Coronavirus e carcere: ripercussioni in materia di accesso alle misure alternative

25 Settembre 2020

Il Covid-19 ha fatto riemergere la drammatica situazione delle carceri italiane legata al cronico sovraffollamento e alle sue precarie condizioni generali. Grazie a una coraggiosa giurisprudenza di sorveglianza si è gestita la fase acuta dell'emergenza sanitaria, ampliandosi l'accesso alle misure alternative alla detenzione. Il legislatore si è mosso invece nella direzione opposta: i d.l. 28 e 29 del 2020 (convertiti dalla l. 70 del 2020) rappresentano un atto di sfiducia...
Abstract

Il Covid-19 ha fatto riemergere la drammatica situazione delle carceri italiane legata al cronico sovraffollamento e alle sue precarie condizioni generali. Grazie a una coraggiosa giurisprudenza di sorveglianza si è gestita la fase acuta dell'emergenza sanitaria, ampliandosi l'accesso alle misure alternative alla detenzione. Il legislatore si è mosso invece nella direzione opposta: i d.l. 28 e 29 del 2020 (convertiti dalla l. 70 del 2020) rappresentano un atto di sfiducia del legislatore verso la magistratura di sorveglianza. Ciò non ha però fermato queste evoluzioni giurisprudenziali, necessarie per garantire a soggetti con quadri clinici importanti, attraverso benefici extramurari, cure esterne adeguate (non fermandosi il diritto di salute in vinculis alla mera assistenza). Altrimenti potrebbe maggiormente essere percorsa la già intrapresa via dei ricorsi alla Corte di Strasburgo.

Il virus non rimane dietro le sbarre e corre più veloce delle decisioni giudiziarie

L'emergenza sanitaria legata al diffondersi su scala mondiale del covid-19 ha scoperchiato il vaso di pandora delle carceri (Manca, Covid-19 e carceri: un'emergenza al quadrato, umana e sanitaria, in questa Rivista, 16 marzo 2020), con la riemersione del sempre cronico sovraffollamento e alle condizioni igienico-sanitarie spesso precarie, che rischiano ancora di far diventare le prigioni italiane una bomba sanitaria che si può ripercuotere sulla tenuta del sistema sanitario nazionale.

Secondo l'ultimo report diramato dal SAPPE (Organo Ufficiale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) il 10 settembre si registrano 11 agenti di polizia penitenziaria e 10 detenuti positivi al virus [in servizio nelle carceri di S. Maria Capua Vetere (1), a Bologna (1), a Roma Regina Coeli (1), a Busto Arsizio (1), a Torino (1), San Gimignano (1), Perugia (1), Venezia Santa Maria Maggiore (2), Vicenza (1) e nella sede centrale del DAP (1)] e dieci detenuti a Cassino (1), Bollate (1), Lecco (1), Milano (4), La Spezia (1), Pisa (1) e Venezia Santa Maria Maggiore (1), tutti gestiti all'interno delle strutture carcerarie (in www.poliziapenitenziaria.it 11 settembre 2020).

Tali numeri, se isolatamente considerati, non destano allarme. Tuttavia, occorre considerare il rischio contagio legato al doppio flusso: dall'interno delle carceri verso l'esterno e viceversa.

Sul primo versante è ovvio che il sovraffollamento in cui le carceri sono ripiombate (dopo la tregua segnata dai provvedimenti seguiti alla sentenza pronunciata dalla Corte Edu sul caso Torreggiani contro Italia dell'8 gennaio 2013) diventa, per la conseguente impossibilità di mantenere il distanziamento minimo necessario volto contenere il rischio da contagio da covid-19, un pericolosissimo fattore di espansione del virus. Consequentur, «è del tutto evidente la necessità e l'urgenza di intervenire sul carcere. Si tratta di salvaguardare non soltanto la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari, ma quella dell'intera collettività: il virus, una volta entrato in carcere, non rimane dietro le sbarre, ma esce facilmente verso l'esterno» (Dolcini, Gatta, Carcere, Coronavirus, decreto ‘cura Italia': a mali estremi, timidi rimedi, in Sistema penale, 20 marzo 2020).

Non va sottovalutato poi il rischio di contagio dall'esterno verso l'interno degli istituti penitenziari: quella che si vive adesso è fase di incertezza legata alla pericolosa convivenza col virus senza lockdown dove, pur con tutte le misure per contenere al massimo il rischio epidemiologico, con la ripristinata libertà di movimento, è inevitabile che la curva dei contagi risalisse. Quindi è più ampio il pericolo che il virus venga portato dentro le carceri dall'esterno.

