L'impugnativa dei provvedimenti datoriali è valida anche se effettuata con ricorso cautelare ante causam

24 Novembre 2020

La Corte costituzionale ha considerato irragionevole che la proposizione della domanda cautelare non possa impedire la decadenza dall'impugnativa del provvedimento datoriale; la tutela cautelare, essendo riconducibile all'esercizio della giurisdizione e alla garanzia del giusto processo, non può avere infatti un trattamento deteriore rispetto ai sistemi alternativi di composizione della lite.
Massima

Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della legge 15 luglio 1966 n. 604, come sostituito dall'art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010 n. 183, nella parte in cui non prevede che l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c.

Il caso

Un lavoratore disabile aveva impugnato, con ricorso cautelare ante causam ex art. 700 c.p.c. innanzi al Tribunale di Catania, il provvedimento con il quale il datore di lavoro ne aveva disposto il trasferimento presso altra sede. Parte datoriale, nel costituirsi in giudizio, aveva eccepito la decadenza del lavoratore dalla facoltà di impugnazione, assumendo l'inidoneità del ricorso cautelare ad impedire la decadenza prevista dall'art. 6 comma 2 della legge 604/1966, potendosi riconoscere tale capacità solo all'impugnativa giudiziale proposta attraverso un ricorso di merito ex art. 414 c.p.c., oltre che alla comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato.

Il Tribunale adito, dubitando della legittimità costituzionale della predetta norma, per come interpretata dal diritto vivente nel senso di ritenere non ricompreso nel termine «ricorso» idoneo ad impedire il maturare della decadenza anche la domanda per provvedimento d'urgenza ante causam, sollevava questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., del canone del giusto processo di ex artt. 24 e 111 Cost. nonché, infine, per contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 primo comma della CEDU, poiché la Corte europea dei diritti dell'uomo ha più volte ritenuto illegittime le limitazioni all'accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali, prive di uno scopo legittimo ovvero in caso di sproporzione tra mezzo impiegato e scopo, pur legittimo, perseguito.

La questione veniva accolta e la norma dichiarata incostituzionale.

In motivazione la Corte Costituzionale ha evidenziato che «La mancata previsione anche del ricorso per provvedimento d'urgenza ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c., quale atto idoneo a impedire, se proposto nel termine di decadenza, l'inefficacia dell'impugnazione stragiudiziale del primo comma dell'art. 6 della legge n. 604 del 1966, e a dare accesso alla tutela giurisdizionale, è contraria al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), se posta in comparazione con l'idoneità riconosciuta, invece, dalla stessa disposizione censurata alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o arbitrale.

Ed è, altresì, contraria al principio di ragionevolezza (riconducibile anch'esso all'art. 3 Cost.), in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di decadenza in esame, essendo la domanda di tutela cautelare idonea a far emergere il contenzioso insito nell'impugnazione dell'atto datoriale. (…) Deve poi considerarsi, sotto altro profilo, che lo scopo perseguito dal legislatore ordinario, nell'ambito della propria discrezionalità, mediante la legge n. 183/2010 con la riformulazione del secondo comma dell'art. 6 della legge n. 604/1966 – ossia quello di far emergere tempestivamente il contenzioso avente ad oggetto l'impugnativa dell'atto datoriale – si giustifica senz'altro perché è funzionale a superare l'incertezza, gravante sul datore di lavoro e suscettibile di incidere in modo significativo sull'organizzazione e sulla gestione dell'impresa. È a tal fine che è stata introdotta la perdita di efficacia dell'impugnativa stragiudiziale dell'atto datoriale, se non coltivata tempestivamente nella sede giudiziaria o in altra analoga (quella conciliativa o arbitrale).

Ma, rispetto a tale legittimo scopo del legislatore, l'inidoneità del ricorso per provvedimento d'urgenza ante causam a impedire la decadenza di cui al secondo comma dell'art. 6 della legge n. 604/1966 costituisce una conseguenza sproporzionata, nonché irragionevole.

