Responsabilità medica e responsabilità forense: quand'è colpa del sanitario e quand'è colpa dell'avvocato che lo cita in giudizio?

Enrico Basso
28 Settembre 2020

La recente pandemia, dispiace dirlo, è stata vista da certi esponenti della classe forense come una qualsiasi opportunità di business: per accaparrarsi nuova clientela, s'è giunti a pubblicizzare sui social networks azioni risarcitorie contro le strutture e i sanitari impegnati nella lotta contro il Covid-19. Il fenomeno ha assunto proporzioni tali da indurre alcuni COA a stigmatizzare pubblicamente simili iniziative, giustamente definite di sciacallaggio mediatico, e a esprimere solidarietà nei confronti di tutti gli operatori sanitari impegnati sul fronte.
La responsabilità professionale dell'avvocato in generale: cenni

I. È noto che la prestazione dell'avvocato abbia per oggetto un'obbligazione di mezzi e non di risultato, anche se in giurisprudenza s'è ritenuto che, laddove l'incarico professionale abbia ad oggetto un'attività di mera consulenza (preordinata o meno a una successiva attività giudiziale), non possa esservi obbligazione di mezzi, ma solo di risultato (cfr. Cass. civ., 22 novembre 2018 n. 30169; Cass. civ., 14 novembre 2002 n. 16023).

Secondo quest'impostazione, il parere legale rappresenta per sé stesso la realizzazione dell'interesse perseguito dal cliente che l'ha chiesto; ed essendo tale prestazione immune da fattori “esogeni” che sfuggono al controllo dell'obbligato (fattori che, al contrario, abbondano nella dinamica processuale), il mero rispetto del dovere di diligenza non sarebbe sufficiente.

Occorrerebbe, invece, il perseguimento di un risultato che, nel caso specifico del parere preordinato a un'attività giudiziale, la Cassazione individua «nell'ottenere dal tecnico gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni onde poter adottare consapevoli decisioni a seguito d'un apprezzamento ponderato di rischi e vantaggi».

Chi scrive è piuttosto scettico: inquadrandola come obbligazione di risultato, la prestazione stragiudiziale dell'avvocato diventa, in sostanza, “rendere un parere giusto”, quasi che la soluzione di un problema giuridico non differisca da quella di un problema aritmetico, in cui vi è sempre una -e una sola- soluzione esatta.

Se ciò fosse vero, mutatis mutandis non dovremmo mai vedere sentenze anche molto diverse per casi simili; ma non mi sembra affatto che sia così, nemmeno tra i giudici di legittimità.

Tornando a noi, come in tutte le obbligazioni aventi a oggetto una prestazione qualificata, l'avvocato è responsabile in una gamma di condizioni soggettive che va dalla colpa lieve al dolo, salvo si tratti di questioni tecniche di particolare difficoltà (nel qual caso risponderà, ai sensi dell'art. 2236 c.c., nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave).

È bene tener presente che, per adempiere esattamente al suo mandato e andar esente da colpa, l'avvocato non dovrà soltanto attenersi al canone della diligenza qualificata di cui al combinato disposto degli artt. 1176 c.c. comma 2 e 2236 c.c. (in base al quale, come incisivamente notato in giurisprudenza, l'archetipo di professionista "medio" rispetto al quale va misurata la diligenza dovuta non corrisponde alla figura di un professionista "mediocre", ma a quella d'un professionista "bravo": cfr. Trib. Roma, 7 giugno 2007, in De Jure), ma anche al canone della buona fede oggettiva o correttezza, che non è solo i. regola di comportamento, che opera a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali imponendo un comportamento leale e ii. regola di interpretazione del contratto, ma è anche iii. criterio di determinazione della prestazione contrattuale, che prescrive di compiere quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (cfr. recentemente Cass. civ., 6 maggio 2020 n. 8494).