La coraggiosa giurisprudenza di sorveglianza sull'accesso delle misure alternative alla detenzione

La magistratura di sorveglianza, dopo avere invocato, invano, dal legislatore, modifiche immediate sulle modalità di accesso alle misure alternative alla detenzione – suggerendo di valutare l'inserimento del presupposto dell'emergenza coronavirus come elemento valutativo per tutti gli istituti normativi riguardanti la concessione di benefici penitenziari (si ci riferisce alla segnalazione congiunta dei Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Milano e Brescia al Guardasigilli del 15 marzo 2020, ove si conclude che in assenza di automatismi e di immediata applicabilità «non è possibile fronteggiare l'emergenza così drammaticamente insorta: il virus corre più veloce di qualunque decisione che, alle condizioni date, è certo perverrebbe fuori tempo massimo») – è stata costretta a ricoprire un delicato ruolo di supplenza.

Invero qualche timido intervento per provare a ridurre la densità penitenziaria è stato inserito nel decreto legge Cura Italia (d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, convertito in l. 24 aprile 2020 n. 27). Si tratta tuttavia di misure assolutamente insufficienti che si arrestano in definitiva in una speciale forma di esecuzione della pena presso il domicilio (inserita nell'art. 123 d.l. 18/2020), sulla carta più agevole di quella esistente e prevista dall'art. 1 l. n. 199/2010, ma di fatto appesantita da tanti lacciuoli che ne ostacolano l'applicazione).

Gli uffici di sorveglianza non hanno esitato ad adottare misure svuota-carceri per allentare la pressione carceraria (per un'ampia casistica, Calcaterra, La voce del carcere non resti inascoltata, in Diritto Penale e Uomo, 8 aprile 2020; Della Bella, La magistratura di sorveglianza di fronte al COVID: una rassegna dei provvedimenti adottati per la gestione dell'emergenza sanitaria, in Sistema Penale, 29 aprile 2020; Manca, Ostatività, emergenza sanitaria e Covid-19: le prime applicazioni pratiche, in Giurisprudenza penale, 14 aprile 2020), percorrendo varie strade, anche con l'utilizzo di alcuni istituti già presenti nell'ordinamento penitenziario, rileggendone alcuni dei requisiti applicativi: primo fra tutti il ‘grave pregiudizio' della protrazione dello status detentionis, previsto per l'applicazione ‘provvisoria' dell'affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare.

Una misura a cui i giudici di sorveglianza hanno fatto largo accesso è stata l'applicazione provvisoria dell'affidamento in prova, anche quello terapeutico (Uff. sorv. Siena 1° aprile 2020, ravvisando «l'urgenza nel provvedere nel particolare momento di emergenza sanitaria nazionale per accedere ad un'esecuzione penale umana»; allo stesso modo, Uff. Sorv. Mantova, 8 aprile 2020), soprattutto laddove il condannato stia usufruendo, nell'ottica dell'avviato progetto rieducativo e della relativa progressione trattamentale, di finestre extramurarie come il lavoro all'esterno [Uff. Sorv. Milano, 20 marzo 2020, ove si sottolinea la necessità di riprendere l'attività lavorativa esterna (iniziata a gennaio 2020 e interrotta, in ossequio alle disposizioni dell'art. 8 d.l. 11/2020, all'interno della fallita prima strategia governativa di “chiudere le porte del carcere” con la sospensione dell'esecutività dell'art. 21 ord. pen.), «al fine di limitare il rischio di contagio all'interno delle carceri»], la semilibertà (Uff. Sorv. Siracusa, 16 marzo 2020) o il permesso premio (Uff. Sorv. Siena, 1° aprile 2020).

Più sporadiche sono state le concessioni provvisorie della detenzione domiciliare ordinaria. Ciò anche per il persistente divieto di concessione per i condannati per i reati di cui all'art. 4-bisord. pen. ritenuto di recente legittimo costituzionalmente dalla Consulta (Corte cost., 13 marzo 2020, n. 50). Le applicazioni urgenti della detenzione domiciliare riguardano casi di carcerazioni detenzioni di lungo corso, con già sperimentate esperienze di permessi, e attività di lavoro all'esterno in atto, che ne abbiano saggiato l'attenuazione del pericolo di recidiva (Uff. Sorv. Livorno, 3 aprile 2020).

