Se un genitore si disinteressa del figlio, deve risarcire il danno non patrimoniale anche al genitore “abbandonato”?

10 Dicembre 2020

Il disinteresse del genitore nei confronti dei figli, oltre a integrare un illecito civile e legittimare una pretesa risarcitoria della prole, può configurare un illecito civile e fondare una autonoma pretesa risarcitoria anche da parte dell'altro genitore?
Massima

Il disinteresse del genitore nei confronti dei figli, oltre a costituire una grave violazione degli obblighi genitoriali, incidendo su beni fondamentali, integra anche un illecito civile e consente un'autonoma pretesa risarcitoria azionabile sia dalla prole, sia dall'altro genitore, in quanto il rifiuto di collaborazione, a seconda delle modalità nelle quali viene attuato può ledere la dignità dell'altro genitore e giustificare la pretesa risarcitoria

Il caso

Caia e Sempronio hanno una relazione extraconiugale e da tale unione nasce, nel 1993, la figlia Tizia, ma Sempronio, che è coniugato con un'altra donna, non intende riconoscerla. Il riconoscimento avverrà solo 20 anni dopo, nel 2012, e solo dopo un esame del DNA.

Tuttavia, nemmeno dopo il riconoscimento di paternità, Sempronio cerca alcun contatto con la figlia, cosicché, Caia e Tizia, rispettivamente madre e figlia, citano in giudizio Sempronio, lamentando che questi si era sempre disinteressato della figlia, sin dalla sua nascita, sì da causare danni patrimoniali e non patrimoniali ad entrambe.

Tizia rappresentava in giudizio che la privazione della figura genitoriale paterna avrebbe causato in lei uno stato di particolare sofferenza, per la quale la stessa figlia sarebbe stata costretta ad intraprendere un percorso di psicoterapia.

Nel giudizio così instaurato, Tizia chiedeva innanzitutto un assegno di mantenimento per sé, essendo ancora studentessa, fuori sede, maggiorenne ma non autosufficiente; la figlia chiedeva inoltre, quale danno non patrimoniale subito a seguito del disinteresse del padre – e quindi per la perdita della figura genitoriale paterna – la somma di euro 250.000,00, in applicazione delle Tabelle giurisprudenziali del Tribunale di Milano.

Caia, madre di Tizia, chiedeva invece a Sempronio il risarcimento del danno patrimoniale subito per avere provveduto in via esclusiva al mantenimento della figlia sin dalla nascita, quantificandolo in euro 220.000,00, oltre ad un danno non patrimoniale, pari a euro 80.000,00; La donna, infatti, lamentava che a seguito della nascita della figlia era dovuta tornare nel piccolo paese di origine e aveva sempre dovuto provvedere in via esclusiva alla stessa figlia così rinunciando a perseguire qualunque altro obbiettivo per affermarsi sul piano lavorativo e personale.

Secondo Caia, il totale disinteresse di Sempronio nei confronti della figlia e le conseguenti rinunce, cui ella sarebbe stata obbligata per poter crescere la figlia, avrebbero causato in lei un profondo stato di frustrazione e conseguente depressione, da cui la richiesta di ristoro del danno non patrimoniale.

Sempronio regolarmente costituitosi in giudizio, contestava la ricostruzione avversa ed eccepiva di essersi reso disponibile ad un aiuto morale e materiale, ma di aver subito chiarito che “era un uomo sposato ed innamorato della moglie e che il loro personale rapporto, di conseguenza, non avrebbe avuto alcun seguito”; allegava di essere coniugato con una moglie riconosciuta invalida al 91% ed un figlio in cura presso il Centro di salute mentale per abuso di alcolici, dismorfobie e dispercezioni uditive.