Il codice deontologico forense, ancorché fonte meramente integrativa (cfr. Cass. civ.,Sez. Un.,7 luglio 2009 n.15852), declina in modo più specifico i canoni di cui sopra sancendo, inter alia:

- il dovere di lealtà e correttezza (art. 6), che vieta espressamente di proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave;

- il dovere di fedeltà (art. 7), che vieta il compimento di atti contrari all'interesse del proprio assistito;

- il dovere di diligenza (art. 8);

- il dovere di competenza (art. 12), che vieta all'avvocato d'accettare incarichi per i quali non sia adeguatamente competente e l'obbliga a informare il cliente d'eventuali circostanze impeditive dell'attività richiesta;

- il dovere di aggiornamento professionale (art. 13), che, in fondo è una proiezione del dovere di competenza;

- l'obbligo di informare il cliente, già al conferimento dell'incarico, delle caratteristiche e dell'importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili (art. 40).

La giurisprudenza, peraltro, estende l'obbligo d'informazione anche alle conseguenze probabili o possibili delle scelte effettuate dal cliente e all'acquisizione di un valido consenso informato, come accade per il medico con il paziente (cfr. Trib. Roma, 7 giugno 2007, cit., e altre ivi richiamate). Da tale obbligo è stato fatto discendere anche quello di dissuadere il cliente da azioni che siano manifestamente prive di fondamento (V. recentemente Trib. Vicenza n. 662/2020; conformi Cass. civ., n. 9695/2016 e Cass. civ., n. 10289/2015).

Tirando le fila, l'orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che in linea di massima l'avvocato sia inadempiente per incuria, ignoranza di disposizioni di legge, negligenza e imperizia tali da compromettere l'esito del giudizio, mentre nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni giuridiche opinabili risponderà solo per dolo o colpa grave (cfr. Cass. civ. 10 giugno 2016 n.11906).

Tuttavia, non basta che l'avvocato abbia violato le regole di condotta sopra evidenziate perché vi sia responsabilità; occorrono anche l'esistenza di un danno risarcibile e di un nesso di causalità tra la condotta inadempiente del legale e il danno subito dal cliente.

I.a) Il danno risarcibile

Focalizzandoci, visti i limiti di questa breve trattazione, sul danno conseguente a inadempimento d'incarichi di tipo giudiziale, possiamo immaginare due ordini di situazioni:

A) quelli in cui il cliente dell'avvocato ha effettivamente un diritto meritevole di tutela (diciamo, gergalmente, che il cliente “ha ragione”), ma non la ottiene: si tratta, sostanzialmente, dei casi in cui la causa andava effettivamente intentata, ma non lo è stata nonostante vi fosse un mandato, o è stata incardinata/proseguita male;

B) quelli in cui il cliente “non ha ragione” e, quindi, (auspicabilmente) non ottiene tutela: si tratta ora di casi in cui la causa non andava incardinata e, se incardinata, andava abbandonata prima possibile, cercando di limitare al massimo le conseguenze sfavorevoli.

Nella prima ipotesi, si ritiene in giurisprudenza che il cliente subisca -oltre all'eventuale “danno da soccombenza processuale”, di cui si dirà tra poco- un danno da perdita di chance.

Non la perdita del vantaggio economico perseguito, dunque, ma la perdita della possibilità di conseguirlo, che modernamente si ritiene autonomo cespite patrimoniale, la cui privazione integra danno emergente (cfr. Cass. civ. 22/11/2004 n. 22026; più recentemente, Trib. Milano n.2555/2020 e precedenti in termini, anche di legittimità, ivi citati).

È appena il caso di accennare al fatto che l'esistenza del danno “da perdita di chance” è stata autorevolmente messa in discussione da una parte della dottrina (cfr. G. Alpa, Responsabilità Civile e Danno, Bologna 1990, 207; più recentemente M. Rossetti, Il Danno Alla Salute, Milano 2017, 1225 e ss.) e anche da una parte -oggi minoritaria- della giurisprudenza di merito, che ne ha negato la risarcibilità ritenendola (e non senza ragioni, a sommesso parere di chi scrive) un escamotage per ammettere la risarcibilità di un danno il cui nesso causale, rispetto alla condotta illecita, non sia certo ma solo probabile (cfr. Trib. Roma, sez. XIII, 13 luglio 2005 e Trib. Roma, sez. XIII, 07 giugno 2007, entrambe in De Jure; con tutto che, talvolta, autori e magistrati “negazionisti” coincidono; ma, sulla necessità della prova rigorosa del nesso di causa anche per il danno da perdita di chance, v. da ultimo, Cass. civ., sent. n. 28993/2019).