Si è infine ricorso alla esecuzione della pena presso il domicilio ex art. 1 l. 199/2010, slegata dai nodi confezionati dal legislatore d'emergenza e preferendo così il modello ordinario, prendendo atto che la “nuova” esecuzione domiciliata disegnata dall'art. 123 d.l. 18 del 2018 è misura all'apparenza più favorevole ma di fatto di difficile immediata applicazione (Uff. Sorv. Spoleto, 27 marzo 2020).

L'ampio ricorso alla detenzione domiciliare ‘umanitaria'

L'istituto di più ampia applicazione per la rapida fuoriuscita del detenuto nella prima fase emergenziale è stata quella del differimento della pena, accompagnato dalla detenzione domiciliare c.d. “in deroga” (o ‘in surroga' del differimento della pena o ‘umanitaria'), in quanto quest'ultima non è vincolata da limiti edittali in caso di grave infermità (fisica e adesso, alla luce della sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale, anche psichica) concedibile anche ai detenuti per reati ostativi ex art. 4-bisord. pen., financo se sottoposti al regime di cui all'art. 41-bisord. pen. e per quelli che in passato hanno subito la revoca di misure alternative. Tale misura alternativa è stata concessa da molti uffici di sorveglianza in presenza di un quadro clinico grave, pur quando non è stato ritenuto dai sanitari non incompatibile con il regime detentivo (tenendo invece conto delle indicazioni scientifiche fornite dall'OMS e dall'ISS).

E così, la misura ex art. 47-ter, comma 1-ter e quaterord. pen. è stata disposta

perché «risulta che il detenuto è affetto da diabete mellito insulinodipendente e da insufficienza renale cronica. Una eventuale infezione da covid-19 porrebbe il paziente in una condizione di rischio per la sopravvivenza» (Uff. Sorv. Verona, 4 aprile 2020);

  1. in presenza di pluripatologia di detenuto sostenuto da tempo di un assistente alla persona che lo coadiuva (Uff. Sorv. Siena, 6 aprile 2020);
  2. in favore di soggetto in età avanzata, affetto da diabete mellito e ipertensione arteriosa (Uff. Sorv. Siena, 27 marzo 2020);
  3. laddove si registrano esiti di infarto del miocardio e cardiopatia ipertensiva (Uff. Sorv. Siena, 6 aprile 2020);
  4. in caso di vasculopatia diffusa con pregressi episodi di ischemia celebrale transitoria (Uff. Sorv. Siena, 27 marzo 2020);
  5. per detenuto ultraottantenne affetto da insufficienza valvolare e ipertensione (Uff. Sorv. Siena, 27 marzo 2020);
  6. in caso di cardiopatia ischemica post-infartuale suscettibile di aggravamento (Uff. Sorv. Padova, 26 marzo 2020);
  7. per obesità, OSAS di grado severo in terapia con supporto respiratorio notturno con C-PAP e diabete mellito (Uff. Sorv. Livorno, 19 marzo 2020);
  8. in presenza di rischio di complicanze in caso di contagio da covid-19 a causa della grave patologia cardiologica cui è affetto il detenuto (Uff. Sorv. Trento, 22 aprile 2020).

Si è ritenuto, in particolare, che «non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete, tenuto conto che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio; tali patologie possono considerarsi gravi con specifico riguardo all'elevato rischio di contagio attualmente in corso per covid-19 che appare più elevato in ambiente carcerario ove non è possibile l'isolamento preventivo» (Trib.Sorv. Milano, 31 marzo 2020, Id., Uff. Sorv. Brescia, 3 aprile 2020).

In applicazione a tali condivisibili principi, non si è esitato a concedere la detenzione domiciliare umanitaria anche all'ergastolano (Uff. Sorv. L'Aquila, 26 marzo 2020) e al sottoposto al regime del carcere duro ex art. 41-bis ord. pen. (Trib. Sorv. Sassari, 23 aprile 2020; Uff. Sorv. Milano, 20 aprile 2020).

Tali ordinanze ripercorrono quel sentiero interpretativo già avviato dalla Suprema Corte (e non ancora metabolizzato da tutta la giurisprudenza di sorveglianza di merito) per la quale, «ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p., non è necessaria un'incompatibilità ‘assoluta' tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario» (Cass. pen., Sez. I, 17 maggio 2019, n. 27352). Occorre pertanto effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest'ultimo «valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico» (Cass. pen., Sez. I, 31 luglio 2018,n. 37062).