Al contempo, precisava di non essersi mai sottratto alle richieste della Caia e, contrariamente a quanto affermato dalla controparte, aveva sempre provveduto al mantenimento di Tizia, prima attraverso i bonifici di Lire 500.000 mensili, poi di € 500,00;

Quanto alle richieste di danno non patrimoniale di Tizia e Caia, Sempronio eccepiva che non avrebbe potuto esercitare il proprio ruolo paterno, in quanto “per poter vedere la bambina…..avrebbe dovuto spostare il baricentro della sua vita lontano dalla moglie e dalla famiglia”. Egli asseriva di aver proceduto all'accertamento del DNA dopo avere ricevuto, nel Marzo del 2012, la diffida del legale della Caia, e di avere accettato immediatamente di dichiarare la sua paternità; al contempo, evidenziava di aver manifestato da subito la sua disponibilità a far fronte anche alle nuove esigenze della ragazza, ottenendo un rifiuto della madre. Chiedeva, pertanto, il rigetto delle domande attoree.

La questione

La questione in esame è la seguente: il disinteresse del genitore nei confronti dei figli, oltre a integrare un illecito civile e legittimare una pretesa risarcitoria della prole, può configurare un illecito civile e fondare una autonoma pretesa risarcitoria anche da parte dell'altro genitore?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Cagliari affronta il caso, più volte oggetto di pronunce giurisprudenziali, di merito e di legittimità, relativo alla richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla prole “abbandonata” da un genitore.

Il danno da deprivazione genitoriale rientra nella categoria dell'illecito endofamiliare, il quale, a sua volta, deve collocarsi nel più ampio contenitore dell'illecito extracontrattuale.

Non è superfluo rammentare che il danno endofamiliare sia una fattispecie di illecito tutt'altro che risalente: è solo grazie alla evoluzione giuridica – sia normativa, sia giurisprudenziale – degli ultimi vent'anni che è possibile, oggi, parlare di danno endofamiliare. Nel recente passato, infatti, il diritto di famiglia era considerato come sistema chiuso, dotato di specificità, completezza ed autosufficienza, da cui la nota massima del giurista A.C. Jemolo, secondo cui la famiglia sarebbe “un'isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto”.

Oggi, invece, le condotte contra legem non trovano la loro sanzione solo nel diritto di famiglia, ovverosia nelle norme che il legislatore ha dettato per regolare il rapporto familiare; la famiglia non è più un istituto pubblicistico intangibile dalla tutela risarcitoria ma un ambito all'interno del quale i diritti costituzionalmente protetti di ciascun membro sono presidiati, anche dal punto di vista della responsabilità aquiliana, dinanzi a condotte contrarie ai precetti normativi.

L'illecito endofamiliare rappresenta ormai un punto di arresto ineludibile e fonda le sue radici, da un lato e in primis nella interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., che consente la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, operata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con le sentenze cc.dd. di San Martino e, dall'altro, con specifico riferimento al rapporto genitore-figlio, nel diritto della Unione Europea e nella disciplina pattizia internazionale, in parte confluita nella attuale normativa codicistica.

Con un percorso ermeneutico consolidatosi nei primi anni del 2000 (v. p. es. Cass. sez. I, 4 maggio 2000 n. 5586), la Suprema Corte ha riconosciuto che la violazione dell'obbligo di assistenza morale e materiale del genitore – obbligo che decorre dalla nascita del figlio a prescindere dal legame di coppia con l'altro genitore – può comportare illecito endofamiliare, in quanto la violazione dei doveri genitoriali non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia.

E' principio espresso a più riprese dalla Suprema Corte, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti, che la relativa violazione possa integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell' art. 2059 c. c.. Obblighi che non sono contenuti solo nella disciplina codicistica innovata prima dalla legge n. 54/2006 e, più recentemente, dal d.lgs. n. 154/2013, ma che sono cristallizzati nel tessuto costituzionale.

