Le Sezioni Unite definiscono l'abuso di autorità nel reato di violenza sessuale

Paolo Pittaro
02 Novembre 2020

Nel delitto di violenza sessuale l'abuso di autorità, cui si riferisce l'art. 609-bis, comma 1, c.p., presuppone una posizione di preminenza non solo pubblicistica, ma anche di fatto e di natura privata, che l'agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.
Massima

Nel delitto di violenza sessuale l'abuso di autorità, cui si riferisce l'art. 609-bis, comma 1, c.p., presuppone una posizione di preminenza non solo pubblicistica, ma anche di fatto e di natura privata, che l'agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.

Il caso

L'imputato era un insegnante d'inglese che impartiva lezioni private a due alunne minori degli anni quattordici, in occasione delle quali le costringeva a subire e a compiere su di lui atti sessuali (baci sulla bocca, carezze spinte, palpamenti, toccamenti).

Se i fatti erano accertati ed indiscussi nella loro realtà concreta, più complessa la vicenda processuale in ordine alla loro qualificazione giuridica.

L'imputazione originaria era di violenza sessuale commessa con abuso di autorità (art. 609-bis c.p.) aggravata per la età inferiore ai 14 anni (art. 609-ter c.p.) e attuata in esecuzione del medesimo disegno criminoso (art. 81, comma 2, c.p.).

Il GUP del tribunale, tuttavia, ad esito di giudizio abbreviato, lo condannava in relazione al diverso reato (continuato ex art. 81, comma 2 c.p.) di cui all'art. 609-quater, comma 4, c.p. (atti sessuali con minorenne in casi di minore gravità).

La Corte di Appello, invece, a seguito del gravame proposto dal Procuratore generale e dalle parti civili, riqualificava i fatti ritornando alla originaria imputazione e riformulando la relativa pena.

Donde il ricorso per Cassazione ove, a parte i motivi meramente processuali che qui non rilevano, l'imputato contestava l'interpretazione della Corte relativa all'art. 609-bis c.p., sostenendo che l'abuso di autorità ivi previsto doveva ritenersi di natura pubblicistica e non privatistica, come nel caso di specie, in quanto le lezioni venivano impartite alle due giovani alunne in base ad un rapporto di diritto privato.

Inoltre, lamentava la mancata applicazione dell'ipotesi attenuata di cui all'art. 609-bis, comma 3, c.p., posto che nessuna conseguenza psicologica era derivata da tale comportamento sulle minori, che hanno mantenuto immutato il loro rendimento scolastico, nonché la mancata concessione delle attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.), motivata dal notevole divario d'età fra le alunne e l'imputato, del quale, peraltro, si sottolineava l'incensuratezza.

La questione

Il quadro normativo di riferimento. Due sono le contrastanti normative richiamate dai giudici di merito.

La prima (sostenuta dalla iniziale imputazione e dalla Corte d'appello) ritiene applicabile l'art. 609-bis, comma 1, c.p. (introdotto dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66) relativo al delitto di Violenza sessuale, che prevede “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”. La pena originariamente prevista della reclusione da cinque a dieci anni è stata elevata da sei a dodici anni dall'art. 13, comma 1, della l. 19 luglio 2019, n. 69 (il c.d. “Codice rosso”): tuttavia nel caso in oggetto deve farsi riferimento alla minor sanzione vigente al momento del fatto, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p.

Il terzo comma della medesima disposizione dispone che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”.

Peraltro, il successivo art. 609-tercomma 1, n. 1, c.p. stabiliva che se i fatti di cui all'art. 609-bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici la pena è della reclusione da sei a dodici anni. Disposizione applicabile alla fattispecie in esame, ma ora modificata dalla citata legge n. 69 del 2019, la quale prevede, nell'attuale comma 2, che la pena stabilita dall'articolo 609-bis è aumentata della metà (ossia reclusione da nove a diciotto anni) se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici.

La seconda normativa, sostenuta dal giudice di prime cure e ora dal ricorrente, si richiama, invece all'art. 609-quater c.p. (rubricato Atti sessuali con minorenne, e parimenti introdotto dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66), il quale dispone, al comma 1, n. 1, che “soggiace alla pena stabilita dall'art. 609-bis, chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni quattordici”.

