L'ultima eresia sui consulenti tecnici: parità in costituzione e in convenzione ma disparità in Cassazione

27 Ottobre 2020

Davvero sconcertante la sentenza della III Sezione della Corte di cassazione (Sez. III, 18 febbraio 2020, n. 16458), la quale ha affermato l'aberrante principio per cui la consulenza del P.M. avrebbe “una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”. E il giudizio critico discende non solo dal lapsus su cui scivola la sentenza quando parla ripetutamente di “perizia disposta dal P.M.”, o anche di “perizia prodotta dalla difesa”.

Davvero sconcertante la sentenza della III Sezione della Corte di cassazione (Sez. III, 18 febbraio 2020, n. 16458), la quale ha affermato l'aberrante principio per cui la consulenza del P.M. avrebbe “una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”.

E il giudizio critico discende non solo dal lapsus su cui scivola la sentenza quando parla ripetutamente di “perizia disposta dal P.M.”, o anche di “perizia prodotta dalla difesa”.

Ciò che è preliminarmente inammissibile è il fatto che la pronuncia entri pesantemente nel merito, scendendo a valutare l'attendibilità, e non solo in astratto ma nel caso concreto, della consulenza del P.M. rispetto a quella delle parti private. Se si azzardasse qualche difensore a discutere nel Palazzaccio di piazza Cavour di maggiore o minore attendibilità della deposizione di un testimone o di un consulente rispetto ad un altro, il presidente giustamente lo zittirebbe, richiamandolo ai limiti del giudizio di legittimità. Ma… iura novit curia e chi dovrebbe per primo rispettare la legge, la travalica assai disinvoltamente!

Assistiamo così a un revival di vecchie definizioni che, da tempo immemorabile, cercano di inquadrare il P.M. come “parte imparziale” o “paragiudice”, desunte sia dall'art. 73 ord. giudiziario, secondo il quale egli ha, tra l'altro, il compito di “vegliare all'osservanza della legge e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia”, sia dall'art. 358 c.p.p., che prescrive al P.M. di svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”: norme ormai non solo desuete nella prassi giudiziaria, ma superate persino dal codice di procedura penale, per il quale il P.M. può proporre impugnazione “diretta a conseguire effetti favorevoli all'imputato solo con ricorso per cassazione” (art. 568, comma 4-bis, c.p.p.), lasciando intendere che nelle fasi precedenti il ruolo del P.M. è svincolato da atteggiamenti da “sostituto del difensore”, come, d'altronde, la pratica quotidiana ci mostra. Ed effettivamente nel processo accusatorio il P.M. accusa (avendo solo un obbligo di completezza delle indagini) e il difensore difende, mentre il giudice, terzo e imparziale, decide.

Invece la sentenza commentata, richiamando un isolato precedente della seconda Sezione, risalente al 2014 (Sez. II, 24 settembre 2014, n. 42937) (1), ricava dall'art. 358 c.p.p. il “ruolo precipuo rivestito dall'organo dell'accusa”, con la conseguenza che le conclusioni tratte dal consulente del P.M., “pur costituendo anch'esse il prodotto di un'indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”.

La sentenza ci riporta così al codice previgente, nel quale il verbale di un atto del procedimento penale aveva valor probatorio privilegiato (si diceva che era “fidefacente”), cioè faceva “fede fino ad impugnazione di falso di quanto il pubblico ufficiale attesta[va] di avere fatto o essere avvenuto in sua presenza” (art. 158 c.p.p. 1930) e, mentre le valutazioni contenute nel verbale ovviamente non vincolavano il giudice, invece il fatto compiuto o avvenuto in presenza del pubblico ufficiale e riferito nel verbale poteva essere messo in discussione soltanto proponendo querela di falso (art. 215 c.p.p. 1930), per cui tale fatto entrava direttamente tra gli atti utilizzabili nel procedimento penale senza che il giudice potesse non prestargli fede. Ma è noto che il codice del 1988 ha eliminato il valore fidefacente del verbale e non ha riprodotto l'istituto dell'incidente di falso, per cui qualsiasi verbale di un atto del procedimento può essere sottoposto a verifica da parte del giudice in relazione alla correttezza e veridicità della descrizione del fatto che il pubblico ufficiale attesta di aver fatto o essere avvenuto in sua presenza.

Ma il culmine della profonda riflessione si raggiunge quando la sentenza afferma che l'elaborato del consulente del P.M. “pur non potendo essere equiparato alla perizia disposta dal giudice del dibattimento, è pur sempre il frutto di un'attività di natura giurisdizionale che perciò non corrisponde appieno a quella del consulente tecnico della parte privata”: qui il consulente del P.M. vola alto e raggiunge l'empireo del giudice, perché ha carattere “giurisdizionale”, cioè non è più il giudice a decidere ma è il consulente del P.M. che ius dicet e di fronte ad esso il consulente delle parti private soccombe miseramente. Tanto è vero che la sentenza afferma l'inutilità di una perizia, che sarebbe nient'altro che la ripetizione di un accertamento neutrale già svolto dal consulente del P.M.

In questo punto la sentenza non solo si scontra con la Costituzione, ma diventa sovversiva dell'ordinamento costituzionale. Infatti, essa ignora il cuore del processo accusatorio, cioè il contraddittorio, e, in particolare, l'art. 111, comma 2, Cost. che, com'è noto, prescrive che, non solo il processo penale, ma “ogni processo” si deve svolgere “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.

