Il principio di irretroattività in materia di esecuzione penale: riflessioni sull'art. 4-bis ord. penit. alla luce della sentenza Corte cost. n. 32/2020

Claudia Castelli
18 Settembre 2020

Quali ripercussioni si producono sulla tradizionale esegesi dell'art. 4-bis ord. penit. a seguito della sentenza Corte cost. n. 32 del 12 febbraio 2020, ove la Consulta procede «a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.», estendendolo alla materia dell'esecuzione penale nelle ipotesi in cui una modifica normativa trasformi la natura della pena?
Massima

Introducendo il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) nel novero dei delitti ostativi di cui all'art. 4-bis ord. penit., l'art. 15 l. n. 38 del 6 febbraio 2006 ha determinato un mutamento nella natura della pena inflitta per tale reato. Alla luce della sentenza Corte cost. n. 32 del 2020 il principio di irretroattività della legge penale (art. 25, comma 2, Cost.) impone di non applicare le preclusioni dettate dall'art. 4-bis ord. penit. ai condannati per i delitti che, al momento della commissione del fatto, non rientravano nel catalogo delle fattispecie c.d. ostative, come nel caso dell'art. 609-bisc.p.

La questione

Tizio, in espiazione di pena detentiva per aver commesso il reato di violenza sessuale in danno di un soggetto minore di anni dieci (artt. 609-bise 609-ter c.p.), propone istanza di detenzione domiciliare ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1-bis, ord. penit. Trattandosi di un reato annoverato nell'elenco dei c.d. delitti ostativi di seconda fascia (art. 4-bis, comma 1-ter, ord. penit.), l'istanza sarebbe inammissibile alla luce del quadro normativo vigente, che impone come condizione per la concessione delle misure alternative di cui al capo VI la mancata emersione di «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

Tuttavia, l'ordito tracciato dalla Corte costituzionale (sent. n. 32 del 12 febbraio 2020) e ripreso dalla recente giurisprudenza di legittimità (ex plurimis Cass. Pen., Sez. I, n. 12845 del 20 marzo 2020) produce interessanti ripercussioni sul versante esecutivo della pena: nell'ipotesi in cui una modifica normativa, cronologicamente successiva rispetto alla commissione del fatto, incida sulla natura della pena da eseguire, eliminando o riducendo le possibilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della pena, il principio sotteso all'art. 25, comma 2, Cost. deve, infatti, trovare applicazione.

Facendo leva su tale assunto, il giudice rileva che nel caso in esame l'istante avrebbe potuto accedere con rilevante probabilità alla misura alternativa della detenzione domiciliare senza alcuna limitazione in base alla normativa vigente al momento di commissione del fatto, risalente al 2004: il reato di cui all'art. 609-bis c.p. è stato inserito nel novero dei delitti c.d. ostativi dall'art. 15 l. n. 38 del 6 febbraio 2006 e dunque, in ossequio al principio di irretroattività, tale disposizione non può applicarsi ai soggetti condannati per reati di violenza sessuale commessi in epoca antecedente rispetto all'entrata in vigore della suddetta modifica normativa. Pertanto, sussistendo gli ulteriori requisiti di merito richiesti dall'ordinamento, l'istanza di detenzione domiciliare viene ritenuta meritevole di accoglimento.

La pronuncia in esame si pone nel solco di un orientamento giurisprudenziale che, muovendo dall'obiettivo di fornire una più ampia tutela ai diritti fondamentali, tenta di rispondere alle istanze del garantismo. È nella giurisprudenza costituzionale e sovranazionale – si pensi, a titolo esemplificativo, alla definizione di matière penale formulata dalla Corte di Strasburgo nei casi Scoppola c. Italia e Del Rio Prada c. Spagna – che tale orientamento trova il suo humus.

Ponendosi in una prospettiva di stampo sostanzialistico e prendendo atto delle potenzialità insite nel recente revirement giurisprudenziale, il giudice dell'ordinanza in commento assume come criterio di riferimento l'incidenza afflittiva della disposizione sul trattamento giuridico- penale del singolo. In questo modo riesce a dare forma a un principio di diritto – l'estensione della garanzia di irretroattività alla materia dell'esecuzione penale – sussistente in potenza nelle pronunce sopra menzionate. L'ordinanza contribuisce così a tracciare un nuovo sentiero, che passa, nel caso in esame, per la concessione della detenzione domiciliare a un condannato per un delitto c.d. ostativo (art. 609-bisc.p.).

A fungere da bussola in questo impervio sentiero è l'ermeneutica: essa consentirebbe, infatti, di estendere le affermazioni di principio sottese alla recente pronuncia della Consulta – e alla giurisprudenza sovranazionale in materia – alla pletora di reati inseriti nel catalogo di cui all'art. 4-bis ord. penit. Quid iuris?

La questione

La questione che si pone trascende il caso di specie: quali ripercussioni si producono sulla tradizionale esegesi dell'art. 4-bis ord. penit. a seguito della sentenza Corte cost. n. 32 del 12 febbraio 2020, ove la Consulta procede «a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.», estendendolo alla materia dell'esecuzione penale nelle ipotesi in cui una modifica normativa trasformi la natura della pena?