Parimenti, il comma 4 (ora comma 5, dopo le modifiche introdotte alla disposizione dalla prefata legge n. 69 del 2019) prevede che “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”.

Dal confronto delle due impostazioni si comprende che, seguendo le norme vigenti al momento del fatto e, quindi applicabili dal giudice, secondo la valutazione che fa leva sulla fattispecie dell'art. 609-bis c.p., aggravato dal dettato dell'art. 609-ter c.p., la pena sarebbe stata della reclusione da sei a dodici anni, mentre facendo leva sulla fattispecie di cui all'art. 609-quater, la pena sarebbe stata della reclusione da cinque a dieci anni. Ed in ambedue le ipotesi, ove si ritenesse che il fatto fosse considerato di minore gravità la pena sarebbe diminuita fino ai due terzi. Cui si aggiunga la ulteriore diminuzione finale di un terzo dovuta alla scelta del rito abbreviato (art. 442, comma 2, c.p.p.).

In definitiva, la differenza, nel caso che ci occupa, fra la fattispecie di violenza sessuale aggravata dall'età (artt. 609-bis e 609-ter c.p.) e di “atti sessuali con minorenne” (art. 609-quater) sta tutta nella dizionemediante abuso di autorità” fondante, al pari della violenza e minaccia, la prima norma. Come dire che se il fatto di reato fosse stato commesso con abuso di autorità si rientrerebbe nel delitto di violenza sessuale, mentre in assenza di tale modalità si rientrerebbe nel delitto di atti sessuali con minorenne (e con le già viste differenze sanzionatorie).

Ora, posto che il fatto è stato commesso da un insegnante su minori infraquattordicenni nell'ambito di lezioni private, e non nel contesto scolastico, il punto sta nel ritenere se tale fatto sia stato commesso con abuso di autorità o meno. E la difesa, richiamandosi pure alla sentenza del giudice di prime cure, lo negava, ritenendo che un abuso di autorità non potesse ritenersi in un rapporto privatistico e non pubblicistico. E tale tesi era sostenuta nel ricorso per Cassazione.

La questione giuridica rimessa alle Sezioni Unite. Investita del caso, la terza sezione della Suprema corte si è trovata di fronte ad un quadro di giurisprudenza contrastante.

Vero che proprio su tale punto erano intervenute le Sezioni Unite, le quali, sia pur in via incidentale, ma proprio in riferimento ad un caso affatto analogo (un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con una minore di anni sedici) aveva sancito che “in tema di violenza sessuale, l'abuso di autorità di cui all'art, 609-biscomma 1 c.p. presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico” (Cass. pen., Sez. Un., 31 maggio 2000, n. 13, in Cass. pen., 2001, p. 427 s., con nota di MARRA, La nozione di sfruttamento nel delitto di pornografia minorile e la "terza via" delle Sezioni unite).

Tale prima tesi, c.d. “restrittiva”, è stata seguita da varie pronunce del medesimo segno (ex multis: Cass. pen., Sez. III, 19 giugno 2002, n. 32513, in C.E.D., n. 223101; Cass. pen.,Sez. IV,19 gennaio 2012, n. 6982, in C.E.D., n. 251955; Cass. pen, sez. III, 4 ottobre 2012, n. 47869, in Cass. pen.,2013, p. 3996; Cass. pen, Sez. III, 24 marzo 2015, n. 16107, in Cass. pen.,2015,p. 4476)facendo anche leva sul fatto che la riforma dei reati sessuali, operata dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66 (sulla quale, cfr., per tutti, CADOPPI (a cura di), Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, 3a ed., Cedam, Padova, 2002) aveva abrogato i precedenti artt. 519, comma 1, 520 e 521 c.p., che punivano, rispettivamente, la violenza carnale, la congiunzione carnale commessa a abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli atti di libidine violenti. Ora, proprio il concetto di abuso di autorità di cui all'art. 609-bis c.p. veniva considerato come la trasposizione dell'abrogato art. 520 c.p., ove l'abuso era connesso alla qualità del pubblico ufficiale e, quindi, di netta marca pubblicistica.

