È l'evasione dei contributi previdenziali a differenziare la truffa ai danni dello Stato dall'intermediazione illegale di manodopera

Ciro Santoriello
18 Settembre 2020

Integra il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato – e non la mera ipotesi di somministrazione illegale di manodopera – il fittizio distacco di lavoratori da una società ad un'altra, quando la società da cui i lavoratori formalmente erano alle dipendenze risulti di fatto non operativa ed inadempiente agli obblighi fiscali e previdenziali ed il distacco sia funzionale ad eludere gli oneri contributivi
Massima

Integra il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato – e non la mera ipotesi di somministrazione illegale di manodopera – il fittizio distacco di lavoratori da una società ad un'altra, quando la società da cui i lavoratori formalmente erano alle dipendenze risulti di fatto non operativa ed inadempiente agli obblighi fiscali e previdenziali ed il distacco sia funzionale ad eludere gli oneri contributivi

Il caso

In sede di merito, una società era condannata per l'illecito amministrativo previsto dall'art. 24 d.lgs. n.231 del 2001 con riferimento alla condotta di truffa ai danni dello Stato commessa dal suo amministratore.

La truffa era così congegnata. La società giudicata colpevole dell'illecito amministrativo aveva utilizzato 22 lavoratori distaccati formalmente dipendenti di altra società, la quale, oltre a far capo alla medesima persona fisica che fungeva da amministratore della società sotto processo, operava come scatola vuota", avendo omesso di versare i contributi previsti; in questo modo, la società accusata del delitto di truffa era riuscita ad aumentare l'organico aziendale senza ulteriori costi aggiuntivi di tipo previdenziale e fiscale, sottraendo in tal modo agli enti previdenziali creditori garanzie idonee per la effettiva solvibilità dei debiti contributivi, inducendo in errore INPS ed ottenendo l'ingiusto profitto consistito nel non rispondere solidarmente del mancato pagamento di oneri e contributi previdenziali da parte dell'altra società, alle cui dipendenze formalmente lavoravano i soggetti distaccati.

In sede di ricorso per cassazione, le difese osservavano che nel caso di specie ricorreva, non il delitto di truffa, reato presupposto della responsabilità delle società ex art. 24 d.lgs. n. 231 del 2001, ma l'illecito di cui agli artt. 18 e 28 d.lgs. n. 276 del 2003, non richiamato dal decreto n. 231/2001. In secondo luogo, si evidenziava come la società accusata del delitto di truffa avesse subito, da parte del suo committente, il mancato pagamento di € 239.000,00 (importo ben superiore a quello dei contributi omessi), che non le aveva consentito di estinguere i corrispettivi dovuti all'ente da cui provenivano i lavorati distaccati e, da parte di quest'ultimo, di provvedere al versamento dei contributi all'INPS, dimostrandosi così l'assenza di ogni forma di preordinazione e considerato che la mancanza di disponibilità economica era successiva ai distacchi.

La questione

La normativa in tema di intermediazione di manodopera è stata significativamente modificata con il d.lgs. n. 81 del 2015, contenente la Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni. Tale riforma ha infatti abrogato l'art. 28 d.lgs. n. 276 del 2003, lasciando in vigore le disposizioni di cui all'art 18 del medesimo testo unico, il quale puniva da un lato chi svolgeva attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale senza essere iscritto nell'apposito albo istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dall'altro sanzionava l'utilizzatore di manodopera che ricorresse alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti diversi da quelli autorizzati a seguito della predetta iscrizione. Tuttavia, a seguito della depenalizzazione intervenuta con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, la prima delle due ipotesi sovra menzionate – ovvero l'illecito esercizio di somministrazione di manodopera - non è più prevista dalla legge come reato (Cass. pen., sez. III, 31 maggio 2019, n. 48015. In dottrina, MEUCCI, Attività di somministrazione di lavoro: limiti e condizioni di liceità, in Lav. Prev. Oggi, 2005, 519).

La giurisprudenza si è particolarmente soffermata sulla distinzione fra contratto di appalto e quello di somministrazione di manodopera (distinzione rilevante, oltre che per il fatto che l'esecuzione del contratto di appalto non è soggetta alla regolamentazione di cui al d.lgs. n. 276 del 2003, anche ragioni di carattere fiscale di cui si dirà in seguito), individuando il criterio differenziale nella proprietà dei fattori di produzione e nella organizzazione dei mezzi e dalla assunzione effettiva del rischio d'impresa, in assenza dei quali si configura una mera fornitura di prestazione lavorativa che, se effettuata da soggetti non autorizzati, è sottoposta alla sanzione penale di cui si è detto (Cass. pen., sez. III, 5 giugno 2015, n. 27866; Cass. pen., sez. III, 25 novembre 2004, n. 861).