Infatti, con la proposizione del ricorso cautelare la controversia sull'atto impugnato è portata dinanzi al giudice ed è quindi raggiunto lo scopo di far emergere il contenzioso su tale atto, affinché il datore di lavoro non resti in uno stato di perdurante incertezza circa la sorte dello stesso.

A fronte della proposizione di un ricorso cautelare d'urgenza, non sussiste più il rischio che il regime della decadenza in esame vuole evitare – ovvero quello di una contestazione della legittimità del trasferimento (o di un altro atto datoriale, quale innanzitutto il licenziamento) che rimanga silente per lungo tempo, nel solo rispetto del termine prescrizionale dell'azione di annullamento o addirittura senza questo limite nel caso di imprescrittibilità dell'azione di nullità – perché il lavoratore è già uscito allo scoperto nel momento in cui ha adito il giudice della cautela.

Né l'emersione del contenzioso può dirsi svalutata dalla circostanza che i provvedimenti di urgenza ante causam – come in genere quelli cautelari anticipatori del contenuto della decisione di merito – sono assoggettati al regime della strumentalità attenuata introdotto dalla legge n. 80 del 2005 e hanno dunque, sul piano degli effetti, una definitività “condizionata” alla mancata introduzione del giudizio di merito. Invero, una volta definita la vicenda cautelare, ben può il datore di lavoro assumere l'iniziativa per far venir meno ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale in essere – ove ne residui alcuna – promuovendo egli stesso il giudizio di merito.

Pertanto, la sanzione della perdita di efficacia dell'impugnativa del trasferimento, ovvero di un altro atto datoriale assoggettato al regime di cui al secondo comma dell'art. 6 della legge n. 604/1966, nonostante il tempestivo deposito di un ricorso cautelare, è sproporzionata rispetto al fine perseguito dal legislatore e si pone, altresì, in contrasto con il principio di ragionevolezza».

La questione

La Corte costituzionale ha considerato irragionevole che la proposizione della domanda cautelare non possa impedire la decadenza dall'impugnativa del provvedimento datoriale; la tutela cautelare, essendo riconducibile all'esercizio della giurisdizione e alla garanzia del giusto processo, non può avere infatti un trattamento deteriore rispetto ai sistemi alternativi di composizione della lite.

Le soluzioni giuridiche

All'indomani della riscrittura del regime di impugnazione dei provvedimenti datoriali di cui all'art. 6 della legge 604/1966 operata dall'art. 32 della legge 183/2010, la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che la proposizione di un ricorso cautelare, ai sensi e per gli effetti dell'art. 700 c.p.c., non sarebbe in grado di interrompere i termini di decadenza previsti per la proposizione del ricorso introduttivo del giudizio, come disciplinati dalla norma in parola.

L'assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all'art. 669-octies, comma 6 c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all'esito del procedimento cautelare – potenzialmente proponibile fino allo spirare dell'ordinario termine di prescrizione - vanificherebbe l'obiettivo della disciplina introdotta dalla legge 183/2010, ovvero di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento, attraverso la previsione di termini di decadenza per l'azione in giudizio (Cass. civ. 15 novembre 2018 n. 29429).

Con la pronuncia in commento, invero, la Corte costituzionale, proprio muovendo dalla indicata finalità acceleratoria dei tempi di emersione del contenzioso sull'atto datoriale sottesa all'art. 6 comma 2 legge 604/1966, giunge tuttavia a conclusioni di segno contrario rispetto a quelle proprie dell'indirizzo ermeneutico dominante, ritenendo che la norma impugnata, per come interpretata dal diritto vivente, non superi lo scrutinio di legittimità costituzionale.

Per conservare l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale prevista dal primo comma dell'art. 6 – evitando così che nel termine di decadenza di cui al secondo comma sopravvenga l'inefficacia della stessa – il lavoratore può percorrere tre strade alternative.