La seconda tesi, c.d. “estensiva” e più recente, si pone in senso diametralmente opposto, affermando che l'espressione “abuso di autorità”, che costituisce unitamente alla “violenza” o “minaccia” una delle modalità di consumazione del reato previsto dall'art. 609-bis c.p., ricomprende non solo le posizioni autoritative di tipo pubblicistico, ma anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (ex plurimis:Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, in Dir. & Giust., 2 dicembre 2014, con nota di DE FRANCESCO, L'abuso di autorità sussiste anche nel caso di relazioni meramente private; Cass. pen., Sez. III, 27 marzo 2014, n. 36704, in C.E.D., n. 260172; Cass. pen, Sez. III, 3 dicembre 2008, n. 2119; Cass. pen., Sez. III, 19 aprile 2012, n. 19419, in C.E.D., n. 252768; Cass. pen., Sez. III, 10 aprile 2013, n. 37135, in C.E.D., n. 256849). Inoltre, il principale argomento posto a sostegno di tale diversa interpretazione si basa sul confronto, da un lato, con l'art. 61, n. 11 c.p. e, dall'altro, con l'art. 608 c.p. La prima disposizione configura, come circostanza aggravante comune, la condotta di chi commette un reato “con abuso di autorità” o “di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d'ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione o di ospitalità”, ossia strumentalizzando situazioni coinvolgenti rapporti di diritto privato. In questo caso, non si fa riferimento ad alcuna situazione autoritativa di tipo pubblicistico, come, invece, così avviene nel caso dell'art. 608 c.p.,il quale, avente ad oggetto l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, rinvia espressamente, quanto ai possibili soggetti attivi del reato, alla figura del pubblico ufficiale.

A questo punto, la Sezione terza della Suprema Corte, preso atto di tale contrastante giurisprudenza sul punto, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, formulandola nei seguenti termini: «se, in tema di violenza sessuale, l'abuso di autorità di cui all'art. 609-bis c.p., comma 1, presupponga nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali» (Cass. pen., Sez. III, ord. 24 gennaio 2020, n. 2888, in Sistema pen., 20 febbraio 2020, con nota di FINOCCHIARO, L'abuso di autorità dell'insegnante privato tra violenza sessuale (art. 609-bis) e atti sessuali con minorenne (art. 609-quater): la parola alle Sezioni Unite. Sul punto cfr. pure DIVOLO, Violenza sessuale e abuso di autorità: la parola alle Sezioni Unite, in Salvis Juribus, 21 marzo 2020).

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia delle Sezioni Unite. Il dilemma affidato al vaglio delle Sezioni Unite poteva sembrare nitido, ma la Corte si rende subito conto che non poteva essere affrontato in modo semplicistico, confermando una o l'altra delle interpretazioni contrapposte.

Invero, richiamandosi alla stessa dottrina che propendeva per la soluzione più ampia (la c.d. linea estensiva), pur senza alcuna citazione espressa, rilevava che essa doveva dar atto, in alcuni casi, della difficoltà di individuare le condotte di abuso di autorità rispetto a quelle in cui la costrizione al compimento degli atti sessuali avviene con minaccia.

Invero, se tale seconda linea interpretativa veniva condivisa da più parti (per tutti: ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. I, 15a ed. integrata ed aggiornata da GROSSO, Giuffrè, Milano, 2008, p. 185 s.; CADOPPI, Commento all'art. 3, in CADOPPI (a cura di), Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, cit. p. 93 s.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, vol. II, t. I, I delitti contro la persona, 4a ed., Zanichelli, Bologna, 2013, p. 251), ricordiamo come si sia anche autorevolmente osservato, pur sviluppando ampiamente tale linea esegetica, (MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, vol. I, Delitti contro la persona, 6a ed., Wolters Kluver-Cedam, Milano, 2016, p. 410 s.), che la nuova ipotesi criminosa di atti sessuali con abuso di autorità, “per la sua non ineccepibile e generica formulazione e per le confusioni concettuali che la sorreggono, tipiche espressioni anch'esse della persistenza parlamentare di legiferare in materia penale, tale ipotesi si presenta di dubbia utilità, di incerta interpretazione, foriera anch'essa delle ormai croniche difformità giurisprudenziali” [corsivo del testo].

