Commercio di sostanze dopanti: sollevata questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega

Lorenzo Cattelan
02 Dicembre 2020

In tema di reati antidoping, è rilevante e non manifestamente infondata, per eccesso di delega ai sensi dell'art. 76 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 586-bis, comma 7, c.p...
Massima

In tema di reati antidoping, è rilevante e non manifestamente infondata, per eccesso di delega ai sensi dell'art. 76 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 586-bis, comma 7, c.p. (commercio di sostanze dopanti), introdotto dall'art. 2, comma 1 lett. d), d.lgs. n. 21/2018, nella parte in cui - sostituendo l'art. 9, comma 7, l. 376/2000, abrogato dall'art. 7, comma 1 lett. n), d.lgs. n. 21/2018 - prevede il dolo specifico del "fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti".

Il caso

L'ordinanza in commento prende le mosse dalla sentenza della Corte d'Appello di Lecce che ha condannato un titolare di una palestra per aver commercializzato, mediante la consegna a culturisti (tra cui due partecipanti ad attività di body building) che frequentavano la sua attività, specialità medicinali ad azione anabolizzanteattraverso canali non ufficiali e ottenute mediante la predisposizione di ricette mediche falsificate.

I Giudici di secondo grado, confermando quanto rilevato dal G.u.p. di Brindisi, hanno peraltro accertato che le condotte illecite dell'interessato si sono protratte sulla base di uno schema criminoso comprendente la ripetitività del commercio clandestino delle sostanze dopanti; circostanza, questa, che ha permesso l'inquadramento della fattispecie nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 586-bis, comma 7, c.p. (commercio di sostanze) e non – come auspicato dalla difesa dell'imputato – nella più tenue ipotesi di cui al primo comma del medesimo articolo, che punisce chi procuri occasionalmente ad altri le sostanze anabolizzanti.

Avverso la sentenza d'appello, l'interessato ha presentato ricorso per Cassazione lamentando che:

  • la Corte territoriale avrebbe erroneamente rigettato il motivo d'appello fondato sul difetto di motivazione della sentenza del G.u.p., che si sarebbe limitata ad una parafrasi dell'ordinanza cautelare;
  • la fattispecie di commercializzazione di prodotti dopanti è stata ritenuta provata sulla base delle intercettazioni telefoniche che, da sole, sarebbero inidonee a fondare il giudizio di responsabilità penale;
  • l'accertamento del reato di associazione per delinquere finalizzata alla falsità materiale commessa dal privato e dal pubblico ufficiale in atti pubblici si sarebbe erroneamente basato sulle sole dichiarazioni di un coimputato asseritamente prive di ogni elemento di riscontro;
  • la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche giustificata dalla mancata ammissione da parte dell'imputato delle proprie responsabilità costituirebbe un error in iudicando, dal momento che l'interessato avrebbe confessato di essere assuntore di sostanze anabolizzanti e di aver compilato ricette false.
La questione

Il ricorso presentato dai legali dell'imputato non pare cogliere la questione giuridica più significativa che, di fatto, è stata rilevata d'ufficio dalla Suprema Corte. La breve trattazione che seguirà, pertanto, avrà cura di approfondire le argomentazioni che hanno condotto i Giudici di Cassazione a rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità, per eccesso di delega, della norma che punisce il commercio illegale di sostanze dopanti.

L'art. 9, comma 7, l. n. 376/2000, che prevedeva la punizione della commercializzazione delle sostanze dopanti a prescindere dalle finalità perseguite con la condotta illecita, è stato abrogato dal recente d.lgs. n. 21/2018. Contestualmente, in attuazione del principio di riserva di codice di cui all'art. 3-bis c.p., il Governo ha trasferito il reato nell'art. 586-bis c.p.

Nel compiere tale operazione di trasposizione normativa, però, il legislatore delegato ha modificato il contenuto della previgente disposizione, restringendo l'ambito di operatività del reato alle sole condotte di commercializzazione realizzate al fine di alterare e prestazioni agonistiche degli atleti.

Ciò posto, gli ermellini evidenziano che il sopravvenuto filtro selettivo del dolo specifico ha realizzato una abolitio criminis parziale, non essendo più punito il commercio di sostanze dopanti che sia commesso in assenza della finalità di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti. Ne consegue, applicando le regole dettate in tema di successione delle leggi penali nel tempo, l'applicazione retroattiva del nuovo art. 586-bis, comma 7, c.p.

Analizzando il caso di specie, la Cassazione ha sottolineato come dalle sentenze di merito emerga il difetto in capo all'imputato del dolo specifico di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti a cui cedeva le sostanze dopanti. Stante quanto sopra esposto, pertanto, l'imputato dovrebbe dunque essere assolto per difetto dell'elemento soggettivo. In questo senso, non sussiste alcun dubbio sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata d'ufficio dalla Cassazione.