Il diritto alla relazione filiale viene dunque concepito non solo dal punto di vista formale, ovverosia nel corrispondente dovere, per il genitore, di attivarsi per tutelare lo status di filiazione attraverso il riconoscimento della prole, ma anche nel dovere di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole: diritti, questi, che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. - oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento - un elevato grado di riconoscimento di tutela, a tal punto che la lesione, data dalla violazione dei predetti conseguenti doveri genitoriali, è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima l'esercizio, ai sensi dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole (Cass. sez. I, 10 aprile 2012 n. 5652).

Con specifico riferimento al danno da deprivazione genitoriale, la pronuncia che sinora l'ha più approfonditamente esaminato, Cass. sez. I, 22 novembre 2013 n. 26205, lo qualifica come violazione di quel diritto alla relazione filiale da cui discende «il nucleo costitutivo originario dell'identità personale e relazionale dell'individuo", il danno consistendo "nelle ripercussioni personali e sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stati desiderati ed accolti come figli».

La pronuncia in commento, tuttavia, si discosta dalle numerose sentenze che hanno riconosciuto il ristoro del danno endofamiliare al figlio “abbandonato” in quanto riconosce e liquida alla madre, oltre al rimborso delle spese da ella sostenute per il mantenimento della figlia, anche il danno non patrimoniale c.d. iure proprio, così motivando:

«Infatti, l'art. 30 della Costituzione (“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”), riferendosi ad entrambi i genitori come soggetti obbligati, configura un obbligo reciproco la cui violazione cagiona non solo al figlio, ma anche al genitore che da solo abbia accudito la prole, un danno non patrimoniale; in tale condotta, pertanto, può ravvisarsi la violazione di un diritto costituzionalmente garantito e, come tale, risarcibile secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c. c.. Deve, quindi, ritenersi che anche il diritto del quale Caia assume la lesione assurga al rango di diritto fondamentale della persona».

Osservazioni

Il Tribunale di Cagliari, nella sentenza in commento, ha riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale anche alla madre, quantificando, in via equitativa, l'ammontare del risarcimento per i danni non patrimoniali subiti dalla medesima per la mancata partecipazione del padre alla crescita della figlia in euro 30.000,00.

L'iter argomentativo in commento trae spunto dall'art. 30 Cost., secondo il quale entrambi i genitori sono soggetti obbligati a mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio: secondo il Giudice, tale precetto farebbe sorgere non solo un obbligo nei confronti della prole, bensì, al contempo, anche un obbligo reciproco fra genitori, che, in quanto connesso alla procreazione, sarebbe naturalmente e strutturalmente condiviso.

Prosegue, il Giudice, motivando il riconoscimento del danno non patrimoniale a favore del genitore “abbandonato”, ricordando le misure di cui all'art. 709-ter c.p.c.: misure che, però, come riporta lo stesso giudicante, sono tese a favorire, nell'interesse del minore, l'adempimento di obbligazioni familiari di carattere non patrimoniale e sul presupposto di un precedente provvedimento diretto a disciplinare le modalità di affidamento, così da escludere l'applicabilità degli artt. 2043 e 2059 c.c. (nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Messina, 8 ottobre 2012; Trib. Novara, 21 luglio 2011).

Il Giudice con una affermazione che suona come una sorta di clausola di salvaguardia motivazionale, sostiene che «..il rifiuto di collaborazione abbia leso la dignità della madre per le modalità con le quali è stato attuato, che nella vicenda in esame sono state particolarmente svilenti” ma nelle proprie conclusioni torna sul concetto suesposto e conclude che il principio della bigenitorialità “possa consentire di configurare un diritto fondamentale anche del genitore alla partecipazione attiva, da parte dell'altro genitore, nel progetto educativo, di crescita e di assistenza della prole».

