La facoltà dell'avvocato di astenersi dal deporre

28 Settembre 2018

Se possa ritenersi utilizzabile la dichiarazione de relato resa dalla persona offesa in merito ad una presunta offerta risarcitoria comunicata dal difensore dell'indagato al proprio avvocato, sul presupposto della ritenuta inopponibilità del segreto professionale ove il segreto sia imposto da regole deontologiche insuscettibili di ampliare il perimetro di tale segreto nel processo penale, dove invece lo si vedrebbe sancito solo a garanzia del diritto di difesa.
Massima

La facoltà di astensione dal deporre dell'avvocato non costituisce eccezione alla regola generale dell'obbligo di rendere testimonianza ma è espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale, che in quanto tale è operativo in tutte le fasi del procedimento.

Quanto ai limiti oggettivi del segreto professionale tanto l'art. 200 c.p.p. quanto l'art. 195, comma 6, c.p.p. devono essere interpretati considerando che attraverso tali disposizioni il legislatore ha contemperato gli opposti interessi dell'accertamento dei reati e dell'effettività del diritto di difesa, trovando il punto di bilanciamento tra i correlativi obblighi che gravano sull'avvocato chiamato a testimoniare (e cioè quello di deporre e quello di serbare il segreto su quanto appreso nell'espletamento del proprio mandato). L'art. 200 c.p.p. è stato configurato come divieto di deposizione coattiva e non già come divieto assoluto di esaminare il soggetto titolare dell'obbligo di segretezza, demandando all'ordinamento forense il compito di disciplinare l'ambito di discrezionalità rimesso all'avvocato nell'astenersi o meno dal deporre, fermo restando che l'ingiustificata violazione del dovere di segretezza assume rilevanza esclusivamente disciplinare o eventualmente penale qualora il fatto sia riconducibile all'art. 622 c.p.

Il caso

La Suprema Corte è stata investita dal ricorso proposto dall'indagato B.F. – accusato di sequestro a scopo di estorsione e rapina aggravata - avverso l'ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale del riesame di Torino in accoglimento di appello ex art. 310 c.p.p., proposto dal PM contro l'ordinanza del GIP, che aveva revocato la misura precedentemente concessa. In particolare il B.F. era accusato di avere realizzato, con la complicità di altri soggetti, il rapimento di N.I. e di un suo amico. N.I. era stato condotto in un garage, legato, picchiato e minacciato, al fine di ottenere per la sua liberazione un riscatto di 3 milioni di euro. N.I. acconsentiva dunque a contattare una persona di sua fiducia che avrebbe consegnato parte del riscatto all'altro rapito, mentre lui sarebbe rimasto in ostaggio nel garage in attesa del ritorno di quest'ultimo. Il piano subiva però un cambiamento a causa dell'accidentale ferimento al piede dello stesso N.I. mentre gli veniva tolta la fascetta che gli legava i piedi, con conseguente necessità di trasporto al pronto soccorso a causa del copioso sanguinamento. I rapitori che dapprima intendevano farsi comunque consegnare il denaro dopo l'accesso all'ospedale, rilasciavano i due ostaggi impossessandosi tuttavia di vari oggetti di valore da essi indossati. A seguito di denunzia sporta da un amico del N.I. gli inquirenti risalivano a B.F. e raccoglievano gli elementi valorizzati nella ordinanza primigena di custodia cautelare in carcere. Tale ordinanza, emessa sul presupposto del ritenuto grave quadro indiziario, successivamente ed in accoglimento di istanza della difesa del B.F. era stato però ritenuto non più sussistente, dando luogo all'ordinanza di revoca oggetto dell'appello del PM. Tra i vari motivi di ricorso B.F. eccepiva anche l'inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p., art. 195 c.p.p., comma 6, e art. 200 c.p.p., delle dichiarazioni rese de relato dal N.I. in merito ad una presunta offerta risarcitoria formulata dall'indagato e comunicata dal suo difensore all'avv. P., legale della persona offesa. Il ricorrente ha lamentato che l'ordinanza impugnata ha escluso l'opponibilità del segreto professionale da parte del succitato avv. P. in relazione a quanto comunicatogli dal collega, sulla base dell'erroneo presupposto che le norme del codice deontologico forense che impongono all'avvocato il segreto non potrebbero ampliare il perimetro di operatività dello stesso nel processo penale, il cui limite sarebbe segnato esclusivamente dalla garanzia del diritto di difesa. In tal senso il tribunale avrebbe però omesso di considerare come le suddette disposizioni (e in particolare quelle di cui agli artt. 13, 28, 38 e 51 cod. deontologico forense) siano state emanate dal C.N.F. sulla base di specifica delega legislativa e con la funzione di integrare il contenuto precettivo della fonte primaria. Pertanto, posto che l'avv. P. già aveva opposto il segreto professionale una volta convocato per essere assunto a sommarie informazioni su quanto riferito al suo assistito, le dichiarazioni di quest'ultimo non potevano considerarsi utilizzabili ed il loro contenuto indiziario deve ritenersi illegittimamente posto a fondamento della decisione impugnata. Infatti, secondo il ricorrente, contrariamente a quanto indirettamente sostenuto nel provvedimento impugnato, l'inutilizzabilità delle suddette dichiarazioni è da ritenersi assoluta e dunque operante anche nell'incidente cautelare. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il motivo ritenendo inutilizzabili le dichiarazioni de relato della P.O. che erano state incluse con valore determinante nel ragionamento motivazionale del provvedimento impugnato.