Il legislatore si muove in direzione opposta: i d.l. 28 e 29 del 2020 come atto di sfiducia nella magistratura di sorveglianza

Questi ultimi provvedimenti di differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare di condannati sottoposti al 41-bis ord. pen., di cui è stato dato ampio risalto mediatico, hanno alzato il volume della polemica politica, ove si è raffigurata la scarcerazione di boss della criminalità organizzata che nelle pieghe dell'emergenza coronavirus hanno trovato lo spiraglio per uscire dal carcere.

Così il legislatore d'urgenza ha deciso di intervenire, come al solito in ritardo – lo stesso legislatore che ha lasciato, come visto, in piena pandemia la ‘patata bollente' alla magistratura di sorveglianza – ma non per indicare soluzioni che garantissero il diritto di salute del detenuto (posto seriamente a rischio dall'emergenza coronavirus) preoccupandosi all'opposto che il covid-19 potrebbe essere stato (e continuare ad essere) il ‘pretesto' per uscire dal carcere, anche per i detenuti ‘pericolosi'. Occorreva insomma un “ansiolitico” per rasserenare una opinione pubblica allarmata (Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in Sistema Penale, 19 maggio 2020).

Si è così introdotto, ‘a monte' (prima cioè di un eventuale provvedimento di scarcerazione), nelle procedure di richiesta di permessi di necessità e di detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, nel caso in cui le istanze siano presentate per detenuti per i delitti previsti dall'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. (essenzialmente quelli di mafia o terrorismo, ma non solo, si pensi all'immigrazione clandestina, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sequestro di persona a scopo di estorsione), il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis, anche quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo in ordine all'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto (art. 2 d.l. 30 aprile 2020 n. 28). Quindi, anziché accelerare i tempi per le decisioni nelle quali fronteggiare l'urgenza di salvaguardia del diritto di salute del detenuto, si pongono dei “lacci” per un parere che, non potendo influire in alcun modo nella valutazione della situazione di incompatibilità delle condizioni di salute con lo status detentionis, potrà al più costringere il magistrato di sorveglianza a dover adeguatamente motivare in ordine alla possibilità che, in considerazione delle condizioni di salute del detenuto pericoloso, la tutela della collettività potrà essere salvaguardata con la detenzione domiciliare, per l'appunto “umanitaria”.

Anche ‘a valle' – dopo l'eventuale concessione del differimento dell'esecuzione nelle forme della detenzione domiciliare umanitaria ad alcune categorie di condannanti ritenuti particolarmente pericolosi (oltre a quelli sottoposti al 41-bis, gli imputati o condannati per associazione mafiosa, sovversive, terroristiche o per un delitto volto a favorire o avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare i predetti sodalizi; o le associazioni criminali in materia di stupefacenti) – il legislatore d'urgenza si è curato di prevedere un defaticante “monitoraggio” (nei quindici successivi all'uscita dal carcere e poi con cadenza mensile) per verificare se continuino a sussistere i motivi di scarcerazione legati al coronavirus. In particolare l'art. 2 del decreto legge 10 maggio 2020 n. 29 prevede che per queste categorie di detenuti che abbiano avuto concessa la detenzione domiciliare o usufruiscono del differimento della pena «per motivi connessi all'emergenza sanitaria da covid-19, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per i condannati ed internati già sottoposti al regime di cui al predetto articolo 41-bis, valuta la permanenza dei motivi legati all'emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall'adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso in cui il DAP comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell'internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena».

Tali novelle (mal)celano un atto di sfiducia nel libero convincimento della Magistratura di sorveglianza, mirando a restringerne il potere valutativo nella concessione delle misure penitenziarie a carattere umanitario (Pulvirenti, in Legislazione penale, 26 maggio 2020).

Sollevate quaestio di (in)costituzionalità

Non hanno pertanto tardato ad arrivare le questioni di legittimità costituzionale, sollevate con riferimento alle interpolazioni apportate dal d.l. n. 29/2020, per evidenti violazioni del diritto di difesa e del mancato rispetto della parità delle armi (oltre che sotto il profilo dell'art. 3 per la selezione irragionevole del perimetro soggettivo di applicazione), «in un procedimento meno garantito e fortemente orientato verso il ripristino della detenzione, attribuendo alla presunzione di speciale pericolosità derivante dalla commissione di un certo reato (in ambito che peraltro non concerne il trattamento, ma la tutela del diritto fondamentale di salute ex art. 32 Cost. e alla umanità delle pene prevista nell'art. 27 comma 3) una portata che finisce per travalicare il giudizio in concreto già compiuto sul punto, in modo individualizzato, nel provvedimento provvisorio emesso dal magistrato di sorveglianza» (Uff. Sorv. Spoleto, 26 maggio 2020, Dott. Gianfilippi, a cui sono seguiti altri incidenti di costituzionalità proposti da Uff. Sorv. Avellino, 3 giugno 2020 e Trib. Sorv. Sassari, 9 giugno 2020, che hanno utilizzato quale ulteriore parametro di possibile contrasto quello della possibile lesone del diritto di salute).