Le soluzioni giuridiche

L'art. 4-bis ord. penit. è una tra le disposizioni normative che maggiormente incidono sulla natura della pena: da essa origina infatti il meccanismo che, impedendo o ritardando l'accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari, è suscettibile di trasformare una sanzione essenzialmente extramuraria in una misura di carattere custodiale. È per tali ragioni che la rivoluzione operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2020 trova in essa uno dei suoi principali referenti. Così il principio di irretroattività, rimasto per lungo tempo estraneo all'universo dell'esecuzione penale, vi fa irruzione ex abrupto. Oltre che nella possibilità di prevedere le conseguenze dell'agire criminale e di impostare successivamente una strategia difensiva tenendo conto dei concreti scenari sanzionatori, la ratio di tale estensione risiederebbe nella tutela da eventuali abusi del legislatore, operando come un limite all'esercizio del suo potere al fine ultimo di garantire lo stato di diritto.

Se la regola in virtù della quale le pene devono essere eseguite in base alla disciplina in vigore al momento dell'esecuzione può trovare giustificazione nell'evolversi del contesto fattuale e normativo di riferimento, del bilanciamento tra gli interessi in gioco, della prevenzione del rischio della creazione di una pluralità di regimi detentivi paralleli con le conseguenti difficoltà di gestione e disparità di trattamento, un'eccezione a questa regola si giustifica nel caso in cui si applichi una pena che è sostanzialmente aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto, poiché, lungi dall'incidere sulle sole modalità esecutive della pena, ne determina una radicale trasformazione. Ed è esattamente ciò che accade nel caso in cui, a seguito di una modifica normativa, una pena suscettibile di essere scontata all'esterno delle mura del carcere si trasformi in una pena di carattere intramurario.

L'estensione della garanzia di irretroattività all'art. 4-bis ord. penit. produce dunque delle ricadute evidenti: le preclusioni in esso previste possono continuare ad applicarsi alla congerie di fattispecie criminose introdotte nella disposizione dagli anni '90 ad oggi nella sola ipotesi in cui, al momento della commissione dei fatti di reato, essi rientravano già nel novero delle fattispecie c.d. ostative.

Osservazioni

Qualsiasi riflessione avente ad oggetto l'art. 4-bis deve necessariamente muovere da alcune riflessioni preliminari sul percorso involutivo subito nel corso del tempo da tale disposizione, ove l'ormai inveterata tendenza del legislatore al furore punitivo, proporzionato alle – reali o supposte – emergenze criminali del momento giunge al suo acme. Utilizzata come strumento di governo dell'insicurezza sociale, la disposizione irragionevolmente equipara, quanto al trattamento penitenziario, un coacervo di reati estremamente eterogenei.

Dotato di una non indifferente carica simbolica, l'art. 4-bis è stato oggetto di continue strumentalizzazioni: l'introduzione di presunzioni assolute di pericolosità e di percorsi esecutivi di maggior rigore è certamente servita a placare in diverse occasioni le sirene dell'allarme sociale. Se tale processo ha, da una parte, reso la disposizione in questione difficilmente intellegibile anche per il giurisperito più valente, va dall'altra considerato che l'estensione della garanzia di irretroattività interviene oggi a complicare ulteriormente il quadro, scontrandosi con una disposizione già di per sé macchinosa; inevitabili sono le ricadute sul piano della disparità di trattamento e delle difficoltà di gestione all'interno degli istituti penitenziari.

Ben lungi dal sostenere che il problema cruciale si annidi nell'estensione della garanzia in sé – che, anzi, è da salutare con estremo favore, poiché dà forma a un principio di grande civiltà giuridica –, è sull'art. 4-bis in sé che occorre interrogarsi e, in particolare, sulle ragioni e sull'opportunità della persistenza di un sistema preclusivo multilivello come quello attuale. Nonostante la giurisprudenza nazionale e sovranazionale abbia nell'ultimo periodo insistito sulla necessità di modificare l'art. 4-bis, i tempi per il suo superamento non paiono ancora maturi. È dunque sulla c.d. legalità giurisprudenziale che il sistema deve continuare a reggersi: l'interpretazione giudiziale delle disposizioni restituisce coerenza interna al sistema – talora anche discostandosi dalla littera legis –, nel tentativo di supplire all'assenza di una organica visione d'insieme del legislatore.

Non essendo tuttavia legittimata a contenere l'incalzante fenomeno del populismo penale – che si manifesta nella volontà del legislatore di fronteggiare i fenomeni criminali con sanzioni di carattere esemplare, trovando peraltro una patente estrinsecazione nell'applicazione del regime penitenziario differenziato di cui all'art. 4-bis o.p. a una congerie di reati molto eterogenei tra loro –, la giurisprudenza si trova in bilico tra l'esercizio di una funzione di garanzia dei diritti e il rischio di sconfinare nell'ambito rimesso alla discrezionalità dei conditores legum: se si vuole evitare una fatica di Sisifo, non resta dunque che appellarsi alla coscienza sociale, così da dare nuovo slancio a un percorso di umanizzazione della pena che passi per la riaffermazione condivisa dei diritti fondamentali in materia penitenziaria.

Se il diritto tende ontologicamente alla pacificazione sociale – ubi societas, ibi ius –, è alla società che esso deve rivolgersi ed è da essa che deve trarre la sua linfa vitale. È dunque alla società che bisogna ritornare, pur considerando che uno stato pluralistico è intrinsecamente limitato nell'esercizio del potere: coltivare la partecipazione delle diverse articolazioni della compagine sociale alle decisioni statali condurrebbe alla creazione di un contesto volto al rafforzamento della tutela dei diritti individuali e collettivi. Se si riuscisse a non perdere di vista questo orizzonte culturale di riferimento, il dialogo politico potrebbe tornare a fungere da stimolo per una riaffermazione condivisa dei diritti. E la legge penale si libererebbe di conseguenza della svilente funzione promozionale che oggi la connota.

Se la politica cade, l'intera società è chiamata a reagire: ubi ius, ibi societas.

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