La questione

La questione in esame è dunque la seguente: «se possa ritenersi utilizzabile la dichiarazione de relato resa dalla persona offesa in merito ad una presunta offerta risarcitoria comunicata dal difensore dell'indagato al proprio avvocato, sul presupposto della ritenuta inopponibilità del segreto professionale ove il segreto sia imposto da regole deontologiche insuscettibili di ampliare il perimetro di tale segreto nel processo penale, dove invece lo si vedrebbe sancito solo a garanzia del diritto di difesa».

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento ha affrontato, tra le altre oggetto del ricorso, la questione sopra menzionata anzitutto ponendo mente alla possibilità o meno di integrare il quadro indiziario, anche nella fase cautelare, mediante dichiarazioni de relato, che non abbiano poi trovato conferma nella fonte indicata. La soluzione di tale passaggio è molto netta nel senso di sottolineare che il divieto di testimonianza indiretta posto dal comma 6 dall'art. 195 c.p.p. non opera solo nel dibattimento. Tale divieto è tuttavia previsto come mera eccezione alla regola generale di ammissibilità della testimonianza indiretta in ogni fase del procedimento; a riprova la Corte di cassazione ha infatti richiamato l'inequivocabile e quanto mai pertinente dato normativo del comma 1-bis dell'art. 273 c.p.p. (introdotto con l. 63/2001), che espressamente richiama il comma 7 dell'art. 195 c.p.p. nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ai fini dell'applicazione di misure cautelari. Quanto all'ulteriore profilo vagliato dai giudici di legittimità e inerente la differenza sostanziale tra l'incompatibilità con l'ufficio di testimone stabilità dal comma 1 lett. d) dell'art. 197 c.p.p. per il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e la facoltà per l'avvocato di astenersi dal deporre stabilita al comma 1 lett. b) dell'art. 200 c.p.p., i giudici di legittimità hanno precisato che tale facoltà di astensione dal deporre dell'avvocato non costituisce eccezione alla regola generale dell'obbligo di rendere testimonianza ma è espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale. Esso in quanto tale è operativo in tutte le fasi del procedimento ed è frutto del delicato bilanciamento operato dal Legislatore, sia tramite il codice di rito, sia attraverso la legge professionale forense, degli opposti interessi dell'accertamento dei reati e dell'effettività del diritto di difesa, nonché dei correlativi obblighi gravanti sull'avvocato eventualmente chiamato a testimoniare.

