Il principio di proporzionalità nella quantificazione dell'assegno di mantenimento in favore dei figli

Marina Pavone
27 Novembre 2020

La quantificazione dell'assegno di mantenimento per il figlio, a carico del genitore non collocatario, non può prescindere da una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, nell'ambito di un'analisi...
Massima

La quantificazione dell'assegno di mantenimento per il figlio, a carico del genitore non collocatario, non può prescindere da una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, nell'ambito di un'analisi più ampia che contempli le esigenze attuali del minore, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio/convivenza, i tempi di permanenza presso ciascun genitore e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno di essi (art. 337 -ter c.c.), nel rispetto del principio di proporzionalità per il quale ciascun genitore contribuisce al mantenimento della prole in base alle proprie possibilità economiche.

Il caso

In sede di cessazione degli effetti civili del matrimonio il marito ha chiesto la riduzione dell'assegno di mantenimento in favore dei figli maggiorenni, ma non autosufficienti dal punto di vista economico (da € 3.000,00 ad € 1.000,00 mensili), a causa di una malattia invalidante che l'ha colpito al punto da compromettere, in maniera irreversibile, la propria capacità lavorativa di medico dentista. Il Tribunale ha accolto la domanda disponendo una contribuzione mensile a carico del ricorrente pari ad € 1.900,00.

La Corte d'Appello ha ulteriormente ridotto la somma ad € 1.400,00 deducendo, tuttavia, che in sede di separazione il marito si era impegnato a versare, per la prole, una somma superiore al proprio reddito di allora, così lasciando presumere l'esistenza di ulteriori introiti, oltre a quelli da lavoro. Il giudice distrettuale ha ritenuto plausibile che il ricorrente potesse ancora contare su tali apporti economici stabili provenienti dai propri familiari, come dalla moglie dedotto e mai contestato, ed ha considerato rilevante tale circostanza nella quantificazione dell'assegno di mantenimento.

Detta decisione è stata impugnata in Cassazione dal marito affidando il ricorso a due motivi.

Con il primo motivo il ricorrente ha imputato alla Corte d'Appello di non aver adeguatamente considerato l'insufficienza del proprio effettivo reddito, corrispondente, come documentato, a quello di un soggetto divenuto totalmente invalido, pertanto, inabile al lavoro che ha dovuto cessare la propria attività professionale, così versando in una condizione di impossibilità a far fonte agli obblighi economici nei confronti dei figli.

Tuttavia, rileva la Corte, tale motivo è inammissibile in quanto esula dall'art. 360 c.p.c. n. 5 richiamato. La doglianza del ricorrente, infatti, non riguarda il mancato apprezzamento del trattamento pensionistico, che il giudice territoriale ha tenuto in conto, ma il complessivo accertamento che ha valutato anche l'ulteriore elemento emerso in giudizio, quale, appunto, una sistematica contribuzione in favore del ricorrente, da parte di terzi familiari, tale da incrementarne la disponibilità economica. Pertanto, la predetta doglianza non rientra nella norma invocata che riguarda, invece, l'omesso esame di un fatto storico, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, sia stato oggetto di discussione tra le parti e che avrebbe determinato un diverso esito della controversia qualora esaminato.

Con il secondo motivo il ricorrente ha eccepito che l'assegno di mantenimento in favore dei figli sia stato quantificato in violazione del principio di proporzionalità rispetto al proprio reddito avendo omesso, il giudice del gravame, di considerare la maggiore capacità economica della ex moglie, la situazione finanziaria della quale non è stata neppure aggiornata.

Di fatto, la pronuncia impugnata manca completamente del raffronto tra le posizioni economiche dei due genitori, essendosi concentrata sulla sola condizione del padre ed avendo tralasciato completamente la disponibilità reddituale (peraltro aumentata) della madre, che avrebbe dovuto, invece, essere opportunamente analizzata insieme agli altri elementi previsti per la quantificazione del contributo di ciascun genitore al mantenimento dei figli (quali le attuali esigenze dei figli, il tenore di vita goduto durante il matrimonio, etc.). La Cassazione, pertanto, ha cassato la pronuncia con rinvio alla Corte territoriale alla quale è stato demandato un nuovo esame delle posizioni economiche delle parti.

La questione

Il principio di proporzionalità, per il quale ciascun genitore contribuisce al mantenimento della prole in base alle proprie possibilità economiche, può dirsi rispettato se la quantificazione dell'assegno di mantenimento in favore dei figli avviene prescindendo dall'analisi comparata delle posizioni reddituali/patrimoniali di entrambe le parti?