La Corte costituzionale, nell'ordinanza n. 185 del 22 luglio 2020 (depositata il successivo 30 luglio (se vis, Minnella, Costante rivalutazione delle scarcerazioni legate al covid-19: la Consulta restituisce gli atti al giudice a quo. Ma i dubbi di (in)costituzionalità permangono, in Diritto e Giustizia, 3 agosto 2020), pur ritenendo immutata la quaestio, ha restituito gli atti al giudice a quo per valutare se le modifiche alla disposizione censurata introdotte dalla legge 25 giugno 2020 n. 70 (che mirano a una più intensa tutela del diritto di difesa del condannato, cui è ora garantita una piena partecipazione al procedimento avanti il tribunale di sorveglianza nel termine perentorio di trenta giorni decorrenti dal provvedimento di revoca) bastino per colmare le violazioni al diritto di difesa.

Ritenendo invece che continuino a residuare zone di incostituzionalità, l'Uff. Sorv. Spoleto ha sollevato nuovamente l'incidente di costituzionalità (ordinanza 18 agosto 2020, sulla quale Manca, “The match goes on”: il Magistrato di Sorveglianza solleva nuovamente questione di legittimità costituzionale sul decretolegge n. 29/2020, in questa Rivista, 9 settembre 2020).

In particolare, persiste l'assenza irragionevole di qualsiasi coinvolgimento della difesa dell'interessato. Oltre a non essere previsto che sia comunicato alla parte l'instaurazione del procedimento, si dubita della stessa possibilità per il condannato di produrre memorie e documentazione, che sarebbero comunque memorie ‘alla cieca' in quando è all'oscuro degli elementi essenziali acquisiti in sede di istruttoria. Ciò a differenza dell'accusa – in violazione della parità delle armi – che invece emette il suo parere obbligatorio dopo aver letto i contenuti istruttori.

In definitiva per il giudice remittente nella nuova procedura in peius prevista d.l. 29 le istruttorie richieste (che si limitano alla verifica del rinvenimento di una struttura sanitaria adeguata alle condizioni di salute del detenuto) sollecitano evidentemente verso la revoca della detenzione domiciliare e il ripristino della detenzione, sancendo un drammatico nuovo cambiamento delle modalità di esecuzione della pena, che peraltro non conduce dal ‘dentro' al ‘fuori' (come sancito dalla storica sentenza n. 32 del 2020 della Consulta), ma in direzione opposta.

Le prime indicazioni della Cassazione

In attesa delle prime pronunce della Suprema Corte su ricorsi aventi ad oggetto provvedimenti di concessione o rigetto di differimento della pena (anche) nella forma della detenzione domiciliare umanitaria, si segnala una recente pronuncia (Cass. pen., Sez. V, n. 25831, depositata il 10 settembre 2020) sul versante ‘cautelare' (e non di esecuzione pena) su un gravame, proposto da un detenuto in custodia in carcere che lamentava come i giudici cautelari non avessero verificato con i loro poteri di accertamento le condizioni igienico sanitarie dell'istituto penitenziario di Voghera (che si trovava in una delle zone maggiormente a rischio covid) ed i pericoli per la salute del detenuto in relazione alla diffusione del coronavirus all'interno del reparto nel quale è allocato il ricorrente (che ha visto anche la morte del cappellano del carcere), esponendosi al rischio di una infezione letale.

Nel dichiarare inammissibile il ricorso per genericità, nella pronuncia del Massimo Consesso si possono in ogni caso trarre delle utili indicazioni.

Bisogna anzitutto indicare e verificare “lo stato di salute del detenuto e successivamente le situazioni concrete della detenzione”. Non basta insomma invocare genericamente che la permanenza in ambiente carcerario sia di per sé pericolosa e insostenibile per il diritto di salute di qualsiasi detenuto «a prescindere dallo stato di salute di qualsiasi detenuto, ovvero anche dalle concrete condizioni di detenzione, perché queste sarebbero comunque incompatibili con il distanziamento necessario ad evitare il contagio, data la situazione di sovraffollamento carcerario di cui soffre il nostro Paese».