La sentenza delle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 1 ottobre 2020, n. 27326, in Sistema pen., 5 ottobre 2020, con nota di FINOCCHIARO, Le Sezioni Unite sul concetto di “abuso di autorità” nel delitto di violenza sessuale mediante costrizione; in Quotidiano giuridico, 5 ottobre 2020, con nota di MONTAGNA, Violenza sessuale su minorenne durante lezioni private: configurabile l'abuso di autorità; in Dir.& Giust., 2 ottobre 2020, con nota di GENTILE, L'abuso di autorità non presuppone una fonte formale e pubblicistica del potere autoritativo dell'agente; in www.altalex.com., 6 ottobre 2020, con nota di MARANI, Violenza sessuale: abuso di autorità configurabile anche nei rapporti privati e di fatto; cui adde PISCOPO, Violenza sessuale con “abuso di autorità: per le Sezioni Unite può essere anche di fatto e di natura privata, in www.filodiritto.com, 8 ottobre 2020 ) presenta un deciso rilievo.

E tale rilevanza, a nostro avviso, per tre motivi: a) perché si pone in netta antitesi con la precedente citata decisione delle Sezioni Unite n. 13 del 2000; b) per la amplissima, pressoché completa, ricognizione di tutte le pronunce della Suprema Corte sul tema (in ordine sia alla prima, sia alla seconda linea interpretativa) con il riferimento, pure, alla fattispecie concreta in esse di volta in volta sottesa; c) per l'approfondimento e la soluzione di cui alla linea interpretativa c.d. estesa.

La Corte, innanzi tutto, condivide la critica a quella impostazione secondo la quale l'autorità di cui all'art. 609-bis c.p. era necessariamente quella pubblicistica, in quanto mera trasposizione, nella riforma del 1996, dell'abrogato art. 520 c.p., ove l'abuso era commesso dal pubblico ufficiale. Peraltro, in quest'ultima disposizione non era necessaria la costrizione, ma solo la qualifica di pubblico ufficiale, trattandosi di un reato proprio. Lo stesso richiamo all'art. 608 c.p., il quale, pur essendo rubricato “Abuso di autorità contro arrestati o detenuti” parimenti delinea un reato proprio commesso dal pubblico ufficiale.

In ogni caso, il parallelo non è neanche correttamente impostabile, in quanto gli articoli abrogati facevano parte dell'abrogato Capo I (Dei delitti contro la libertà sessuale) del Titolo IX del codice penale, ossia Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, mentre ora, com'è noto, i reati sessuali rientrano nel Titolo XII, dedicato ai Delitti contro la persona e, nello specifico, nella Sezione II (Dei delitti contro la libertà personale) del Capo III, ossia Dei delitti contro la libertà individuale: in altri termini, il bene giuridico tutelato (ed offeso dal reato) è totalmente diverso.

Che, poi, il codice stesso quando vuole riferirsi ad una pubblica autorità lo faccia direttamente è scontato. Si pensi, ad esempio alle circostanze aggravanti comuni di cui all'art. 61 c.p., ove il citato n. 11 prevede che il fatto sia stato commesso “abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità”, mentre il n. 9 prevede che il fatto sia stato commesso “con abuso di poteri, o con violazione di doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto” (Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, cit.), ovvero ancora l'ormai abrogato art. 671 c.p., l'art. 600-octies c.p., comma 1, che attualmente sanziona condotte analoghe (Impiego di minori nell'accattonaggio, ove parla di persona minore “affidata all'autorità” del reo) e gli artt. 571 (Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina: “persona sottoposta alla sua autorità”), 600, comma 2 (Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù: “condotta attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità”) e 601 c.p. (Tratta di persone: condotte realizzate mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità”).

Inoltre, facendo ricorso al confronto tra la fattispecie dell'art. 609-bis, e quella prevista dell'art. 609-quater,comma 2, c.p., si deve rilevare non solo la presenza della clausola di riserva (“al di fuori delle ipotesi previste dell'articolo precedente”) e la diversa formulazione, che si riferisce non all'abuso di autorità bensì all'abuso di poteri, ma anche per la diversa conformazione della condotta sanzionata che non richiede la costrizione del minore, ma si riferisce ad atti sessuali commessi con il consenso del minorenne, il quale tuttavia, è ritenuto non capace di esprimerlo validamente in ragione dell'età o del rapporto che lo lega al soggetto attivo.