Nel secondo caso, quello del cliente “che non ha ragione”, ma cui viene fatta intentare una causa palesemente destinata all'insuccesso, non potrà esservi perdita di chance,ma solo un danno emergente individuabile nelle spese di soccombenza processuale più ampiamente intese: onorari di avvocato (proprio e di controparte: cfr. Cass. civ., 22 novembre 2018 n. 30169), di consulenti di parte e d'ufficio, interessi legali, spese di contributo unificato, condanne al risarcimento da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. o al pagamento di una somma pari al contributo unificato ex art. 13 comma 1 quaterd.P.R. n. 115/2002, e così via.

I.b) Il nesso causale

Per quanto concerne il nesso causale, Cass. civ. n. 28986/2019 ha recentemente evidenziato come, in generale, «l'accoglimento d'una domanda di risarcimento del danno richieda l'accertamento di due nessi di causalità:

a) il nesso tra la condotta e l'evento di danno, inteso come lesione di un interesse giuridicamente tutelato, o nesso di causalità materiale;

b) il nesso tra l'evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, o nesso di causalità giuridica.

L'accertamento del primo dei due nessi suddetti è necessario per stabilire se vi sia responsabilità e a chi vada imputata; l'accertamento del secondo nesso serve a stabilire la misura del risarcimento. Il nesso di causalità materiale è dunque un criterio oggettivo di imputazione della responsabilità; il nesso di causalità giuridica consente di individuare e selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell'evento».

In ambito civile, in assenza di definizioni normative più attinenti, il nesso di causalità materiale è regolato dagli artt. 40 e 41 c.p., con la precisazione che qui la regola probatoria non è quella penalistica della certezza o della probabilità "oltre ogni ragionevole dubbio", ma quella più attenuata del "più probabile che non".

La causalità giuridica, invece, è regolata dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. per l'illecito aquiliano e contrattuale (art. 2056 c.c.); per l'inadempimento, anche dall'art. 1225 c.c.: il danno sarà risarcibile in quanto conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, oltre che prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione (cfr. Cass. civ., Sez.Un. ,11 gennaio 2008 n.576).

Occorrerà poi ulteriormente distinguere se la condotta inadempiente sia di tipo commissivo oppure omissivo.

Nel primo caso (pensiamo a quello dell'avvocato che incardina una causa nonostante il prevedibile esito infausto), i principi sopra esposti potranno essere applicati senza particolari difficoltà: oggetto dell'accertamento giudiziale saranno una condotta concreta, un giudizio realmente tenutosi, conseguenze sfavorevoli ugualmente reali e quantificate.

Nel caso di condotta omissiva, invece, i termini della questione sono diversi: l'esito del giudizio che il professionista ha omesso di incardinare o di gestire correttamente sarà meramente ipotetico, così come sarà ipotetico il risultato favorevole perduto dal cliente a causa dell'omissione.

Pertanto, sia per l'evento che per il danno, sarà possibile soltanto un accertamento prognostico e la regola del "più probabile che non" sarà applicabile non solo all'accertamento del nesso di causalità materiale (tra l'omissione del professionista e l'evento di danno), ma anche all'accertamento del nesso di causalità giuridica tra l'evento e le conseguenze dannose risarcibili.

In altri termini, non potendosi accertare empiricamente un vantaggio patrimoniale non verificatosi, per la perdita di chance non potrà nemmeno chiedersi all'attore una prova rigorosa e certa, evidentemente incompatibile con un accertamento solo ipotetico (cfr. Cass. civ., 21 gennaio 2020 n. 1169; Cass. civ., 24 ottobre 2017 n. 25112).