Occorre in sostanza descrivere elementi di particolare pericolosità per lo stato di salute del detenuto individuando eventuali patologie che in caso di contagio covid-19 rischiano di aggravare le condizioni di salute e di non essere in grado di affrontare le relative cure adeguate all'interno del carcere. In presenza di tale quadro clinico bisognerà calare il detenuto già malato nella sua vita carceraria, accertando quali siano in concreto le sue condizioni detentive. Bisogna pertanto verificare se l'amministrazione penitenziaria hanno messo in atto tutte quelle misure (ad esempio, la sanificazione degli ambienti e alla collocazione dei detenuti con patologie importanti in celle singole) per verificare se il quid pluris del rischio di contagio da covid-19 spinga la detenzione oltre la soglia della compatibilità delle condizioni di salute.

Il mutamento di paradigma della salute intramuraria: dalla mera assistenza a cure adeguate al benessere fisico

Sebbene il concetto di salute abbia assunto negli ultimi anni un'accezione più ampia rispetto alla mera assenza di malattia, giungendo ad identificarsi con un generale stato di benessere della persona, in carcere tale concetto sembra invece restringersi in carcere. In altri termini, benché sia ormai ampiamente riconosciuto in giurisprudenza che il diritto alla salute, così come garantito dalla Costituzione, è anche il diritto alla salute della persona detenuta, l'impressione «è quella per cui la nozione di salute e la tutela apprestata al corrispondente diritto continuino a viaggiare su un doppio binario, a seconda che si riferiscano a soggetti liberi o a soggetti sottoposti a limitazioni della libertà personale» (Massaro, Salute e sicurezza nei luoghi di detenzione: coordinate di un binomio complesso, in La tutela della salute nei luoghi di detenzione, 2017). La condivisibile affermazione secondo cui la lesione di un diritto fondamentale non sarebbe mai giustificabile neppure per esigenze di sicurezza in concreto sembra scontrarsi con le perduranti difficoltà di attuazione del diritto alla salute intramuraria (Storace, Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà nel periodo di emergenza sanitaria, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 4/2020, 7 luglio 2020).

La tutela del diritto di salute, nella sua applicazione pratica, declina così alla mera assistenza, finendo la valutazione della compatibilità delle condizioni di salute con lo status detentionis per essere ritenuta soddisfatta con l'affermazione del ricorso al possibile accesso a presidi ospedalieri, anche esterni.

Come sottolineato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, occorre invece in materia di salute detentiva, un mutamento di paradigma: «da fornitura di servizi di assistenza e cura in risposta a bisogni già emersi, quasi come mera risposta a patologie evidenziate, a costruzione di strumenti per il benessere fisico e psichico all'interno di queste Istituzioni attraverso percorsi di prevenzione, educazione sanitaria, miglioramento delle condizioni igienico-ambientali» (Palma, Relazione al Parlamento 2018).

La Suprema si spinge sempre di più in questa direzione. Una recente pronuncia – nell'annullare un'ordinanza d rigetto della richiesta di detenzione domiciliare umanitaria, evidenziando l'ambiguità del contenuto della relazione sanitaria che, pur riconoscendo la gravità delle patologie, necessitanti frequenti controlli presso strutture sanitarie esterne, aveva concluso che l'attuale stato di salute del recluso fosse “ai limiti della compatibilità con il regime carcerario” – i giudici di legittimità affermano che «la motivazione rasenta l'apparenza, la valutazione di compatibilità sembrando ancorata esclusivamente al costante controllo delle patologie che dimostra, però, l'assolvimento degli inderogabili obblighi di assistenza, ma non anche degli obblighi di cura adeguata» (Cass. pen., Sez. I, n. 22498, depositata il 24 luglio 2020).

Non basta quindi il controllo delle patologie, ma occorre che il detenuto sia adeguatamente curato. E se le cure in vinculis non sono adeguate (rispetto a quelle che lo stesso può ricevere all'esterno) si devono aprire le porte del carcere.

Proseguono gli interventi giurisprudenziali della magistratura di sorveglianza sull'accesso alle misure alternative

In tale auspicata direzione – nella quale andava la citata (supra) e coraggiosa giurisprudenza per fronteggiare la fase delicata dell'emergenza covid-19 – continua a muoversi la magistratura di sorveglianza, anche in questo nuovo tragitto di convivenza ‘forzata' col virus.

