La parità delle parti e quel minus habens del consulente dell'imputato

Gianluca Bergamaschi
01 Ottobre 2020

Il teorico diritto/dovere del P.M. di ricercare anche le prove favorevoli all'indagato (rectius: il dovere di accertare le emergenze favorevoli, exart. 358 c.p.p.) basta a far presumere che l'attività del suo C.T. sia improntata all'imparzialità, tanto da potersi definire “giurisdizionale” e da essere preferita, a parità di condizioni, a qualsiasi conclusione del C.T. di parte privata, così da rendere superflua la nomina di un perito?
Massima

In virtù dell'imparzialità del P.M. e del suo diritto/dovere di ricercare anche le prove favorevoli all'indagato, il C.T., da questi nominato e da cui deriva le medesime caratteristiche, svolge una attività di natura giurisdizionale, che lo distingue dai C.T. delle parti private, sicché i suoi apprezzamenti tecnico-scientifici, ove non intrinsecamente illogici o contraddittori ed in sé non inattendibili, si fanno probatoriamente preferire, specie in mancanza di specifiche confutazioni, a quelli dei consulenti dell'imputato e delle altre parti, senza bisogno che il giudice disponga perizia per dirimere il contrasto.

Il caso

Il caso origina da una sentenza del Tribunale di Lecce di condanna per un abuso edilizio vertente sulla qualificazione dell'immobile e dell'intervento, da cui l'apporto dei C.T.

Dopo la conferma in appello, l'imputato ricorre in Cassazione, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, anche per il fatto che i giudici non avessero prestato attenzione alla C.T. di parte, preferendo apoditticamente le conclusioni del C.T. del P.M.

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso per aspecificità dei motivi, giacché il ricorrente si limitò a ribadire le conclusioni del proprio consulente, senza confrontarsi con le argomentazioni della sentenza di appello, fondate anche sulle precise affermazioni del consulente dell'accusa.

Quanto al fatto che la Corte d'Appello avesse preferito queste ultime alle conclusioni del C.T. dell'imputato, senza nominare un perito affinché dirimesse il contrasto, non turba né disturba il Supremo collegio per le ragioni sintetizzate nella massima supra esposta.

La questione

Il teorico diritto/dovere del P.M. di ricercare anche le prove favorevoli all'indagato (rectius: il dovere di accertare le emergenze favorevoli, ex art. 358 c.p.p.) basta a far presumere che l'attività del suo C.T. sia improntata all'imparzialità, tanto da potersi definire “giurisdizionale” e da essere preferita, a parità di condizioni, a qualsiasi conclusione del C.T. di parte privata, così da rendere superflua la nomina di un perito?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento aderisce in toto a quanto affermato da Cass. pen., Sez. II, n. 42937/2014, secondo cui: «In generale, le consulenze tecniche provenienti dalla difesa non costituiscono mezzi di prova ma allegazioni difensive di contenuto tecnico che, se non confutate esplicitamente, devono ritenersi implicitamente disattese»; arrivando solo a concedere che: «… quando i rilievi contenuti nella consulenza di parte siano precisi e circostanziati, tali da portare a conclusioni diverse da quelle contenute nella perizia ovvero della consulenza tecnica del pubblico ministero ed adottate in sentenza, ove il giudice trascuri di esaminarli analiticamente, può ricorrere il vizio di insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.».

Tale indirizzo sembra ripercorrere l'antica teoria del P.M. quale parte imparziale, infatti, interrogandosi sulla natura della sua funzione, l'arresto asserì che: «Se è vero che il consulente viene nominato ed opera sulla base di una scelta sostanzialmente insindacabile del pubblico ministero, in assenza di "contraddittorio" e soprattutto in assenza di "terzietà", è tuttavia altrettanto vero che il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità - concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità - dovendosi necessariamente ritenere che il consulente dallo stesso nominato operi in sintonia con tali indicazioni.»; quindi appare consequenziale: «… ritenere che l'operato dei consulenti tecnici del pubblico ministero (pubblici ufficiali), chiamati ad "affiancare" quest'ultimo come soggetti condizionati solo dalla ricerca della verità "in scienza e coscienza", in una posizione che, pertanto, non corrisponde appieno a quella del consulente tecnico della parte privata, possa e debba essere rivalutato solo a fronte di gravi carenze logiche o contraddizioni, di rapporti (in positivo o in negativo) peculiari con le parti processuali, o in quanto espressivo di non sufficiente competenza.»; con il corollario della non necessità di una perizia per dirimere l'eventuale contrasto tecnico-scientifico.

Altra giurisprudenza, però, non pare essersi nemmeno posta il problema di una diversa caratura, formale e sostanziale, dei vari contributi consulenziali; ad esempio Cass. pen., Sez. IV, n. 49884/2018, la quale, da un lato, ammette che il giudice di merito possa preferire una tesi scientifica, purché motivi adeguatamente la scelta e mostri di essersi soffermato sulla tesi contraria, dall'altro – specie ove vi siano contrapposti orientamenti scientifici e, comunque, allorché occorrano competenze che esulano dal patrimonio conoscitivo dell'uomo medio – afferma la necessità di una perizia che: «… rappresenta un indispensabile strumento euristico, nei casi ove l'accertamento dei termini di fatto della vicenda oggetto del giudizio imponga l'utilizzo di saperi extragiuridici e, in particolare, qualora si registrino difformi opinioni, espresse dai diversi consulenti tecnici di parte intervenuti nel processo, di talchè al giudice è chiesto di effettuare una valutazione ponderata che involge la stessa validità dei diversi metodi scientifici in campo.».