La responsabilità dell'avvocato nelle cause di responsabilità medica

Le cause per responsabilità medica presentano alcune peculiarità che devono essere necessariamente considerate, qualora si debba valutare l'operato del difensore.

2.a) Strategia processuale: il consulente medico legale di parte e la pre-valutazione del merito

Il primo aspetto da considerare è che, trattandosi di materia tecnica, l'avvocato -esattamente come il giudice- non è in grado di stabilire da solo se i sanitari che hanno avuto in cura l'attore o il suo dante causa (qualora il paziente sia deceduto) abbiano agito con la dovuta diligenza.

Pertanto, sin dalla fase di studio della controversia e nonostante l'assenza di espliciti obblighi di legge in questo senso, l'avvocato dovrebbe avvalersi della consulenza di un medico legale e/o di uno specialista, affidandogli una valutazione preliminare di fattibilità nel merito.

Iniziare una causa per responsabilità medica, senza il conforto di una valida relazione medico-legale attestante profili di colpa in capo alla struttura sanitaria e ai sanitari coinvolti nella cura del danneggiato, sarebbe senza dubbio comportamento non diligente, foriero di responsabilità in caso di esito infausto della lite.

Neanche un'eventuale mancanza di budget sarebbe una valida giustificazione: avventurarsi in una causa, normalmente di valore elevato, senza avere sufficienti lumi sul merito della stessa costituisce una grave forma d'imprudenza.

Per contro, ove la domanda risarcitoria venga rigettata nel merito perché il consulente tecnico d'ufficio nominato dal giudice pervenga a conclusioni diverse da quelle raggiunte dal consulente di parte attrice e successivamente recepite nell'atto introduttivo (che, statisticamente, è il motivo più comune di rigetto), in linea di massima non potrà esservi responsabilità del difensore.

“Di massima”, però, non significa “mai”: l'avvocato, infatti, essendo il responsabile ultimo della difesa, dovrà sempre verificare, prima d'intentare causa, che le conclusioni del proprio consulente medico legale siano quantomeno coerenti sotto il profilo logico-giuridico e fondate su una disamina approfondita di tutta la documentazione medica disponibile, con ciò intendendosi non solo quella fornita dal cliente, ma anche quella di cui può ragionevolmente supporsi l'esistenza e ottenere la disponibilità attraverso l'uso della dovuta diligenza.

2.b) strategia processuale: la scelta della condizione di procedibilità della causa

Vi è poi da considerare che le cause per responsabilità medica sono soggette a condizione di procedibilità: il previo esperimento di un tentativo di mediazione ai sensi dell'art. 5 d. lgs. n. 28/2010 o, in alternativa, di una consulenza tecnica preventiva ai fini della conciliazione della lite ex art. 696-bis c.p.c., come previsto dall'art. 8 della l. n. 24/2017 (c.d. legge Gelli-Bianco).

In effetti, dal 20 marzo 2010 (entrata in vigore del d. lgs. 28/2010) fino al 1 aprile 2017 (entrata in vigore della l. 24/2017) era prevista soltanto la mediazione obbligatoria; oggi, invece, il difensore può scegliere discrezionalmente come realizzare la condizione di procedibilità, fermo, beninteso, l'obbligo di informare il cliente dell'esistenza di entrambe le opzioni e delle conseguenze derivanti dalla scelta.

In verità -non me ne vogliano mediatori e organismi vari di mediazione- chi scrive non vede alcun valido motivo per optare in favore della prima soluzione.

Anche prima della legge Gelli-Bianco, infatti, mi sembrava più prudente percorrere la strada facoltativa della consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. (generalmente ammessa dai giudici di merito), in modo tale da affrontare l'eventuale giudizio di merito senza il timore d'incappare in una tutt'altro che rara divergenza di opinioni tra il consulente medico-legale di parte attrice e il CTU designato.

Non si vuol dire, con questo, che la scelta della mediazione al posto della consulenza tecnica preventiva implichi, di per sé, responsabilità del difensore in caso di soccombenza nel giudizio di merito.