Si segnalano infatti pronunce di concessione della detenzione domiciliare umanitaria in cui in presenza insufficienza valvolare aortica, cui si associa cardiopatia ipertensiva, si rileva l'opportunità di collocazione del soggetto in idoneo ambiente alternativo alla carcerazione a motivo del delicato quadro clinico dell'interessato, della necessità di frequenti contatti con i servizi sanitari territoriali: «nella relazione medica si evidenzia anche la possibilità ancora attuale di una nuova ondata epidemica collegata all'infezione da covid-19 che, in caso di contagio esporrebbe […] ad un aumentato rischio sanitario» (Trib. Sorv. Trento, 11-14 agosto 2020). Interessanti sono proprio tali passaggi argomentativi: l'ondata del covid non è cessata e quindi il livello di attenzione e di allerta dei giudizi di sorveglianza rimane sempre alto.

Sempre lo stesso Ufficio di sorveglianza trentino ha continuato a concedere (e sempre in via provvisoria) ad altro detenuto la detenzione domiciliare per motivi di salute attese le sue gravi condizioni (diabete mellito complicato da insufficienza renale cronica e neuropatia degli arti inferiori) «e certamente le esigenze terapeutico sanitarie possono essere più prontamente affrontate dai sanitari che già lo hanno in cura» (Uff. Sorv. Trento, 29 luglio 2020). Espressione, come detto, di una visione della tutela del diritto di salute in vinculis che non si arresta alla mera assistenza ma che, ogni qual volta constati che al detenuto possono essere apprestate cure più adeguate ‘fuori' dal carcere, si deve ricorrere a misure alternative alla detenzione (modulate a seconda del diverso grado di pericolosità del condannato).

Tali panorami interpretativi inducono a far riflettere sul tema delle misure extramurarie per motivi di salute in generale, che comunque vengono concesse solo in parte qua, in quanto è noto che i numeri sono sempre minori rispetto alle persone effettivamente malate che avrebbero bisogno di cure esterne.

La via dei ricorsi alla corte di strasburgo

Poiché tali approcci giurisprudenziali si sono sviluppati a macchia di leopardo nel territorio nazionale, alcuni detenuti, ai quali sono state rigettate richieste di misure extramurarie, hanno già percorso la via del ricorso dinanzi alla Corte EDU.

L'impossibilità di attendere i tempi di decisione dei relativi gravami interni ha indotto i detenuti (a Vicenza e Torino) a richiedere in via d'urgenza, ai sensi dell'art. 39 Regolamento di procedura della Corte EDU, “misure provvisorie”. La richiesta di interim measures si è basata sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, incompatibili con la permanenza nel carcere del ricorrente. Il rischio di contagio da covid-19 – non fronteggiato attraverso l'accesso a una misura alternativa alla detenzione – si rappresenta quale elemento aggiuntivo alla configurazione della pena non contraria al senso di umanità.

La Corte di Strasburgo finora non ha accolto la richiesta di indicare al Governo italiano le richieste misure provvisorie, anche perché nelle more sono state fissate le relative udienze davanti ai giudici dell'impugnazione e in qualche caso accolte le richieste di benefici alternativi alla detenzione (Trib. Sorv. Venezia, 29 aprile 2020, che ha concesso la detenzione domiciliare ‘ordinaria'). Tale circostanza non deve essere interpretata come un'anticipazione della posizione della Corte ma va contestualizzata nel quadro di un consolidato orientamento restrittivo in materia di misure provvisorie, le quali vengono concesse soltanto a fronte di un imminente rischio di danno irreparabile («an imminent risk of irreparable harm»).

Le difficili condizioni detentive in cui vive la popolazione carceraria “ai tempi del Coronavirus”, sembrerebbero porsi in un difficile rapporto di compatibilità con l'art. 3 CEDU. Infatti, il carcere rimane un luogo in cui igiene personale, distanziamento, sanificazione, e isolamento, sono ancora chimere.

Pertanto “non si esclude che i Giudici di Strasburgo, nella valutazione dei singoli casi, possano giungere a ritenere che la contrazione del virus in carcere o anche la mera esposizione di detenuti in età avanzata o affetti da particolari patologie ad un più elevato rischio di contagio da covid-19 superi la soglia di gravità necessaria a configurare una violazione del suddetto parametro convenzionale” (Storace, cit). Tra questi casi si segnala quello di un detenuto del carcere Le Vallette di Torino, che ha adito la Corte EDU in quanto, nonostante sia risultato positivo al covid- 19, e la direzione sanitaria dell'istituto abbia rilevato, già in data 8 aprile 2020, l'incompatibilità della malattia con la prosecuzione della detenzione, continui a restare in carcere (Il Dubbio, 1° maggio 2020).

