Accertamento giudiziale di paternità e mezzi di prova utilizzabili

Michol Fiorendi
12 Ottobre 2020

In materia di accertamenti giudiziali relativi alla paternità e alla maternità, la consulenza tecnica ha funzione di mezzo obiettivo di prova, costituendo lo strumento più idoneo...
Massima

In materia di accertamenti giudiziali relativi alla paternità e alla maternità, la consulenza tecnica ha funzione di mezzo obiettivo di prova, costituendo lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'accertamento del rapporto di filiazione. Essa, pertanto, in tale caso non è un mezzo per valutare elementi di prova offerti dalle parti, ma costituisce strumento per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione.

Il caso

Tizio conviene in giudizio Caio e Sempronio, figli di Caietto e suoi eredi legittimi, dichiarando si essere nato dalla relazione tra sua madre e il padre dei convenuti e chiedendo che Caietto fosse dichiarato suo padre naturale.

Il Tribunale interpellato accoglie la domanda di Tizio.

Caio e Sempronio propongono appello contro la sentenza di primo grado, chiedendo che venga disposta una nuova consulenza tecnica d'ufficio ma la Corte d'appello interpellata respinge la richiesta.

Contro questa seconda sentenza, Caio e Sempronio propongono ricorso in cassazione.

La Suprema Corte respinge la domanda dei signori, confermando così la linea già tracciata dalla pronuncia adottata dei giudici di seconde cure.

La questione

In tema di accertamento giudiziale di paternità, i mezzi utilizzabili per provare tale status possono essere anche rappresentati da elementi presuntivi, valutati sulla base del canone dell' idquod plerumque accidit? Ed ancora: la consulenza tecnica di parte può assurgere a mezzo di prova, determinando l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione, ovvero controparte può richiedere una consulenza tecnica successiva?

Le soluzioni giuridiche

In tema di mezzi utilizzabili per provare la paternità naturale, l'art. 269 c.c. ammette anche il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'”id quod plerumque accidit”, risultino idonei, per affidabilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità.

Risultano, così, utilizzabili, legando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l'accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore si chieda la dichiarazione di paternità (cd. “tractatus”), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. “fama”), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti del preteso genitore.

Per quanto riguarda, invece, le due azioni previste dall'Ordinamento in tema di accertamento della genitorialità biologica, anche in contrasto con quella legittima, sono rappresentate dal disconoscimento della paternità e dalla dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità).

Esse mostrano caratteristiche diverse, anche dal punto di vista dei requisiti probatori.

Nell'azione giudiziale di paternità prevale il principio del favor veritatis rispetto a quello del favor legitimitatis, poiché la materia interessata è quella dei diritti inviolabili, quale è quello alla genitorialità, aspetto fondante dell'identità personale dell'individuo, del quale la persona richiedente è stata privata per effetto del mancato riconoscimento.

Sul punto si è espressa in più occasioni anche la Corte di Cassazione nel riconoscere rilievo prevalente alla prova ematologica sulla scorta del notevole grado di affidabilità da utilizzarsi anche nei giudizi di disconoscimento della paternità, giungendo ad affermare che non solo il giudice di merito deve disporre gli accertamenti genetici anche in mancanza di prova dell'adulterio ma che deve, altresì, trarre elementi di prova ex art. 116 c.p.c., dall'eventuale rifiuto di sottoporsi al prelievo (Cass. civ. sez. I 22 febbraio 2007, n. 4175).

La cosiddetta analisi dei polimorfismi del DNA ha, di fatto, sostituito le precedenti analisi probabilistiche basate sull'utilizzo dei marcatori genetici, proprio per l'elevato grado di certezza sul raggiungimento della verità biologica.

Essa, pertanto, costituisce l'unico mezzo di prova diretto e non presuntivo della paternità, divenuto sempre più frequente nella prassi giudiziaria.

Tale esame viene, generalmente, effettuato procedendo al confronto tra il profilo genetico del figlio con quello di entrambi i genitori; una volta individuate nel figlio le caratteristiche genetiche di provenienza materna, viene valutato se vi sia o meno corrispondenza con quella di provenienza paterna e, in caso negativo, l'indagine si conclude con l'esclusione certa della paternità.

Nel caso di specie, la Corte d'appello ha ritenuto insindacabile e determinante la perizia stragiudiziale, allegazione di parte dell'attore, nonostante la mancanza di un esame diretto tra l'attore e il presunto padre mediante esumazione del cadavere, e considerando sufficiente che l'esame fosse espletato solo su uno dei due fratelli, arrivando così a considerare dimostrato il rapporto di paternità attraverso due presunzioni: la compatibilità genetica tra l'attore e uno dei convenuti e lo status di figlio legittimo del convenuto periziato.

Osservazioni

La ricerca della paternità naturale si basa sul principio della libertà della prova. L'art. 269, 2° comma, c.c. dispone, infatti, che la prova della paternità può essere data con ogni mezzo.

Da tale assunto deriva che, in ordine all'esistenza di un rapporto di filiazioni, il giudice di merito può legittimamente trarre il proprio convincimento da risultanze probatorie dotate di mero valore indiziario.

L'unico limite posto dal legislatore è quello contenuto nell'ultimo comma dell'art. 269 c.c. che afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.

Vi è altresì da dire che tali circostanze, in concorso con altri elementi probatori - anche presuntivi - ben possono essere utilizzate dal giudice a sostegno del proprio convincimento sulla sussistenza della paternità.