Per giurisprudenza costante, infatti, la strategia processuale adottata dal legale (nella quale mi sembra possa rientrare anche la scelta della condizione di procedibilità) può esser foriera di responsabilità professionale solo se la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutabile con prognosi ex ante (cfr. Cass. civ.,3 settembre 2019 n. 21982; Cass. civ. 22 novembre 2018 n. 30169); e non è affatto detto che la scelta della mediazione, retrospettivamente, debba apparire inadeguata.

Attenzione, però: la scelta della mediazione in luogo della consulenza tecnica preventiva potrebbe esser fonte di responsabilità professionale nel momento in cui il cliente non sia stato informato dell'opzione e magari non abbia prestato un consenso informato alla procedura di mediazione obbligatoria, avendola preferita.

In ogni modo, mi sembra che oggi la scelta della consulenza tecnica preventiva, ai fini della procedibilità dell'azione, sia quasi obbligata: non solo in quanto prudenziale, ma anche perché più efficace nella prospettiva di una composizione bonaria della lite.

Nell'ambiente forense si dice che questo genere di cause lo decide il CTU; e lo sanno bene anche i legali delle strutture sanitarie, che, a fronte di una perizia sfavorevole, generalmente cercano di non farsi trascinare in un giudizio che ormai appare periglioso.

2.c) strategia processuale: l'individuazione e la scelta dei convenuti

Un altro aspetto da considerare, quando si incardina una causa per responsabilità medica, riguarda la scelta e l'individuazione dei convenuti (struttura/medico/i) e, con questa, del tipo di responsabilità gravante su di essi (contrattuale/extracontrattuale).

Ci si consenta, ora, un'espressione più venatoria che giuridica, ma di indubbia efficacia: quando si fa causa, “sparare a pallettoni” non paga.

Con questo si vuol dire che, in presenza di più strutture e/o più sanitari coinvolti e di dubbi su chi effettivamente sia responsabile, una “rosata” che colpisca tutti indiscriminatamente non è consigliabile. È preferibile agire da cecchini.

È del tutto evidente, infatti, come il “danno da soccombenza” aumenti esponenzialmente con il numero dei convenuti, che tenderanno a chiamare in causa i loro assicuratori, anch'essi a spese dell'attore soccombente.

Oltre tutto, non è affatto inverosimile che il giudice chiamato a valutare una siffatta strategia processuale possa ritenerne l'inadeguatezza anche con prognosi ex ante, con conseguente responsabilità del difensore, come quando risultino citati in giudizio (anche) soggetti palesemente estranei ai fatti.

In definitiva, sarà sempre necessario uno sforzo adeguato del difensore e del suo consulente medico legale per individuare con precisione la struttura ed eventualmente il medico cui sia imputabile la condotta colposa causativa del danno; e per quanto, talvolta, questo sia un compito impegnativo e magari anche oneroso (visto che i bravi CTP si fanno giustamente pagare), non si può pensare d'aggirare il problema confidando che, tra molti convenuti, i veri responsabili emergeranno comunque all'esito del giudizio.

2.d) meglio citare in giudizio solo la struttura sanitaria o anche il medico?

Occorre anche considerare che, quantomeno dall'entrata in vigore della legge Gelli-Bianco (che si ritiene avere, sul punto, natura interpretativa e, di conseguenza, efficacia retroattiva: cfr. Trib. Milano, 11 dicembre 2018n.12472; Trib. Latina, 27 novembre 2018; contra,v. Trib. Avellino 12 ottobre 2017 n.1806 e, da ultimo, Cass. civ., sent. n. 28994/2019), non vi sono più dubbi sulla natura della responsabilità in cui incorrono, rispettivamente, le strutture sanitarie pubbliche e private (che, in base all'art. 7 della norma citata, rispondono a mente degli artt. 1218 e 1228 c.c.) e gli esercenti la professione sanitaria (che rispondono, invece, ex art. 2043 c.c., a meno che abbiano agito nell'adempimento di una specifica obbligazione contrattuale assunta con il paziente).