Osservazioni

Nella decisione in commento la Suprema Corte si è imbattuta nella situazione, non frequente, derivante dalla ritenuta possibilità da parte del giudice di merito di ammettere l'utilizzo di una dichiarazione de relato, sulla quale, nel caso specifico, il difensore della persona offesa (la quale aveva appunto riferito dell'esistenza di trattative intercorse tra il suo difensore e quello dell'indagato dirette a giungere ad un risarcimento in suo favore), aveva però opposto il segreto professionale in sede di convocazione a sommarie informazioni testimoniali avanti alla polizia giudiziaria. Varie e di notevole interesse, come sopra accennato, sono dunque le considerazioni reperibili nella motivazione, poiché la Corte ha affrontato diversi aspetti ermeneutici implicati nella questione sottoposta al vaglio di legittimità, che vanno dalla portata e dal perimetro del diritto-dovere del segreto professionale forense, alla sua efficacia nelle diverse fasi del procedimento, all'inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato non confermate dalla fonte in ragione dell'opposizione del segreto professionale, al rapporto tra le norme processuali e le regole deontologiche. Proprio su quest'ultimo aspetto pare opportuno soffermarsi per sottolineare come la Cassazione abbia colto l'occasione per diffondersi sull'importanza della nuova legge professionale forense (e conseguentemente del codice deontologico forense), ai fini della più corretta interpretazione delle norme che vedono coinvolto l'avvocato nelle dinamiche processuali non in quanto esercente il ruolo defensionale, ma in quanto possibile depositario di informazioni che le parti processuali possono avere interesse a ottenere attraverso la deposizione dell'avvocato stesso. Va osservato come nell'ordinanza del tribunale del riesame di Torino tale situazione era stata ricostruita in modo riduttivo, poiché il dovere della tutela del segreto professionale era stato ricondotto al solo precetto deontologico, insuscettibile secondo il tribunale torinese di ampliare il suo perimetro di operatività nel processo penale, e ciò anche mediante un'interpretazione ugualmente errata e limitativa del divieto di rivelazione del segreto professionale segreto posto dall'art. 622 c.p. Giustamente la Suprema Corte ha stigmatizzato come proprio in tale prospettazione risieda il vizio di legittimità fondatamente sollevato dal ricorrente e che consiste, in definitiva, nell'errata ricostruzione del sistema delle fonti di riferimento dell'argomento del segreto professionale, segnatamente mediante la mancata considerazione della legge professionale forense quale fonte primaria per una corretta lettura ermeneutica della questione. E infatti l'avvocato può senza dubbio essere chiamato a deporre ma in tale sede potrà astenersi dal farlo, opponendo il segreto professionale in ordine a qualsiasi informazione appresa in ragione della propria attività professionale, salvo il possibile controllo e l'eventuale conseguente ordine del giudice ai sensi del comma 2 dell'art. 200 c.p.p. Grava tuttavia sull'avvocato che rifiuti di testimoniare l'obbligo di compiere una verifica a 360 gradi sulle diverse e varie sfaccettature di tale poliedrica situazione, poiché, come pure evidenziato nella sentenza in commento, la tutela del segreto professionale scaturisce dal combinato disposto dell'art. 622 c.p. e dell'art. 6 della legge 247/2012 (legge professionale forense), che l'ordinamento ha posto le basi dell'obbligo di segretezza dell'esercente la professione d'avvocato, vincolandolo “alla rigorosa osservanza” del segreto professionale e comunque al massimo riserbo su ogni notizia appresa nel contesto del mandato, in considerazione del riconoscimento costituzionale del diritto di difesa ed alla sua tutela e non a presidio di interessi soggettivi del professionista (cfr. Corte Cost. n. 87/1997).

Guida all'approfondimento

G. INSOLERA E L. ZILLETTI (a cura di), Il rischio penale del difensore, Giuffrè, 2009, pagg. 137 ss.

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