Le soluzioni giuridiche

Con la pronuncia in esame la Corte evoca, quale elemento essenziale nella quantificazione dell'assegno di mantenimento in favore dei figli, la comparazione dei redditi dei due genitori, in modo che ciascuno contribuisca in misura proporzionale alle proprie sostanze (principio di proporzionalità).

La questione presuppone un cenno di richiamo all'obbligo di mantenere la prole che il legislatore attribuisce al genitore, per il solo fatto della nascita del figlio, a prescindere dalla circostanza che ciò avvenga nell'ambito del matrimonio (artt. 143 e 147 c.c.), in una convivenzadi fatto o in mancanza di qualsivoglia relazione stabile. Tale dovere in capo al genitore permane anche nella fase patologica del rapporto, quando la famiglia si disgrega (art. 316-bisc.c., art. 337-ter c.c., art. 6 l. n. 898/1970 e ss.). Dunque, nel nostro sistema legislativo, entrambi i genitori sono chiamati a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie sostanze e secondo le rispettive capacità di lavoro, professionale o casalingo (artt. 148 c.c. e art. 316-bisc.c.).

L'art. 155 c.c., ridefinito dall'intervenuta legge n. 154/2013 in tema di «revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione», esplicita, attraverso un rimando all'art. 337-ter c.c., i criteri ai quali il giudice deve attenersi nell'adozione dei provvedimenti relativi ai figli. E dunque, salvo diversi accordi tra le parti, se necessario, al fine di realizzare il principio di proporzionalità, il giudice può disporre che il genitore non collocatario versi una somma da quantificare considerando le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto dal minore in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascuno di essi, le risorse economiche di entrambi i coniugi/conviventi, nonché, la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

È questo il dato normativo evocato dagli Ermellini nella pronuncia in esame, attraverso il quale la Corte richiama, altresì, precedenti sentenze di pari segno (Cass. 10 luglio 2013, n. 17089) che evidenziano la necessità di considerare tutti gli elementi indicati dal legislatore e confermano l'importanza di un'attenta analisi di quella che è la situazione economico/patrimoniale di entrambi i genitori, dalla quale non si può prescindere.

Del resto, una lettura diversa dell'assetto normativo sul tema, orientata a non considerare gli effettivi redditi di entrambi i genitori, sarebbe contraria anche all'orientamento maggioritario della giurisprudenza. Già in passato la Cassazione, con vari arresti, aveva chiarito il suddetto principio evidenziando «l'obbligo di entrambi i genitori, i quali svolgano attività lavorativa produttiva di reddito, di contribuire al soddisfacimento dei bisogni dei figli minori, in proporzione alle proprie disponibilità economiche, in diretta applicazione dell'art. 30 Cost.; mentre il giudice, al fine di realizzare tale principio di proporzionalità, nel determinare l'importo dell'assegno per il minore, deve considerare le "attuali esigenze del figlio", le quali non potranno peraltro non risentire del livello economico-sociale in cui si colloca la figura del genitore» (Cass. n. 21273/2013).

Alla medesima conclusione si giunge a mezzo dell'art. 147 c.c. (che rimanda all'art. 315-bis c.c.) laddove il legislatore, nel definire i doveri dei genitori nei confronti della prole (“mantenere, istruire ed educare i figli”), include implicitamente una serie di obblighi volti a soddisfare una molteplicità di esigenze dei figli. Tali necessità non sono solo riconducibili al piano alimentare, ma riguardano, in senso più ampio, le esigenze scolastiche, sanitarie, abitative, assistenziali, il diritto a godere di un'organizzazione domestica consona all'età e ad un sano sviluppo del minore. Ebbene, il livello di soddisfazione di tali esigenze è strettamente correlato anche al livello economico/sociale dell'intero nucleo familiare per cui il parametro di riferimento, ai fini della quantificazione del concorso di ciascun genitore nei predetti oneri, è costituito non soltanto dalle esigenze dei figli, ma anche dalle sostanze, dai redditi e dalla capacità di lavoro di ciascuna parte.

Il contributo in esame, pertanto, non potrà prescindere dall'analisi delle concrete condizioni economiche di ciascun genitore. Pertanto, una pronuncia che violando il principio di proporzionalità ometta il raffronto tra i redditi dei due coniugi/conviventi non potrà essere avallata, ma necessiterà di una riforma e di un richiamo ad un rinnovato esame, conformato ai predetti principi, come nel caso di specie.