In verità, già dall'entrata in vigore del D.L. 13 settembre 2012 n. 158 (c.d. Decreto Balduzzi, convertito con l. n. 189/2012), una parte della giurisprudenza riteneva che la responsabilità del medico operante all'interno di una struttura fosse di tipo aquiliano (cfr. ad es. Trib.Milano, 06 novembre 2019 n. 10020); ma questa linea interpretativa non era affatto prevalente, nemmeno tra gli stessi giudici meneghini (ad es., nel senso della responsabilità contrattuale “da contatto sociale” v. Trib. Milano 02 marzo 2018 n.2501).

Detto questo, è noto che, per l'attore, è molto più semplice invocare una responsabilità di tipo contrattuale, piuttosto che aquiliana; e infatti, come osservato anche di recente, «la ratio legis della Legge Gelli-Bianco n. 24/2017 è proprio quella di rivolgere le richiesta risarcitorie da parte del paziente danneggiato nei confronti unicamente della struttura ospedaliera (pubblica o privata) e della sua compagnia di assicurazione che, peraltro, stante la mancanza dei decreti attuativi previsti dall'art. 10 non è opportuno evocare in giudizio direttamente» (Cfr. Marco Rodolfi “Responsabilità extracontrattuale del medico e contrattuale della struttura sanitaria: è opportuno citare in giudizio anche il medico e la sua assicurazione?” in RI.DA.RE. 18 Giugno 2020).

Invocando l'inadempimento, l'attore potrà limitarsi a provare l'esistenza del contratto (di spedalità o d'opera professionale), del danno e -anche solo in via presuntiva- del nesso di causalità tra l'errore del medico e l'aggravamento delle proprie condizioni di salute (v. ex multis la recente Cass. civ., 11 novembre 2019 n.28991); non sarà onerato, invece, di provare la colpa del medico, essendo sufficiente allegarla. Assolti tali oneri, spetterà al convenuto -a pena di soccombenza- dimostrare che l'inadempimento non vi è stato, o che, quantomeno, non è stato causa efficiente dei danni lamentati dall'attore.

Per poter ottenere la dichiarazione di responsabilità extracontrattuale del medico, invece, il paziente sarà tenuto a fornire, in aggiunta a quanto sopra, la non facile prova della concreta condotta colposa o dell'omissione asseritamente causativa del danno.

Ma allora, considerando anche il chiaro svantaggio del più breve termine di prescrizione (salvi i casi di reato, ai quali si applica il termine previsto dall'art. 2947 comma 3 c.c.), si deve ritenere che l'evocazione in giudizio dell'esercente la professione sanitaria, che abbia agito non quale professionista vincolato contrattualmente ma come dipendente o collaboratore esterno di una struttura sanitaria, vada tendenzialmente evitata, e limitandola a casi molto specifici, non solo per snellire il processo ma anche nella logica di ridurre le conseguenze dannose di un'eventuale soccombenza.

L'atto di citazione

Di certo, gli errori difensivi che possono determinare la soccombenza del danneggiato non riguardano la sola fase introduttiva, ben potendosi manifestare anche successivamente, in quella istruttoria e in quella decisionale; ma non potendo esaminare, in questa sede, una così ampia casistica, ci limiteremo a qualche osservazione sull'atto di citazione, dove più frequentemente si annidano le “sviste” che determinano il rigetto – magari anche solo parziale- delle domande risarcitorie.

3.a) La causa petendi. Importanza delle allegazioni in fatto

L'art. 163, comma 3 n. 4) c.p.c. richiede l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni: ciò è indispensabile perché il convenuto sia posto nelle condizioni di difendersi.

Orbene, il principio jura novit curia consente, entro certi limiti, di porre rimedio a una domanda prospettata approssimativamente in diritto, ma ben definita e provata nei presupposti fattuali; viceversa, non esiste un principio che consenta al giudice di ovviare al mancato assolvimento dell'onere di allegazione.