Sul punto, la Suprema Corte, nell'affermare il principio, ha altresì dichiarato che l'art. 269 c.c. a maggior ragione non preclude l'utilizzazione, quantomeno come fonte sussidiaria di prova, di testimonianza de relato, la cui attendibilità e rilevanza vanno verificate in concreto nel quadro di una valutazione globale delle risultanze di causa, specialmente quando i fatti riferiti siano stati appresi dai testi in epoca non sospetta.

E' da sottolineare che, nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità, in considerazione dell'indisponibilità del diritto fatto valere, non potrà essere disposto il giuramento decisorio o suppletorio ai sensi dell'art. 2739 c.c..

Quanto poi alla confessione, pur non avendo efficacia di prova ex art. 2733 c.c., 2° comma, c.c. può tuttavia essere valutata dal giudice come elemento di prova, al pari di ogni altro comportamento delle parti.

Questo sistema probatorio è in vigore tanto nei giudizi avanti il Tribunale ordinario quanto in quelli avanti il Tribunale per i Minorenni.

Si deve ricordare che la competenza nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità spetta, ai sensi dell'art. 9, 2° comma, c.p.c., al Tribunale ordinario ed il legittimato attivo sarà il presunto figlio.

Come detto, ad oggi, le indagini ematologiche e l'esame del DNA sono il mezzo di prova ritenuto più idoneo per l'attribuzione della paternità di un soggetto.

Il progresso scientifico e l'evoluzione delle ricerche in campo biologico, che hanno permesso di raggiungere elevatissimi gradi di probabilità della paternità, sino a sfiorare il limite della certezza assoluta, hanno indotto la giurisprudenza di legittimità a ritenere gli accertamenti ematologici e genetici un mezzo ordinario di prova, e non più uno strumento eccezionale, da ammettere solo ove non sia altrimenti possibile accertare i fatti di causa.

Decisiva per l'introduzione di queste indagini scientifiche nei giudizi di dichiarazione di paternità è stata la nota sentenza Cass. n. 6400/1980, con la quale la Suprema Corte afferma che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale il venir meno dell'elencazione tassativa delle ipotesi in cui l'azione era consentita nella previgente disciplina dell'art. 269 c.c., ed alla illimitata ammissibilità dei mezzi di prova deve corrispondere l'opportunità di acquisire il maggior numero di dati possibili, specie di quelli che offrono un secondo obiettivo, fermo restando che la loro attendibilità rimane sottoposta alla valutazione del giudice.

A seguito di questa pronuncia, l'orientamento della Corte di Cassazione è stato di assoluto favore nei confronti della Ctu ematologica, anche in contrasto con i generali principi viventi nel nostro ordinamento in materia di consulenza tecnica.

Infatti, se di norma il consulente tecnico ha il compito di valutare i fatti già accertati o dati per esistenti, dovendo il giudice escludere la Ctu qualora la parte tenda con essa a supplire la deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, viceversa nei procedimenti relativi all'accertamento della paternità la Suprema Corte ammette oggi la consulenza tecnica ematica, prescindendo da tali limiti relativi all'onere della prova, e ciò in quanto, come detto, la ritiene “lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'accertamento del rapporto di filiazione”.

In caso di intervenuto decesso del presunto padre, come nel caso che oggi qui ci occupa, la domanda per la dichiarazione di paternità naturale può essere proposta, ai sensi dell'art. 276 c.c., nei confronti dei suoi eredi.

In merito all'individuazione di questi ultimi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a comporre il contrasto interpretativo in ordine alla possibilità o meno di includere in detta categoria gli eredi del preteso padre.

Con sentenza 3 novembre 2005, n. 21287 le sezioni unite, ritenendo insuperabile il dettato letterale dell'art. 276 c.c., hanno affermato che contraddittori necessari, passivamente legittimati, in ordine alla azione per dichiarazione giudiziale di paternità naturale sono, ex art. 276 c.c., in caso di morte del genitore, esclusivamente i suoi eredi e non anche glieredi degli eredi di lui od altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all'accoglimento della domanda.

Con riguardo alla prova del rapporto di filiazione nel caso di intervenuto decesso del presunto padre, l'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità è favorevole all'esumazione del cadavere stesso, al fine di prelevarne il DNA e ciò anche laddove siano trascorsi numerosi anni dalla morte.

Concludendo, è poi facilmente intuibile che la pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità provochi conseguenze successorie di non poco conto, in particolare se tale pronuncia interviene in un periodo successivo alla morte del genitore naturale.

L'orientamento della giurisprudenza è infatti unanime nel ritenere che il termine decennale di prescrizione del diritto di accettare l'eredità stabilito dalla norma dell'art. 480 c.c. decorre per il figlio naturale, nell'ipotesi di dichiarazione giudiziale del rapporto di filiazione, dalla data di tale dichiarazione, se successiva all'apertura della successione, e non dalla data di quest'ultima, in quanto, pur retroagendo gli effetti della dichiarazione giudiziale di paternità al momento della apertura della apertura della successione, il figlio naturale versa nell'impossibilità giuridica e non di mero fatto di accettare l'eredità del genitore fino a quando tale dichiarazione non è pronunciata.

Peraltro, è da considerare che tale assetto normativo è certamente gravoso per i coeredi, laddove l'azione di accertamento di paternità naturale venga promossa dal figlio numerosi anni dopo l'apertura della successione, poiché l'azione di cui all'art. 269 c.c. è imprescrittibile, così come, ai sensi dell'art. 533, 2° co. c.c. è imprescrittibile l'azione di petizione di eredità.

Guida all'approfondimento

Dogliotti, La filiazione fuori dal matrimonio, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2015, pag. 400;

Bianca, La Famiglia, pag. 346;

Di Nardo, L'accertamento giudiziale della filiazione naturale, in Tratt. Zatti, II, II, ed. Milano, 2012, pag. 240.

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