire indefinita, a nostro avviso, manifesta la volontà del legislatore di garantire il lavoratore mediante una “clausola aperta” proprio per garantire al Giudice di valutare «l'effettività e l'attualità» delle misure prevenzionistiche rispetto alle conoscenze, l'esperienza e la tecnica del momento. Una diversa formulazione avrebbe, invece rischiato, di cristallizzare la norma rispetto l'evoluzione delle misure prevenzionistiche, eludendone lo scopo.

La tecnica utilizzata dal legislatore per la formulazione dell'art. 2087 c.c. vuole attribuire «alla disposizione in commento i caratteri propri della norma generale …… riconoscere che questa è una norma completa costituita da una fattispecie e un comando» (in questo modo: Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, pag. 9 e seg.).

Sul punto, la Corte di Cassazione, sez. lav., 8 aprile 1995, n. 4078, ha ricordato che: «La responsabilità contrattuale dell'imprenditore derivante dal mancato adempimento dell'obbligo, stabilito dall'art. 2087 c.c. di adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti, può concorrere con la responsabilità extracontrattuale dello stesso datore di lavoro, che sussiste qualora dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano alla persona del lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro. In tali ipotesi il danneggiato ha a propria disposizione due distinte azioni, delle quali quella contrattuale si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218 c.c. e limita il risarcimento a danni prevedibili al momento della nascita dell'obbligazione, mentre l'azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell'autore della condotta lesiva e, nel caso in cui detta condotta integri gli estremi di un reato, estende il diritto al risarcimento anche ai danni non patrimoniali».

L'art. 2087 c.c., secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato, fa carico al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie volte a tutelare l'integrità del dipendente introducendo un dovere prevenzionistico che trova “fonte immediata e diretta” nel rapporto di lavoro.

L'inosservanza delle norme che impongono di adottare le misure di sicurezza effettive e attuali secondo particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica determina un obbligo risarcitorio per il dipendente che ha subito, a causa del proprio lavoro, una diminuzione dell'integrità psico-fisica, costituisce oggetto di un autonomo diritto primario ed assoluto.

Il termine poi “particolarità del lavoro” identifica una responsabilità qualificata dell'Azienda sanitaria che non adotti, pur avendone le conoscenze tecniche, la capacità di spesa e la valutazione di casi, non rari, di infezioni nosocomiche o di casi pandemici, misure e tecniche atte a tutelare principalmente i propri operatori sanitari.

Segue. Sicurezza sul luogo di lavoro ed evento pandemico

Nel corso dell'esame in sede referente del disegno di legge di conversione del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. decreto liquidità) è stato aggiunto l'articolo 29-bis, intitolato "Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19" nella l. 5 giugno 2020, n. 40 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie generale n. 143 del 6 giugno 2020),il quale prevede «ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'art. 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

L'intervento normativo è stato, evidentemente, considerato un giusto bilanciamento di due valori costituzionalmente contrapposti: quello della tutela della salute (art. 32 Cost) e quello di favorire lo sviluppo economico del paese e la ripresa dell'attività produttive (art. 41 Cost.) dopo il cosiddetto lockdown e la prima fase successiva.

Questo bilanciamento, nell'intenzione del legislatore, costituisce il tentativo di "limitare" le “responsabilità datoriali” in vista di una ripresa dell'economia nazionale così come suggerito dal rapporto “Iniziative per il rilancio Italia 2020-2022” del Comitato di esperti in materia economica e sociale.

Quello che nel caso concreto ci riguarda è il punto 1.i relativo dedicato alle «imprese e lavoro motore dell'economia» in cui è suggerita la possibilità di «escludere il contagio Covid-19 dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie».

Secondo la cd. task force, infatti, il possibile riconoscimento, quale infortunio sul lavoro, per il contagio da Covid-19, anche nei settori non sanitari, «pone un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività» sicché al fine di limitare il rischio di responsabilità penali per il datore di lavoro appare “sufficiente” per la sua giuridica esclusione «l'adozione, e di poi l'osservanza, dei protocolli di sicurezza, predisposti dalle parti sociali».

Per tali ragioni, il Comitato degli esperti suggerisce nel citato rapporto che, ai fini civilistici e prevenzionistici, l'adempimento delle predette misure di sicurezza e protezione del lavoratore potrebbero essere ispirate non già alla massima perizia derivante dalla conoscenza della particolarità del lavoro, (del)l'esperienza e (del) la tecnica- che costituiscono l'adempimento integrale dell'obbligo di sicurezza previsto dall'art. 2087 c.c. ma, semplicemente, rispettando le misure minime e sufficienti individuate nei protocolli di sicurezza, predisposti dalle parti sociali in modo da determinare, di fatto, per la parte datoriale una esenzione di responsabilità civile e penale.