Infatti, deve sottolinearsi che mentre il bene giuridico del reato di cui all'art. 609-bis è la libertà di autodeterminazione del minore, lesa dalla costrizione, quello di cui all'art. 609-quater c.p. intende invece garantire la sua integrità fisico-psichica nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità, non potendo egli esprimere alcun consenso (cfr., per tutte: Cass. pen., Sez. III, 11 aprile 2018, n. 23205, in Cass. pen., 2018, p. 3770; Cass. pen., Sez. III, 27 maggio 2010, n. 24258; Cass. pen., Sez. III, 13 maggio 2004, n. 29662, in Cass. pen.,2005, 337). In altri termini, tale seconda fattispecie è configurabile in assenza di ogni pressione coercitiva e si connota come reato a forma libera, comprensivo di tutte le possibili forme di aggressione al minore, con esclusione dei fatti tipici di costrizione indicati dall'art. 609-bis c.p., i quali, avendo come destinatario il minore, realizzano la fattispecie di violenza sessuale aggravata ex art. 609-ter, comma 1, n. 1, c.p. (Cass. pen., Sez. III, 25 febbraio 2004, n. 15287, in Cass. pen., 2005, p. 1602).

Ora, esclusa la natura formale e pubblicistica dell'autorità di cui l'agente abusa nel commettere il reato di cui all'art. 609-bis c.p., le Sezioni Unite fanno un passo ulteriore, chiedendosi se l'autorità "privata" sia solo quella che deriva dalla legge o pur anche un'autorità di fatto. E concludono sostenendo tale seconda ipotesi, poiché, se ciò che rileva è la coartazione della volontà della vittima, posta in essere da una posizione di preminenza, di supremazia che viene a tale scopo strumentalizzata, la specifica qualità del soggetto agente resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione, quale ne sia l'origine. Si pensi, ad esempio, al caso dei rapporti di lavoro dipendente (anche irregolare), ovvero di situazioni di supremazia riscontrabili in ambito sportivo, religioso, professionale ed all'interno di determinate comunità, associazioni o gruppi di individui.

Pertanto, una nozione ampia del concetto di autorità risulta del tutto coerente con gli scopi perseguiti dal legislatore. Al punto di ritenere rilevante, per la configurabilità del reato, la valenza coercitiva dell'abuso di autorità tanto nel caso in cui la posizione di preminenza dell'agente sia venuta meno, permanendo tuttavia una condizione di soggezione psicologica derivante dall'autorità da questi già esercitata, quanto in quello di relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima del reato, quando il primo, abusando della sua autorità, concorre con un terzo che compie l'atto sessuale non voluto dalla persona offesa.

In definitiva, alla stregua di tali considerazioni, le Sezioni Unite pronunciano il seguente principio di diritto: "L'abuso di autorità cui si riferisce l'art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l'agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali".

La decisione relativa agli altri punti del gravame. Stabilito tale principio di diritto, le Sezioni Unite devono dare soluzione agli altri punti di cui al gravame posto nei confronti della sentenza della Corte d'Appello. Trascurando, in questa sede, quelli meramente processuali, essi sono essenzialmente due.

Il primo attiene al mancato riconoscimento della “minore gravità” nel caso in esame (art. 609-bis, comma 3, c.p.).

La Corte, innanzi tutto, afferma che la fattispecie concreta rientra in ogni caso nella “violenza sessuale”, essendo consistita negli atti repentini dettagliatamente descritti nel capo di imputazione, i quali, secondo costante giurisprudenza, mediante il compimento insidiosamente rapido della azione criminosa sorprendono la vittima ponendola nell'impossibilità di difendersi e superando la sua contraria volontà (per tutte: Cass. pen., Sez. III, 18 luglio 2014, n.46170).

Infatti, a tale proposito è opportuno ricordare la costante giurisprudenza della Corte, secondo la quale nella nozione di atti sessuali, di cui all'art. 609-bis c.p., devono includersi non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente, di modo che la libertà individuale di quest'ultima viene violata per il soddisfacimento dell'istinto sessuale dell'agente.