Le soluzioni giuridiche

Lo scrutinio compiuto dalla Cassazione in ordine all'ammissibilitàdella questione di legittimità costituzionale è di estremo interesse e merita di essere dettagliato.

In particolare, i Giudici di legittimità – preoccupandosi degli eventuali effetti in malam partem di un'eventuale sentenza di accoglimento della Consulta – affermano che, in linea generale, sono da ritenersi inammissibili le questioni di legittimità che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell'ordinamento della norma incriminatrice abrogata, a ciò ostandovi il principio consacrato nell'art. 25, comma 2, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell'area di ciò che è penalmente rilevante.

Tale regola, com'è noto, non è assoluta. È stato anche di recente evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale, infatti, che una delle eccezioni è rappresentata proprio dallo scorretto esercizio del potere legislativo da parte del Governo che abroghi, attraverso il decreto legislativo, una disposizione penale in assenza di una specifica autorizzazione della legge delega.

Ne consegue che la norma di sfavore deve considerarsi come mai validamente espunta dall'ordinamento (cfr. Corte Cost.,n. 37/2019).

In ordine alla non manifesta infondatezza della sollevata questione di illegittimità costituzionale, la Suprema Corte sottolinea il tenore letterale della legge delega di cui all'art. 1, comma 85 lett. q), l. n. 103/2017 (cd. Legge Orlando).

Più precisamente, si evidenzia che il Governo era stato autorizzato a dare esecuzione al principio di riserva di codice, trasferendo specifiche fattispecie incriminatrici previste da leggi complementari – tra cui quelle aventi ad oggetto la tutela del bene salute – all'interno del codice penale, al fine di garantire una più agevole conoscibilità dei precetti penali e, pertanto, valorizzare la portata della funzione rieducativa della pena.

Che l'intenzione del legislatore fosse quella di una mera traslazione della fattispecie di cui all'art. 9 l. 376/2000 all'interno del codice penale – secondo le parole dei Giudici remittenti – è confermata sia dall'identità della pena comminata, sia dal disposto dell'art. 8 d.lgs. n. 21/2018, il quale stabilisce che "dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall'articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allevata al presente decreto"; nell'indicata tabella, il riferimento all'art. 9 della l. n. 376/2000 trova corrispondenza nell'art. 586-bis c.p., a conferma l'assenza di qualsivoglia intento abrogativo della previgente norma incriminatrice.

Da ultimo, la Cassazione pone in luce come la parziale abolitio criminis posta in essere dal Governo contrasti anche con la ratio della legge delega.

Difatti, la finalità della Legge Orlando, nel vietare la messa in circolazione di sostanze dopanti, era quella di attribuire ampia tutela al bene salute, indipendentemente dalla destinazione dei prodotti anabolizzanti agli sportivi che gareggino in competizioni agonistiche.

La sopravvenuta scelta di politica criminale che ha determinato la liceità del commercio di sostanze dopanti destinato a sportivi che non partecipino a gare agonistiche, quindi, si pone in radicale contrasto con i principi ispiratori della legge delega, avente la dichiarata finalità di contribuire alla tutela della salute umana, assicurando una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni penali diretti a preservarla.

Per le ragioni sopra esposte la Terza Sezione della Cassazione ha quindi rimesso la questione alla Corte Costituzionale, auspicando una sentenza manipolativa che espunga dalla fattispecie criminosa di cui al settimo comma dell'art. 586-bis c.p. il dolo specifico rappresentato dal “fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

Osservazioni

Come si è osservato, la l. n. 376/2000 – volta alla tutela sanitaria delle attività sportive con particolare riferimento al contrasto al doping e tuttora vigente con riferimento alle disposizioni di natura extrapenale – al settimo comma dell'art. 9 sanzionava il commercio di sostanze dopanti compiuto attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, risultando quindi inclusa nell'alveo della fattispecie incriminatrice qualsiasi attività di intermediazione nella circolazione degli anabolizzanti, purché svolta in forma continuativa e con il supporto di un'organizzazione anche elementare (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. III, 28 febbraio 2017, n. 19198).

Con il d.lgs. n. 21/2018 il Governo ha dato attuazione alla delega legislativa conferita dall'art. 1, comma 85 lett. q) l. n. 103/2017 (cd. Riforma Orlando), ispirata al principio della “tendenziale” riserva di codice nella materia penale, da realizzare mediante l'inserimento nel corpo codicistico tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore rivolte alla tutela di beni di rilevanza costituzionale, tra cui il bene della salute sia individuale che collettiva, al fine di garantire una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi l'effettività della funzione rieducativa della pena.

Sconfessando l'autorizzazione della legge delega, l'introdotto art. 586-bis c.p. prevede la punibilità delle condotte di commercio di sostanze dopanti a patto che il reo agisca al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.