In altri termini, secondo il Comitato di esperti in materia economica e sociale il datore di lavoro rispettando le predette misure “transitorie” «non andrebbe incontro né a responsabilità civile né a responsabilità penale, pur in presenza di un eventuale riconoscimento da parte dell'Inail dell'infortunio su lavoro da contagio Covid-19».

La conclusione a cui perviene il Comitato però mal si concilia con due principii costituzionali.

Il primo relativo al tempo di applicazione delle norme, non potendo le stesse retroagire anche se indirettamente riguardanti questioni solo apparentemente civilistiche.

La seconda in quanto, come anzidetto, l'art. 2087 c.c. quale clausola aperta, viene riempita dalla conoscenza e dallo sviluppo della particolarità del lavoro, (del)l'esperienza e (del)la tecnica, come tale norma si pone come misura ampia di tutela prevenzionistica e non un vuoto e generico richiamo cautelare dal sapore indeterminato.

A parere di chi scrive erra chi definisce la norma come “elastica” nella sua accezione negativa posto che, come è noto, il nostro sistema positivo è ricco di norme che si ampliano o diminuiscono a seconda della scienza, della tecnica e a volte anche dal modo di sentire sociale (come ad esempio l'onore o la reputazione etc.). La giurisprudenza formatasi sulla norma sopracitata si è limitata ad affermare che il suo contenuto non può essere riempito ad libitum o ex post non potendosi estendere la responsabilità datoriale ad ogni cautela possibile dovendosi riconoscere una responsabilità solo a condotte colpose omissive o commissive che trovino fondamento in fonti del diritto primario o anche secondario. In altri termini le condotte violate che possono essere contestate al trasgressore devono essere concrete e normativamente determinate.

La stessa Circolare dell'INAIL del 20 maggio 2020, n. 22, rammenta che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all'articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n. 33 …… posto che il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2. ….. Conclude, poi, correttamente, la Circolare INAIL, richiamando il principio di autonomia di valutazione tra Enti amministrativi e Organi giudiziali e, dunque, l'indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario (e a dir la verità anche tra giudizio civile e giudizio penale che non soffrono più di pregiudizialità l'uno rispetto all'altro e tra giudice ordinario e giudice contabile).

Conseguentemente, secondo la Circolare dell'INAIL del 20 maggio 2020, n. 22, il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte dell'Istituto non può assumere rilievo per sostenere l'accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell'onere della prova a carico del pubblico ministero. Così come neanche in sede civile l'ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l'accertamento della colpa di quest'ultimo nella determinazione dell'evento.

Il rapporto in questione è rilevante in quanto, rispetto alle diatribe in ordine alla competenza legislativa tra Stato e Regioni, sancisce che «essendo la materia della sicurezza sul lavoro, intesa come contenuto dell'obbligo di sicurezza, e quella relativa ai contratti, di competenza statale esclusiva, è la legislazione nazionale che deve prevedere questo meccanismo, a garanzia dell'uniformità su tutto il territorio nazionale di una disciplina prevenzionale» (in questo senso Chiara Iorio, sempre puntuale nella sua analisi, in “Responsabilità medica e tutela del paziente ai tempi del Coronavirus” in Judicium del 12 giugno 2020 la cui lettura, richiamata, costituisce un arricchimento alla comprensione del difficile dibattito nato intorno all'art. 2087 e del difficile equilibrio ricostruito con la normativa emergenziale).

Fermo restando quanto sopra, occorre ora definire i limiti della responsabilità della struttura sanitaria rispetto ai propri dipendenti sapendo che l'evento pandemico è un fenomeno prevedibile e spesso in parte evitabile applicando le ordinarie misure di sicurezza (in molte Strutture e Regioni hanno dimostrato di non aver nemmeno letto i “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni per limitare episodi e comportamenti volti ad isolare i vari focolai infettivi.

Si è poi assistito ad un spiacevole gioco di rimbalzo delle competenze tra Stato e Regioni la cui analisi rischierebbe di portarci fuori tema ma che certamente conferma l'esigenza di rivalutare, anche a costituzione invariata, la competenza centrale dello Stato.

E' evidente che per le ragioni sopra espresse: la carenza di personale, la scorretta utilizzazione della guardia attiva e della pronta disponibilità, il mancato rispetto dell'orario di lavoro i cui limiti europei sono sovente superati, la telegestione diagnostica senza una reale giustificazione, la tenacia persistenza di direttori di struttura in situazione di precarietà, l'assenza dei necessari dispositivi di protezione individuale o l'assenza di un protocollo al fine di tutelare il lavoratore e circoscrivere la portata del virus determinano sicuramente una responsabilità qualificata delle Aziende Ospedaliere e indirettamente delle Regioni proprio in ragione delle pretese prerogative gestionali, in “tempo di pace”, sempre difese a spada tratta.