Posto che le preclusioni assertive si maturano con il termine previsto dall'art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c. e che, dunque, una lacunosa esposizione dei fatti principali posti a fondamento della domanda sarà emendabile fino a quel momento, è comunque opportuno che questo aspetto sia curato con estrema attenzione fin dall'atto introduttivo, limitando le integrazioni a quanto reso necessario dalle difese del convenuto e/o dei terzi chiamati in causa. Se poi ci si renderà conto di aver trascurato qualcosa, si potranno allegare le circostanze omesse con la prima memoria ex art. 183 c.p.c.; ma questa dovrebbe essere l'eccezione e non la regola.

Un'esposizione accurata dei fatti non sarà, quindi, limitata alla condotta inadempiente dei sanitari (es.: erronea esecuzione di intervento di protesizzazione di un'anca) e alle lesioni all'integrità psicofisica subite dal danneggiato (es. assonotmesi, cioè lesione di un nervo), ma dovrà includere anche la disfunzione derivatane (es. paralisi motoria di alcuni muscoli di un piede) e le conseguenze sulle abitudini di vita del danneggiato (es.: impossibilità di continuare a praticare una certa attività sportiva, etc.).

E non si pensi di poter sopperire agli oneri di allegazione in sede istruttoria, magari sfruttando le indagini e le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio: la Cassazione ha ribadito, anche di recente, il principio inderogabile per cui il c.t.u. non può supplire ai deficit assertivi delle parti (v. Cass. civ.,6 dicembre 2019 n.31886). Non essendo mai impossibile, per la parte, esporre al giudicante i fatti costitutivi della domanda, neppure è mai giustificata -e quindi rimediabile- la decadenza dall'onere di allegazione dei fatti costitutivi della pretesa.

3.b) Il petitum mediato: cosa, quanto e perché

L'attore deve poi determinare la cosa oggetto della domanda.

Il petitum mediato, nelle cause da responsabilità medica, è sempre una somma di denaro; petitum immediato l'accertamento della responsabilità dei convenuti e la condanna al pagamento.

Per rispettare il precetto dell'art. 163 comma 3 nn. 3) e 4) c.p.c. la citazione dovrà specificare: i. quia debeatur; ii. quid debeatur e iii. quantum debeatur (perché vi è responsabilità in capo al convenuto, che danni ha subito l'attore e l'entità degli stessi).

Per quanto riguarda il primo aspetto, bisognerà descrivere analiticamente la condotta causativa del danno, non potendosi pretendere che il giudice debba desumerla da un iter clinico scopiazzato nelle premesse dalla relazione medico legale del CTP.

Andrà parimenti evidenziato il nesso causale, spiegando al giudicante perché la condotta che si assume fonte di responsabilità, secondo la regola del più probabile che non, abbia prodotto come esito i danni di cui ci si duole: in seguito, il CTU potrà confermare il nesso causale soltanto se vi sia stata una puntuale allegazione in questo senso.

Per quanto riguarda il quid debeatur, richieste troppo generiche di risarcimento “di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti e patiendi” non sono più consigliabili.

A dire il vero, la giurisprudenza è stata piuttosto ondivaga su questo aspetto.

A lungo si è sembrato premiare l'attore che avesse fatto uso di espressioni generiche (cfr. Cass. civ., 12 giugno 2006 n.13546: «quando il danneggiato chiede il risarcimento del danno non patrimoniale la domanda va cioè intesa come estesa a tutti gli aspetti di cui tale ampia categoria si compone, nella quale vanno d'altro canto riassorbite le plurime voci di danno nel corso degli anni dalla giurisprudenza elaborate») rispetto a quello che si era sforzato di dettagliare il petitum (cfr. Cass. civ., 26 febbraio 2003 n.2869: «nel caso in cui nell'atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, e tra esse non sia indicata quella relativa al danno biologico, l'eventuale domanda proposta in appello costituisce domanda nuova, e come tale inammissibile»).

Tuttavia, non si è mancato di rilevare -e giustamente- come tale orientamento fomentasse la prassi di redigere la citazione in modo generico e vago, con grave danno del diritto di difesa del convenuto.