Lo stesso dicasi per Cass. pen.Sez. IV, n. 3745/2020 che – nell'ambito di una “doppia difforme” e del conseguente obbligo di “motivazione rafforzata” per la condanna in appello e della necessaria ripetizione della prova dichiarativa, nella quale ricomprende anche consulenti e periti – ribadisce quanto sopra e mette tutti sullo stesso piano probatorio, laddove scrive che «… le dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative, sicchè sussiste, per il giudice di appello che, sul diverso apprezzamento di esse, fondi, sempreché decisive, la riforma della sentenza di assoluzione, l'obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l'esame del perito o del consulente (Sez. U, Sentenza n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112)».

Il tutto è ribadito da Cass. pen., Sez. IV, n. 11530/2020 che conferma la necessità della perizia, in quanto: «… la Corte territoriale, pur affermando di aver considerato - per la sua decisione - entrambi gli elaborati tecnici di parte (vale a dire, le consulenze tecniche disposte, rispettivamente, dal Pubblico ministero e dalla difesa), nella sostanza non ha espresso alcuna valutazione in ordine ai rilievi contenuti nella consulenza tecnica difensiva, limitandosi a confermare la responsabilità dell'imputato sulla scorta del solo elaborato peritale del Pubblico ministero …».

Osservazioni

In generale, se non ce la vogliamo raccontare, dobbiamo ammettere che, quando si chiede ad un esperto quanto fa due più due, la prima cosa che risponde è: chi paga? Ossia è “naturalmente incline” ad assecondare la posizione del committente, pubblico o privato che sia, per cui, visto che il P.M. è portatore nel processo di una precisa posizione accusatoria precostituita, ivi, il suo C.T., ben difficilmente farà asserzioni scientifiche distoniche con essa.

L'idea, poi, che la consulenza di parte privata non sia un “mezzo di prova”, ma solo una “allegazione difensiva”, ossia mero “flatus vocis”, appare del tutto assurda e in contrasto con ogni considerazione sistematica e sistemica riconducibile al rito accusatorio, in cui, per definizione, ci si difende provando.

Non meno improponibile è l'idea che il C.T. del P.M., in quanto pubblico ufficiale, svolgerebbe una funzione, in qualche modo, “giurisdizionale”, ove si consideri che tale caratteristica è, per definizione, propria solo del Giudice e dei suoi ausiliari, gli unici dotati di “terzietà”, ossia non portatori di alcun interesse o di tesi precostituite.

Il tutto, poi, giustificato con il lievissimo argomento che egli condivide con il P.M. nominate, se non la terzietà, almeno il crisma dell'imparzialità, giacché tenuti a ricercare “la verità” e, dunque, anche le prove favorevoli all'indagato.

È appena il caso di rimarcare che l'unica verità che conta è quella “processuale”, che si fonda solo sugli atti legittimamente ivi introdotti (quod non est in actis non est in hoc mundo) ed in cui il P.M. è solo una parte, per cui il fatto che egli, nella fase delle indagini di cui è dominus, debba, non già ricercare prove a favore dell'indagato, ma esclusivamente verificare le emergenze a questi favorevoli, è raccomandazione pratica ovvia, giacché, in difetto, nessuna indagine potrebbe dirsi completa, ma non può certo stravolgere la natura stessa di un processo di “parti paritarie” e fondato sul principio dispositivo.

Nel processo accusatorio ed in sede di giudizio, infatti, il P.M. è parte a tutti gli effetti ed il semplice fatto che, volendo, possa chiedere anche l'assoluzione dell'imputato, non evita che sia portatore di una tesi precostituita, il che toglie ogni plausibilità all'idea di una “parte imparziale”, riducendo tale espressione ad una mera contraddizione in termini.

In ogni caso, un processo fondato sulla parità delle parti e sulla possibilità di difendersi provando, non può sopportare l'idea che uno strumento istruttorio di parte sia privato, ab imis, della capacità di paritario contrasto dialettico in antitesi alla tesi di controparte, da cui il Giudice dovrà trarre la sintesi in termini di assoluta terzietà, ossia senza che, aprioristicamente e surrettiziamente, possa arruolare nelle proprie fila gli ausiliari altrui.

Del resto, nel confronto tra posizioni tecnico-scientifiche, quello che conta, non è la sincerità o la memoria dei fatti, ma l'autorevolezza della fonte e la forza degli argomenti, che, al di là della storiella anacronistica del giudice “peritus peritorum”, possono essere valutati solo da un soggetto posto sul medesimo piano cognitivo.

Ne consegue che, come affermato dalla Sezione IV, quando il giudice non possa doviziosamente e convincentemente ostendere le specifiche ragioni che lo inducano a preferire una tesi scientifica ad un'altra, non potrà semplicemente appoggiarsi su quella del C.T. del P.M., solo in quanto ausiliario di una presunta “parte imparziale”, ma dovrà disporre una perizia che gli fornisca gli strumenti per superare il contrasto e decidere con cognizione di causa, debitamente argomentando in motivazione.

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