Osservazioni

La previsione dell'assegno di mantenimento in favore del figlio minore, oppure maggiorenne ma non indipendente dal punto di vista economico, come forma indiretta di contribuzione, nasce dall'esigenza di riequilibrare gli oneri di ciascun genitore nei casi nei quali, con la separazione, il divorzio o la cessazione della convivenza, il mantenimento diretto (ovvero, il provvedere alle esigenze del figlio che si ha con sé, per il tempo in cui lo si ha con sé) comporterebbe uno squilibrio ed una sproporzione nell'apporto economico tra i due genitori.

Prevedere che un genitore debba contribuire al mantenimento del figlio, corrispondendo una somma periodica in favore di quest'ultimo, non costituisce, pertanto, un automatismo, ma soltanto un'ipotesi che si configura quando il dovere di mantenere la prole non può essere pienamente assolto in via diretta. In tal caso, a mezzo dell'assegno perequativo, il genitore (prevalentemente non collocatario) provvede in via indiretta alle esigenze del figlio, così ristabilendo una proporzione tra le posizioni contributive delle parti.

Si tratta di un principio che, se correttamente applicato, realizza a pieno anche il diritto del minore alla bigenitorialità (l. 54/2006) per il quale quest'ultimo potrà/dovrà godere di entrambe le figure genitori nella propria vita, sia pure in maniera alternata, evitando che uno dei due risulti penalizzato dalla sua inferiore/scarsa capacità contributiva rispetto all'altro.

Ai fini di una corretta quantificazione dell'emolumento de quo, è fondamentale che nell'esaminare le rispettive sostanze dei genitori, compresi i cespiti improduttivi di reddito, si valuti opportunamente la capacità di lavoro professionale o casalingo di ognuno, con espressa valorizzazione non solo delle risorse economiche individuali, ma anche delle accertate potenzialità reddituali (Cass. sez. I n. 6197/2005) e che tutti i parametri richiamati dall'assetto normativo vigente siano attentamente ed adeguatamente considerati, atteso che non esiste un unico criterio prestabilito che consenta, a priori, il calcolo dell'importo dovuto (non è previsto, per esempio, nel nostro ordinamento che l'assegno di mantenimento corrisponda ad una percentuale fissa del reddito del genitore non collocatario).

E dunque, la situazione reddituale dei genitori, sovente intaccata da quel fisiologico impoverimento delle parti che la disgregazione della famiglia porta con sé, necessita sempre di essere valutata in relazione e stretta connessione con gli altri presupposti dettati dalla legge. L'assegno dovrà, pertanto, contemplare le attuali esigenze di vita del minore valutando l'età e le particolari condizioni del figlio, anche a mezzo di presunzioni, e dovrà tendere a conservare il tenore di vita del minore il quale, per quanto possibile, non dovrà risentire degli effetti negativi della separazione sul piano economico (« .. i figli hanno il diritto di mantenere il tenore di vita loro consentito dai proventi e dalle disponibilità concrete di entrambi i genitori, e cioè quello stesso che avrebbero potuto godere in costanza di convivenza»Cass. sez. VI n. 3922/2018). Si dovrà, altresì, tenere conto, ai fini della quantificazione dell'assegno, del tempo di permanenza del minore presso ciascun genitore considerando che, in caso di frequentazione paritaria dei figli, a condizioni economiche sovrapponibili, appare sempre più diffusa la tendenza a non riconoscere un assegno di mantenimento, prediligendo la contribuzione diretta (C. App. Genova n. 112/2012). Altresì rilevanti sono i compiti domestici e di cura del minore, svolti daciascun genitore nel tempo in cui ha con sé i figli. A tali adempimenti la norma riconosce una valenza economica che, dunque, deve essere considerata i fini della quantificazione dell'assegno.

In sintesi, la determinazione in capo ad un genitore dell'obbligo di corrispondere al figlio un assegno perequativo comporta ripercussioni notevoli sul piano economico, ma anche personale in termini di qualità di vita, sia del soggetto onerato che del beneficiario. Pertanto, l'analisi dell'an e della quantificazione dell'assegno di mantenimento necessita di grande attenzione e scrupolo, da parte di tutti gli operatori del diritto, nel rispetto dei criteri di riferimento, normativi e giurisprudenziali, del principio della proporzionalità, nonché, del buon senso anche alla luce del fatto che il dovere di mantenere i figli non cessa con la maggiore età, ma si protrae sino al conseguimento della loro indipendenza economica (Cass. sez. VI civ. n. 19077/20).

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