Sul punto si rammenta il “rischio organizzativo”, oggi richiamato anche dall'art. 1 della l. n. 24/2017, il quale può individuarsi ogni volta non vi sia «scusabilità dell'omissione o dell'azione lesiva» in vista della corretta gestione del presidio nosocomico e, soprattutto, quando questa sia dettata, come spesso i sindacati di categoria hanno denunciato in passato, prevalentemente da esigenze di risparmio economico.

A ciò si aggiunga la cecità politica intesa a mantenere in vita ospedali e presidi che non garantiscono standards di sicurezza secondo le linee guida internazionali (si pensi ai punti nascita con meno di 500 parti/anno etc.) che scadono a meri ambulatori e che, pertanto, costituiscono pericolo per la popolazione in quando non in grado di assicurare la continuità e l'appropriatezza clinica che l'utente attende.

Ad un siffatto quadro devono sommarsi i rischi conseguenti al mancato rispetto del D.P.R. 14 gennaio 1997 «Approvazione dell'atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 20 febbraio 1997, n. 42, e successive modifiche e integrazioni, spesso da alcune Regioni trasfusi al ribasso o in modo del tutto generico (come ad esempio la radiologia senza l'indicazione della necessaria presenza del radiologo presente di notte etc. ovvero la pronta disponibilità su più presidi etc.).

Tutti rischi organizzativi che oseremmo qualificare come “elettivi” e che non possono giustificare ex post alcuna esimente delle Aziende Sanitarie nei confronti dei propri dipendenti e indirettamente per le Regioni che sovrintendono alla gestione delle Aziende sanitarie (essendo la struttura sanitaria, obbligata, proprio in ragione del principio di contato sociale e dell'obbligazione di spedalità, a fornire non solo il personale sanitario, ma anche le attrezzature necessitanti, sufficienti, idonee ed efficienti anche nell'interesse dei propri dipendenti).

Tantomeno è giustificabile la carenza di strumentazione che, come è noto, se inidonea deve essere segnalata e, nel caso, tempestivamente messa fuori uso. Eventuali lagnanze ex post appaiono piuttosto come aggravanti e non cause di giustificazione.

Tra i fattori che concorrono a delineare il “grado di pericolosità” dell'organizzazione aziendale riguardano non solo fattori strutturali e tecnologici ma soprattutto fattori organizzativo-gestionali e condizioni di lavoro e della struttura organizzativa in relazione alla mancata definizione delle unità professionali richieste in relazione all'utenza e al territorio e alla relativa gestione risorse umane, alla distribuzione del lavoro e all'ingiustificato carico di lavoro e dei relativi turni; della scorretta applicazione degli istituti come la pronta disponibilità e guardia attiva, carenza di un sistema di comunicazione e di gestione organizzativa informatizzata; violazione delle linee guida e dei percorsi diagnostico-terapeutici, e della generale qualificazione, alla bisogna, delle competenze professionali (come il caso di senologi dedicati che per carenza di personale si ritrovano a essere messi in turni guardia in ortopedia pediatrica in ragione della sola “specialità” abilitante).

Del pari, la mancata previsione di un evento pandemico (oramai quasi annuale) o di infezione generalizzata o di contaminazione biologica non è tollerabile in quanto costituisce un fenomeno prevedibile e quanto meno limitabile nei suoi effetti con le ordinarie norme di diligenza organizzativa e con l'adozione degli ordinari dispositivi di protezione individuale.

Tra gli obblighi organizzativi principali delle strutture sanitarie rientrano quelle di predisporre tutte le misure necessarie atte a prevenire le infezioni o lo sviluppo delle stesse sia a tutela del paziente quanto a tutela dello stesso operatore sanitario, suo dipendente. Sul punto, la giurisprudenza è chiara nell'identificare nella mancata previsione del rischio infettivo tipicamente ospedaliero o anche esterno, virulento o pandemico, una responsabilità di fatto oggettiva dell'azienda sanitaria qualora vengano omesse le opportune cautele o sussistano le mancanze sopra evidenziate (Tra le tante: Cass. civ., 26 gennaio 2010 n. 1538; Cass. civ., 9 giugno 2011 n. 12686; Trib. Milano, sez. I civ., sent. 16 aprile 2015 n. 4841; Trib. Milano, sez. I civ., sent. 12 maggio 2015 n. 5984 le quali identificano una sorta di responsabilità simil oggettiva a carico dell'azienda similmente a quanto previsto dal Code de la santé publique in Francia nonché negli altri paesi europei. Sul punto per un approfondimento: Piva, Contagi sul lavoro, i limiti necessari alla «colpa» penale, in Il Sole 24 ore, 5 giugno 2020, p. 30; e, come sempre il puntuale e preziosissimo contributo scientifico, più volte richiamato nel capitolo, di Cupelli: Spunti sull'art. 29-bis d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (convertito nella l. 5 giugno 2020, n. 40) in Sistema Penale, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Giuridiche “C. Beccaria”, cit.).

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