La soluzione non è del tutto innovativa, in quanto è rinvenibile nella giurisprudenza di merito un (unico) precedente, peraltro citato dal Giudice cagliaritano, che, nel riconoscere il danno non patrimoniale anche al genitore “abbandonato” a crescere da solo il figlio, fornisce una interpretazione “orizzontale” dell'art. 30 Cost.: in altri termini, secondo tale impostazione, il precetto costituzionale di cui alla citata norma non tutelerebbe solo la prole ma attribuirebbe, a ciascun genitore, un diritto alla collaborazione, dell'altro genitore, nella crescita della prole (Trib.Roma sez. I, 29 febbraio 2016, (ud. 27/01/2016, dep. 29/02/2016), n.4169).

Tuttavia, l'assunto del Giudice cagliaritano non appare pienamente condivisibile. Il terreno su cui si poggia la decisione in commento, infatti, è l'affermazione – tutt'altro che pacifica – che l'art. 30 Cost. configuri fra genitori un obbligo reciproco la cui violazione, da parte di un genitore, possa determinare un danno non patrimoniale all'altro.

La motivazione in esame pare riprendere la tesi di certa dottrina che vorrebbe portare il danno endofamiliare nell'ambito della responsabilità contrattuale e, nello specifico, quale “responsabilità da contatto sociale”.

Si tratta come noto di quella responsabilità che nasce non da un “contratto”, bensì da un “contatto sociale”, da un rapporto che si instaura tra due soggetti, ad esempio in virtù, come nel caso genitoriale, di un obbligo legale. In quest'alveo, sarebbe certamente più agevole ricomprendere ipotesi di illecito endofamiliare in grado di valorizzare le aspettative sul corretto adempimento dei doveri dell'attività genitoriale. Se così fosse, non sarebbe arduo ricomprendere nella tutela del danno non patrimoniale, anche un danno dinamico-relazionale (consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana) a favore del genitore “abbandonato”.

Tale impostazione, tuttavia, sconterebbe il rischio di introdurre un contenzioso giudiziario in cui la soglia minima di apprezzabilità del danno sarebbe difficilmente inquadrabile e, al contempo, si supererebbe il criterio dell'ingiustizia, costituzionalmente qualificata, come elaborata dalle sentenze cc.dd. di San Martino.

Allo stato attuale, la giurisprudenza è unanime nel riconoscere, al danno endofamiliare, natura di illecito extracontrattuale: concetto ricordato, da ultimo, da Cass. civ., 9 marzo 2020, n. 6518. E pertanto, all'interno della responsabilità extracontrattuale, il danno deve essere provato.

Sul punto va evidenziato un problema tuttora aperto. Se da un lato, infatti, la Suprema Corte ha da tempo affermato che il danno non patrimoniale lamentato, quand'anche sia danno da privazione della figura paterna, non debba considerarsi in re ipsa (cfr. Cass. 13 maggio 2011, n. 10527), la stessa Suprema Corte ha chiarito a più riprese che tale tipologia di danno possa essere provata anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici e a nozioni di comune esperienza: non è un caso che sia il precedente citato (Trib. Roma sez. I, 29 febbraio 2016, n.4169), sia la sentenza in commento, menzionino tali elementi onde fondare l'accertamento del danno non patrimoniale subiti da parte attrice.

Il dato, tutt'altro che irrilevante, dovrebbe indurre l'interprete ad interrogarsi sul ricorso, talvolta indiscriminato e sempre foriero di conseguenze processuali, a presunzioni semplici e a nozioni di comune esperienza, nell'ottica di un corretto bilanciamento fra necessaria tutela di diritti fondamentali della persona, costituzionalmente tutelati, e garanzie, a loro volta costituzionalmente protette, del giusto processo.

Occorre infatti ricordare che, di recente, la Suprema Corte ha ribadito che spetta ai Giudici di merito vigilare sul corretto esercizio dell'onere dalla prova. Allo stesso modo spetta loro l'estrapolazione delle ragioni di diritto dal materiale istruttorio, residuando, in capo al Giudice di Legittimità, solo lo scrutinio circa un eventuale “vizio di motivazione” (art. 360 c.p.c., n. 5, modificato a seguito del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, c.d. Decreto crescita, convertito con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134).

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