Eppure la Consulta aveva già ammonito le Sezioni Unite, richiamando “la logica del processo accusatorio: l'organo dell'accusa è una parte e gli elementi dallo stesso raccolti fuori del contraddittorio non assumono, di norma, la dignità di prove, diversamente da quanto avviene per le dichiarazioni rese davanti al giudice, le quali hanno, dunque, un maggior “valore intrinseco”. La stessa logica imporrebbe, dunque, che la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero fosse punita con pena non già eguale – come chiedono le sezioni unite – ma anch'essa inferiore a quella comminata per la subornazione del perito, ausiliario del giudice. Equiparare le due ipotesi significherebbe, in effetti, rievocare una impostazione di tipo inquisitorio, alla stregua della quale il “sapere tecnico” acquisito dall'organo dell'accusa nel corso dell'attività di indagine varrebbe tanto quanto il “sapere tecnico” acquisito dal giudice in dibattimento” (Corte cost. n. 163/2014).

Ma la sentenza si scontra anche con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (sotto questo profilo, A. MARANDOLA, Una sentenza in contrasto con i principi del “giusto processo” e la parità delle armi). Infatti, la Corte di Strasburgo ha già affermato che viola la “parità delle armi” tenere conto solo del parere del consulente del P.M. e quindi ha dichiarato, all'unanimità, la violazione dell'”equo processo”, sotto il profilo sia civile che penale, in relazione alla procedura seguita in Croazia nel disporre il ricovero coatto del ricorrente in un ospedale psichiatrico. In particolare, la Corte ha rilevato che, senza disporre una perizia in ordine alle doglianze sollevate dal ricorrente né tantomeno dando al medesimo l'opportunità di nominare un consulente di parte, era stata significativamente ostacolata la sua possibilità di contestare le conclusioni cui era pervenuta una perizia collegiale commissionata dall'accusa (Corte Edu, Sez. I, 4 aprile 2019, Hodžić v. Croazia) (2).

Invece, per la pronuncia qui in commento, il P.M. e il suo consulente valgono più del difensore e del suo consulente e si pongono alla pari del giudice, tanto è vero che la sentenza conclude nel senso che, “a fronte di apprezzamenti tecnico scientifici forniti dal consulente del P.M. non intrinsecamente illogici o contraddittori e in sè non inattendibili, e comunque nella specie non specificamente confutati dal consulente della difesa”, non occorre un accertamento da parte del perito.

La verità è che il consulente tecnico, sia del P.M. sia del difensore, è tenuto a riferire il vero in riferimento agli accertamenti oggettivi del fatto (3), mentre sul piano delle valutazioni, sia l'uno che l'altro, sono del tutto liberi di esprimere il loro parere e per questo non sono in alcun modo perseguibili.

Insomma, la sentenza in esame si allinea a quella giurisprudenza, purtroppo sempre crescente, che sta cercando di portare il consulente tecnico del P.M. al ruolo di soggetto terzo, anziché di parte (4).

Ma non c'è da meravigliarsi, perché questa sentenza è figlia della attuale “colleganza” che lega il P.M. al giudice, anzi, che consente al P.M. di soverchiare il giudice ed è l'ennesima riprova che il P.M. deve appartenere ad un ordinamento diverso da quello del giudice. Ma finora nemmeno il “caso Palamara” è riuscito in questo intento!

Guida all'approfondimento

(1) Cass. pen., Sez. II, 24 settembre 2014, n. 42937, che fu anche più drastica, affermando che" In generale, le consulenze tecniche provenienti dalla difesa non costituiscono mezzi di prova ma allegazioni difensive di contenuto tecnico che, se non confutate esplicitamente, devono ritenersi implicitamente disattese".

(2) Corte Edu, Sez. I, 4 aprile 2019, Hodžić v. Croazia, che ha inoltre osservato che, nel successivo procedimento sfociato nella condanna del ricorrente al ricovero in ospedale psichiatrico, questi non aveva avuto la possibilità di portare alcuna prova a suo favore, al fine di censurare i motivi posti a base del provvedimento che ne aveva ritenuto necessario il suo ricovero in quel luogo.

(3) Corte cost. n. 163/2014 evidenziò, infatti, come il consulente tecnico del P.M. che menta sul fatto oggettivo, oggetto di consulenza, risponderebbe “dei reati di falsa testimonianza e di false informazioni al pubblico ministero fornendo dichiarazioni mendaci sugli aspetti dianzi evidenziati, con conseguente rilevanza penale della condotta subornatrice sub specie di intralcio alla giustizia”. Anche sul fronte difensivo le Sezioni unite hanno affermato il principio secondo il quale integra il delitto di falso ideologico di cui all'art. 479 c.p. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili acquisite a norma degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p. c.p.p. e verbalizzate in modo infedele (Cass. pen., Sez. unite, 27 giugno 2006, n. 32009, S.).

(4) Cass. pen., Sez. unite, 25 settembre 2014, n. 51824, Guidi e altro, avevanoenunciato il principio di diritto per cui "l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero finalizzata ad influire sul contenuto della consulenza integra il delitto di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 cod. pen.", in quanto il consulente tecnico nominato dal P.M. “acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato del pubblico servizio nel momento in cui compie le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli articoli 357 e 358 c.p., concorre oggettivamente all'esercizio della funzione giudiziaria e ha il dovere, connaturato ad ogni parte pubblica, di obiettività e “imparzialità” nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l'accertamento della verità” e, per giunta, “anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità. Ne discende che il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici”.

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