E, in tale contesto, sono stati definiti atti sessuali, ad esempio, i toccamenti dei seni, delle cosce, dei glutei (Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2004, n. 876, in Giur. it., 2005, II, c. 1687), il bacio a labbra chiuse (Cass. pen., Sez. III, 4 dicembre 1998, n.1137, in Giust. pen., 1999, II, c. 584), nonché il c.d. bacio rubato, ossia il mero sfioramento con le labbra sul viso altrui per dare un bacio, “allorché l'atto, per la sua rapidità ed insidiosità, sia tale da sovrastare e superare la contraria volontà del soggetto passivo” (cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 15 novembre 2005, C.E.D. n. 233115). Peraltro, in tali atti devono intendersi anche i toccamenti, i palpeggiamenti e gli sfregamenti effettuati anche sopra i vestiti, in quanto suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale dell'attore (Cass. pen., Sez. III, 25 maggio 2006, C.E.D. n. 234174).

In tale contesto, la “minore gravità” consiste, considerata la ratio della disposizione e il bene tutelato, in una minore compressione della libertà sessuale del minore. Ora, la condotta posta in essere deve essere ritenuta esorbitante rispetto ai normali canoni dell'insegnamento, ponendo altresì in evidenza, quali dati fattuali significativi della costrizione esercitata sulle allieve e la stretta connessione con la strumentalizzazione del ruolo di docente, la rivelazione delle violenze subite solo a distanza di tempo e solo dopo il superamento di riserve psicologiche, circostanza ritenuta indicativa dell'autorevolezza che contraddistingueva il rapporto tra l'imputato e le minori. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato rilievo, nel giustificare il diniego dell'attenuante, alla reiterazione delle condotte, alla loro invasività come percepita dalle vittime ed al rapporto fiduciario instauratosi tra insegnante ed allieve: tutti elementi espressione di una compressione non lieve della libertà sessuale della vittima, non compatibile con un giudizio di minore gravità del fatto (nel medesimo senso: Cass. pen., Sez. III, 11 ottobre 2018, n. 4960).

Il secondo punto del gravame attiene al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche.

A tale proposto si osserva che la sentenza impugnata lo ha giustificato in considerazione dell'assenza di positivi elementi di valutazione e richiamando la gravità dei fatti in considerazione della reiterazione delle condotte e del divario di età esistente tra imputato e persone offese, offrendo, anche in questo caso, una motivazione ritenuta del tutto congrua, a fronte della quale il ricorso, richiamando solo uno degli argomenti valorizzati dai giudici dell'appello (differenza di età tra vittime e imputato), indica l'incensuratezza dell'imputato quale dato suscettibile di valutazione trascurato in sentenza, non considerando, però, che l'art. 62-bis c.p., comma 3 (come introdotto dall'art. 1, comma 1-bis, del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito nella legge 24 luglio 2008, n. 125) esclude che l'assenza di precedenti condanne per altri reati possa essere, per ciò solo, posta a fondamento della concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Ne deriva che le circostanze attenuanti generiche non sono oggetto di un diritto con il cui mancato riconoscimento il giudice di merito si deve misurare poiché, non diversamente da quelle "tipizzate", la loro attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti. Pertanto, il loro diniego può essere legittimamente giustificato con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell'articolo 62-bis c.p., per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell'imputato (così, da ultimo, Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2017, n. 14595, in Guida dir., 2018, n. 22, p. 74).

In definitiva, le Sezioni Unite della Suprema Corte dispongono il rigetto del ricorso e condannano il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Osservazioni

Del tutto condivisibili sono sia il principio di diritto sia le ulteriori valutazioni delle Sezioni Unite, La decisione, peraltro, a nostro sommesso avviso, presenta un particolare pregio, contrapponendosi alla pronuncia delle stesse Sezioni Unite di vent'anni fa con una motivazione approfondita ed accurata, a seguito di una ricognizione pressoché completa della giurisprudenza della Suprema Corte sul tema e su quelli ad esso coordinati, in una visione più attuale della fattispecie di violenza sessuale a danno di soggetto minorenne.

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