Di qui, un orientamento più moderno e rigorista in base al quale «l'attore che agisce per il risarcimento del danno ha il dovere di indicare analiticamente e con rigore i fatti materiali che assume essere stati fonte di danno. E dunque in cosa è consistito il pregiudizio non patrimoniale; in cosa è consistito il pregiudizio patrimoniale; con quali criteri di calcolo dovrà essere computato. Questo essendo l'onere imposto dalla legge all'attore che domanda il risarcimento del danno, ne discende che una richiesta di risarcimento dei «danni subiti e subendi», quando non sia accompagnata dalla concreta descrizione del pregiudizio di cui si chiede il ristoro, va qualificata generica ed inutile. Generica, perché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro; inutile, perché tale genericità non fa sorgere in capo al giudice il potere-dovere di provvedere» (cfr. Cass. civ., 30 giugno 2015 n.13328).

Di quest'ultimo orientamento, peraltro condivisibile, dovrà tenersi debito conto nel redigere l'atto di citazione e nel formulare le conclusioni.

Tutt'al più, la formula “panrisarcitoria” -inclusiva di tutti i danni subiti e subendi, patrimoniali e non patrimoniali, da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale e chi più ne ha più ne metta- seppur inelegante potrà essere utilizzata prudenzialmente come formula di chiusura delle conclusioni (a scanso di possibili dimenticanze), ma solo dopo un'esaustiva elencazione delle voci di danno richieste.

Analogo discorso potrebbe farsi in ordine al quantum debeatur: la tradizionale e genericissima richiesta di condanna “alla somma che sarà ritenuta di giustizia”, per anni accettata dai giudici senza particolari problemi, oggi potrebbe esser oggetto di eccezione d'indeterminatezza.

È vero che, in mancanza di criteri predeterminati con legge per la quantificazione del danno alla salute (almeno per le lesioni macropermanenti), l'attore va esonerato dall'onere di indicare ad nummum la somma pretesa a titolo di risarcimento; ma si dovrebbero comunque indicare nelle conclusioni gli elementi costitutivi da porsi a base del calcolo (es.: entità del danno biologico, durata dell'invalidità temporanea, criterio di calcolo -tabellare o equitativo- etc.).

Una soluzione pratica potrebbe esser, quindi, quella di concludere specificando il quantum come cifra determinata (possibilmente non iperbolica rispetto alla reale entità del danno, visti gli effetti sul valore della causa e sui costi di un'eventuale soccombenza) ovvero, in subordine, la diversa cifra ritenuta di giustizia quale risultante, ad esempio, dall'applicazione di un criterio tabellare (tabelle milanesi) a un danno biologico pari a x punti percentuali e a un'inabilità temporanea di y giorni al z%, oltre a una personalizzazione del danno da determinarsi in via equitativa, in ragione delle circostanze esposte in premessa.

In conclusione

Concludo queste mie brevi riflessioni osservando come, al giorno d'oggi più che mai, l'avvocato che si accinga ad assistere un cliente seriamente danneggiato da una malpractice medica deve essere consapevole dell'enorme lavoro preparatorio che una simile causa richiede, lavoro che non è rimesso soltanto al difensore -che tuttavia sarà sempre il responsabile ultimo- ma anche a uno o più validi consulenti medici di parte.

Questo lavoro preparatorio, talvolta, potrà concludersi nel senso di sconsigliare l'azione legale. Ciò andrà fatto informando il cliente dei rischi reali di soccombenza e dei costi ragionevolmente presumibili in caso d'insuccesso, oltre che acquisendo il consenso formale a procedere, qualora il cliente intenda consapevolmente correre un rischio ragionevole, e financo rifiutando l'incarico, allorché sia chiaro che non di rischio di soccombenza si tratta, ma di certezza o quasi.

E se il pensiero della parcella dovesse far vacillare la volontà di rifiutare un incarico in “tempi di magra”, faremo bene a ricordare, tutti noi avvocati, che un domani qualche collega più bravo di noi potrebbe trovarsi ad assistere i nostri ex clienti danneggiati da scelte ispirate da cupidigia o superficialità.

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