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, sia pur soffermandosi su alcuni profili dei ricorsi.

In particolare, la Cassazione ricorda che il profitto del reato di truffa consiste nel risparmio contributivo e previdenziale che, nel caso di specie, l'imputato (e quindi l'azienda da lui amministrata) aveva conseguito tramite il fittizio distacco facendo figurare, contrariamente al vero, che i lavoratori fossero in distacco presso la società accusato e provenendo da altra persona giuridica, presso la quale non avevano maturato un solo giorno di lavoro e che non aveva attrezzatura o beni in quanto unica sua attività era quella di avere stipulato gli accordi di distacco. La società da cui proveniva la forza lavoro, dunque, era una "scatola vuota", non in grado di adempiere gli oneri previdenziali e fiscali.

Tali circostanze sono idonee, secondo la Cassazione a differenziare le condotte descritte dagli artt.18 e 30 d.lgs.n. 276 del 2003 e dall'art. 640 comma 2 c.p., giacché per il perfezionamento del reato di intermediazione illecita di manodopera manca il fine di eludere gli oneri contributivi avendo la fattispecie criminosa come obiettivo esclusivamente quello di tutelare il lavoratore, lasciando fuori dal loro ambito di applicazione quei comportamenti finalizzati alla elusione della contribuzione.

Infatti, l'art. 28 d.Igs. 276/2003 (ora abrogato, ma si veda ora l'analogo art. 38-bis del d.lgs. 81 del 2015 in tema di distacco di personale all'estero) prevedeva che «ferme restando le sanzioni di cui all'articolo 18, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore, somministratore e utilizzatore sono puniti con una ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione»; l'utilizzo della congiunzione disgiuntiva o rende evidente che sia le norme inderogabili di legge che di contratto collettivo siano solo quelle "applicate al lavoratore", altrimenti sarebbe stata usata la congiunzione e; tale conclusione si ricava anche dalla Circolare dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 3 dell'11 febbraio 2019 che, a commento dell'articolo 38-bis citato, precisa che "perché si possa configurare la violazione dell'art. 38-bis, non è sufficiente accertare che la condotta abbia prodotto effetti sotto il profilo della applicazione elusiva del regime previdenziale straniero, ma è necessario altresì accertare la violazione degli obblighi delle condizioni di lavoro ed occupazione di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 136/2016", senza alcun accenno a finalità elusive della contribuzione.

Queste ultime non possono che rientrare, pertanto, nell'ambito di applicazione dell'art. 640 comma 2 n.1 c.p., in quanto la finalità della fittizia interposizione è proprio quella di procurarsi un ingiusto profitto (con corrispondente danno per gli enti previdenziali) consistente nel risparmio contributivo, del tutto differente da quella (eventuale) del mancato rispetto della normativa posta a tutela dei lavoratori.

Osservazioni

Sono molteplici i profili di interesse che emergono dalla vicenda presa in esame dalla Cassazione e solo alcuni di questi sono esaminati nella decisione in commento. La pronuncia infatti esamina solo l'aspetto della differenza fra il reato di truffa ai danni dello Stato e gli illeciti in tema di somministrazione illegale di manodopera, sostenendo che per il perfezionamento del secondo reato non è richiesto il fine di eludere gli oneri contributivi avendo la fattispecie criminosa come obiettivo esclusivamente quello di tutelare il lavoratore, lasciando fuori dal loro ambito di applicazione quei comportamenti finalizzati alla elusione della contribuzione.

Da questa considerazione, discende però che una condotta di utilizzo e somministrazione illegale di mano d'opera quando diretta (anche) ad un'evasione contributiva, oltre ad integrare, come detto, il reato di truffa di cui all'art. 640, commi 1 e 2 n. 2, c.p., determina anche la responsabilità da reato ex d.lgs. n. 231 del 2001 della società avvantaggiata ovvero dell'ente che, proprio in virtù di tali condotte di evasione, ottiene il beneficio del mancato pagamento dei contributi previdenziali.

La decisione, invece, non affronta in maniera più approfondita un tema centrale e cioè la differenza fra il contratto di appalto e l'utilizzo di lavoratori facenti capo ed alle dipendenze di altre imprese. Come accennato, tale distinzione è richiamata nella sentenza solo per ricordare che mentre il contratto di appalto non è soggetto alla regolamentazione contenuta nel d.lgs. n. 276 del 2003, quando si è in presenza di una somministrazione di mano d'opera la violazione della disciplina contenuta nel suddetto decreto n. 276 determina l'illecito previsto dall'art. 18 dello stesso testo (quanto alla distinzione tra contratto di appalto e quello di somministrazione di manodopera si ricordano i criteri della proprietà dei fattori di produzione e della organizzazione dei mezzi e dell'assunzione effettiva del rischio d'impresa, in assenza dei quali si configura una mera fornitura di prestazione lavorativa), ma accanto a queste considerazioni non può essere tralasciata la circostanza che anche il contratto di appalto presenta significativi rischi di rilevanza penale per l'imprenditore.