In questo contesto, v'è da sottolineare che la costante giurisprudenza di legittimità affermava – sulla base degli argomenti letterale e sistematico – che per l'integrazione della previgente norma incriminatrice era irrilevante la finalità soggettiva dell'autore del reato, occorrendo la semplice consapevolezza in capo all'agente di operare quale intermediario nella circolazione clandestina di anabolizzanti (cfr. Cass. pen., Sez. III, 28 febbraio 2017, n. 19198; Cass. pen., Sez. II, 10 novembre 2016, n. 2640; nonché Cass. pen., Sez. II, 15 novembre 2011, n. 43328).

In altri termini, si è realizzata una parziale abolitio criminis delle condotte di commercio clandestino di anabolizzanti già sorrette dal dolo, ma non finalizzate all'alterazione delle prestazioni agonistiche degli atleti. Tanto si è verificato malgrado il silenzio della legge di delega, compromettendo peraltro la sua dichiarata finalità di contribuire alla tutela della salute umana, assicurando una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni penali diretti a preservarla.

Appare, tuttavia, discutibile la scelta della Cassazione di non associare la questione di legittimità costituzionale all'art. 2, comma 1 lett. d), d.lgs. n. 21/2018, dal momento che è proprio questa fonte normativa ad aver violato l'art. 76 Cost. e, con esso, i principi attinenti ai rapporti tra Parlamento e Governo. È infatti il decreto legislativo (attuativo della legge delega) a rappresentare il risultato del procedimento legislativo asseritamente illegittimo. L'art. 586-bis c.p. rappresenta, cioè, la mera conseguenza di quanto previsto nell'atto avente forza di legge.

In ogni caso, i dubbi di legittimità sollevati con l'ordinanza in commento erano già stati espressi dal Tribunale di Brescia nel 2018, che tuttavia ha evidenziato – nel caso concreto - la non rilevanza della questione, dal momento che, pur eliminando dalla fattispecie astratta l'elemento del dolo specifico, l'imputato sarebbe comunque stato condannato (Trib. Brescia, Sez. I, 9 maggio 2018, n. 1642). Diversamente, nel caso posto all'attenzione della Cassazione l'alternativa è secca: assoluzione per difetto dell'elemento soggettivoove venga applicato il vigente art. 586-bis, comma 7, c.p.; condanna, invece, nell'ipotesi di ritenuta applicazione dell'abrogato art. 9, comma 7, l. n. 376/2000.

Di qui, l'interessante profilo attinente alle eccezioni al principio di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che producono effetti in malam partem. Per costante orientamento giurisprudenziale, infatti, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell'ordinamento della norma incriminatrice abrogata, dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell'art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell'area di ciò che è penalmente rilevante.

A tal proposito, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 37/2019, ha precisato che le ipotesi che consentono la verificazione di effetti in malam partem a seguito di una sentenza emessa dalla stessa Consulta riguardano:

  • la necessità di evitare la creazione di "zone franche" immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme - altrettanto irragionevolmente - un trattamento sanzionatorio più favorevole (Corte Cost., n. 394/2006).
  • la contrarietà della norma censurata agli obblighi internazionali rilevanti ai sensi degli artt. 11 o 117, comma 1, Cost. (Corte Cost., n. 32/2014, con riferimento alla necessità di non lasciare impunite “alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell'Unione europea, che l'Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.”);
  • la “mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale”, derivante “dall'eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale” (Corte Cost., n. 236/2018);
  • lo scorretto esercizio del potere legislativo sia da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (Corte Cost., n. 46/2014), sia da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (Corte Cost., n. 5/2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (Corte Cost., n. 32/2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza Corte Cost., n. 5/2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata.

Quali, infine, le possibili conseguenze rispetto al profilo delle successioni delle leggi nel tempo?

La rilevanza del quesito deriva dalla considerazione per cui le sentenze di accoglimento della Consulta producono, in linea generale, l'effetto di abrogare ex tunc le disposizioni dichiarate illegittime. Così, nel caso di specie, nell'ipotesi in cui venga dichiarata illegittima l'introduzione del dolo specifico del fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, si verificherebbe un'espansione dell'area del penalmente.

Com'è noto, tuttavia, la prevalenza dei principi di retroattività favorevole e del favor libertatis impongono di considerare l'abolitio criminis delle ipotesi delittuose verificatesi tra il 6 aprile 2018 (data di entrata in vigore del d.lgs. di attuazione della Legge Orlando) e la declaratoria di parziale incostituzionalità dell'art. 586-bis c.p. Ne consegue che i fatti di commercio di sostanze anabolizzanti posti in essere nel suindicato lasso temporale in assenza di dolo specifico – introdotto dall'art. 2, comma 1 lett. d), d.lgs. n. 21/2018, – non sono punibili alla stregua del principio di irretroattività sfavorevole, che trova fondamento costituzionale negli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. con riferimento all'art. 7 CEDU.

Guida all'approfondimento

V. MANES, V. NAPOLEONI, La legge penale illegittima, Torino, 2019, p. 408 ss.

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