Quella principale è costituita dalla possibilità, per il lavoratore che ha proposto l'impugnativa stragiudiziale, di riversare quest'ultima nella sede contenziosa mediante il «deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro». Benché il riferimento testuale della disposizione sia al «ricorso» tout court, la specificazione che segue, secondo cui resta «ferma […] la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso», mostra che in realtà è (indirettamente) richiamato il solo ricorso ordinario, il quale appunto deve contenere fin dalla sua proposizione l'indicazione specifica dei documenti offerti in comunicazione (art. 414, numero 5 c.p.c.).

La disposizione censurata prevede, poi, due ulteriori possibilità per il lavoratore che abbia proposto l'impugnazione stragiudiziale: la «comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato».

Nell'evenienza in cui il lavoratore veda sbarrata la strada di questi due canali alternativi, in ragione del difetto di consenso della controparte datoriale all'espletamento della procedura conciliativa o arbitrale, lo stesso art. 6 comma 2 della legge 604/1966 recupera la via giudiziaria ordinaria: il ricorso al giudice deve essere infatti depositato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Se invece la procedura conciliativa si conclude positivamente con un accordo delle parti, questo, quantunque versato nel relativo verbale reso esecutivo dal giudice, non costituisce certo cosa giudicata.

Parimenti, l'art. 412-quater c.p.c. prevede espressamente che il lodo aggiudicativo del merito della controversia, emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113 comma 4 c.c., ed è impugnabile ai sensi dell'art. 808-ter c.p.c. Anche in tal caso, non c'è la prospettiva della cosa giudicata, ma un accertamento di tipo negoziale.

A fronte dei delineati meccanismi processuali, la Corte costituzionale ravvisa, dunque, nella mancata inclusione del ricorso d'urgenza tra gli atti idonei a impedire, se proposti nel termine di decadenza, l'inefficacia dell'impugnazione stragiudiziale, una censurabile incoerenza del sistema; ciò in quanto, i provvedimenti cautelari sono caratterizzati da una sorta di “definitività”, pur se condizionata in modo risolutivo ad una differente decisione assunta nel giudizio di merito eventualmente incardinato dalla parte in causa che non si ritenga soddisfatta dall'assetto di interessi cristallizzato nella pronuncia d'urgenza, che li rende certamente non meno idonei degli atti stragiudiziali indicati dalla medesima norma a manifestare al datore di lavoro l'interesse del lavoratore ad ottenere la rimozione dell'atto impugnato.

Osservazioni

L'impugnazione dei provvedimenti datoriali, così come legislativamente strutturata a seguito della novella del 2010, costituisce una fattispecie a formazione progressiva, soggetta a due distinti e successivi termini decadenziali, la cui efficacia è interamente rimessa al controllo dello stesso impugnante il quale, dopo aver assolto alla prima delle incombenze di cui è onerato, è assoggettato a quella ulteriore di attivare la fase giudiziaria entro il termine prefissato (Cass.civ., 17 agosto 2020 n. 17197).

Per non tradire l'esigenza di garantire la speditezza dei processi e il bilanciamento tra la tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore, la Corte costituzione con la pronuncia in oggetto rassicura l'operatore del diritto circa la equipollenza tra la domanda cautelare ante causam e il ricorso ex art. 414 c.p.c.

È innegabile, infatti, che la norma censurata determinava il risultato paradossale di precludere al giudice della cautela di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, ove il termine di decadenza di cui all'art. 6 comma 2 della legge 604/1966 venisse a spirare nelle more del processo, per intervenuta inoppugnabilità dell'atto.

E tale conseguenza appare tanto più insostenibile se solo si considera la centralità che la tutela cautelare riveste nel processo del lavoro, in cui il ritardo nella risposta di giustizia comporta un palmare pregiudizio, atteso che le controversie regolate agli artt. 409 e ss. c.p.c. hanno spesso ad oggetto situazioni soggettive di rilievo costituzionale, in quanto attinenti alla dignità del lavoro.

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