Il riferimento è alla prassi, assai frequente nella realtà imprenditoriale, dell'inserimento in dichiarazione di fatture attestanti costi sopportati dal contribuente in ragione della conclusione di contratti di appalto e servizi, quando invece quelle spese (che sono effettivamente state sostenute dalla società) fanno riferimento ad una illecita somministrazione di manodopera da parte dell'emittente. Questo comportamento, per giurisprudenza costante, integra il reato di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, in concorso con la violazione dell'art. 18 d.lgs. n. 276 del 2003 (Cass., sez. III, 5 giugno 2013, n. 24540) e ciò in quanto la qualificazione come contratto di appalto o di servizio di una mera attività di somministrazione di mano d'opera (a prescindere che la stessa sia o meno lecita) integra un'ipotesi di fattura oggettivamente inesistente, posto che nel caso di specie non si è in presenza di una prestazione arrecata da un soggetto diverso da quello documentato in fattura, ma viene menzionato un contratto che nei fatti non esiste.

Come è noto, è tutt'altro che infrequente che il contribuente cerchi di ottenere un risparmio di imposta per il tramite del ricorso a particolari tipologie di contratti, il cui utilizzo si giustifica non in ragione della disciplina giuridica che quel negozio riceve dal legislatore ma in considerazione dei benefici fiscali che possano derivarne. Il tema interessa in particolare la disciplina in tema di cosiddette “imposte d'atto”, in particolare le imposte di registro e le imposte ipotecaria e catastale: si pensi, ad esempio, ad una cessione di azienda realizzata a mezzo di un negozio di compravendita o per il tramite del conferimento della stessa in una società all'uopo costituita o già esistente con successiva cessione delle azioni o delle quote ottenute, con significativo abbattimento dell'onere fiscale.

Di regola, queste condotte sono fiscalmente non corrette, alla luce di specifiche disposizioni tributarie (si pensi all'art. 20 TUR che consente di combinare diversi atti per individuare un'operazione complessa da assoggettare all'imposta di registro prevista per l'atto tipico che realizza l'effetto ottenuto, nella fattispecie considerata, in modo articolato), ma non hanno alcuna rilevanza penale, posto che in esse risulta assente ogni connotato di fraudolenza – il singolo infatti non simula alcunché, avendo anzi egli assoluto interesse a che si riconosca l'effettività dell'operazione negoziale da lui posta in essere, né fornisce una mendace rappresentazione della realtà, – ma si limita, per individuare le conseguenze tributarie derivanti dall'accordo concluso, ad attribuire al patto contrattuale un nomen iuris che l'Amministrazione finanziaria ritiene non essere corretto. Tale conclusione non vale, tuttavia, si debba contestare non la qualificazione giuridica dell'effettivo comportamento tenuto dal contribuente ma la natura contrattuale del negozio asseritamente stipulato dallo stesso alla luce di accertamenti sull'accaduto che dimostrino come quest'ultimo avesse rappresentato al Fisco una situazione di fatto mendace e diversa da quando effettivamente verificatosi.

È quanto per l'appunto si verifica con particolare frequenza nell'ambito dei rapporti di lavoro subordinato, laddove tale tipologia negoziale è artatamente qualificata dai privati come modalità di esecuzione di un contratto di appalto. In quest'ultima ipotesi, infatti, si è in presenza del delitto di cui all'art. 2 del d.lgs. 74 del 2000, giacché le prestazioni asseritamente svolte in esecuzione del contratto mendace sono oggettivamente inesistenti (Cass. pen., sez. III 6/3/2008 n. 13975; Cass. pen. sez. III 19/12/2011 n. 46785, Vannini, Il delitto di frode fiscale fra irrilevanza penale delle detrazioni dall'imposta e falso materiale, Riv. giur. trib., 2012, p. 208). In tale circostanza si è in presenza, in sostanza, di un dichiarazione effettuata facendo ricorso a documenti che attestano una falsa causale giustificativa di spese pur effettivamente sostenute dal contribuente per cui non è corretto affermare che una spesa è stata comunque sostenuta e che tale costo è da riferire alle prestazioni lavorative che il contribuente ha “imputato” all'esecuzione del contratto di appalto: le prestazioni per le quali risultano emesse le fatture sono infatti totalmente diverse da quelle realmente poste in essere e tale divergenza esplica rilevanti effetti sul piano tributario giacché l'IVA addebitata sulla parte di imponibile riqualificato come costo del lavoro (anziché come prestazione propria del contratto di appalto) risulta indetraibile, essendo detta componente esclusa dal campo di applicazione dell'imposta.

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