Più in generale, la pena, espiata in un sistema penitenziario già emergenziale a regime “ordinario” (Gianfilippi, Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020 n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell'epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario, in Giustizia insieme, 18 marzo 2020), «a cui si aggiunge una epidemia a livello mondiale una emergenza nell'emergenza da fronteggiare in ambito intramurario, non solo non è in grado di spiegare alcuna funzione costituzionale, ma pone in grave pericolo la salute del detenuto e di quanti altri gravitano nel sistema penitenziario, aggiungendo un ulteriore carico di sofferenza e di angoscia, nella migliore ipotesi per la tensione da contagio, ad una pena detentiva da tempo ai limiti della umanità» (Pomanti, La pena nell'emergenza o la pena dell'indifferenza?, in Archiviopenale.it, n. 1/2020).

L'intervento della Corte EDU, in questo momento, quindi, potrebbe rappresentare un'importante svolta, necessariamente propositiva per gli orientamenti della magistratura di sorveglianza, soprattutto di quella più restìa a supplire alla contumacia del legislatore.

In conclusione

Lo sviluppo della lodevole “evoluzione giurisprudenziale” della magistratura di sorveglianza ci si augura possa continuare a trovare ampia applicazione in questa fase (ancora più incerta) di lotta al coronavirus e possa altresì stabilizzarsi ed estendersi anche dopo che sarà cessata l'emergenza sanitaria. Tale “diritto vivente emergenziale” è espressione di una pena realmente “rieducativa” (come tale flessibile e progressiva), quindi una esecuzione della pena che tiene conto del percorso rieducativo compito dal condannato, collaudato spesso con le prime finestre extramurarie.

Le coraggiose pronunce della magistratura di sorveglianza (anche quelle di applicazione della detenzione domiciliare umanitaria a detenuti ‘pericolosi'), dipingono poi il volto costituzionale di una pena “umana”, dove il carcere è incompatibile con soggetti che presentano patologie gravi o pluripatologie.

La grave emergenza sanitaria che stiamo vivendo deve essere l'occasione per ripensare abbandonare la visione carcero-centrica, ampliando il ricorso alle misure alternative alla detenzione.

Era questa la direzione corretta in cui si stava andando fino a quando il vespaio di polemiche che hanno accompagnato alcune scarcerazioni ‘eccellenti' hanno interrotto, almeno in parte, tale percorso. Si sono sventolate le esigenze di sicurezza pubblica legate alla tutela della collettività dal pericolo che altri reati anche gravi vengano commessi con l'accesso alle misure alternative alla detenzione.

Appare evidente che per i d.l. 28 e 29 del 2020 fanno precipitare il piatto della bilancia tutto dalla parte delle esigenze di sicurezza sociale (Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari, Giuffrè, 2020). È come se ci fosse una chiara scelta di considerare il diritto alla salute nettamente subordinato a tali esigenze. Occorre invece un contemperamento tra le due esigenze che la legge ha trovato attraverso l'istituto del differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare umanitaria.

Ancora una volta, il legislatore sembra restare ingabbiato nel monopolio del carcere dalla quale non riesce a liberarsi, neanche per poco, neanche in questa fase emergenziale. Lasciando come sempre alla Consulta il compito di ripristinare i giusti equilibri costituzionali.

Ritengo che, come sollecitato da più parti, occorre uscire dall'idea la quale il carcere sia l'unico luogo deputato a fronteggiare le esigenze di sicurezza della collettività, potendo bastare il contenimento “domiciliare”, sia per le condanne a pene detentive brevi, sia qualora, in armonia al finalismo rieducativo della pena, anche per pene originariamente non brevi, il condannato abbia avviato un percorso che “gradualmente” lo porti al suo reinserimento e nel vivere nei binari della legalità penale; sia, infine, qualora in presenza di uno stato morboso psicofisico o scadimento fisico che possa determinare un'esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana – dovendo contemplarsi l'esigenza di non ledere la salute del condannato come diritto di ricevere cure adeguate per lo sviluppo psico-fisico e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità – si sconfini verso una pena disumana o degradante, in aperto contrasto agli artt. 27, comma 3, Cost. e 3 CEDU.

Non solo. Come affermato pochi giorni fa dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma neanche la lotta alla mafia deve intaccare il diritto di salute: «L'esecuzione penale non può avere valore di messaggio, ma si deve basare sull'efficacia. Per evitare la prevalenza della ragione politica su quella giuridica» (La Repubblica, 4 settembre 2020, p. 8).

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