Diffamazione e semantica dell'offesa (a proposito del termine “clochard”)

Andrea Nocera
14 Dicembre 2020

Integra la condotta di diffamazione qualificare, in una lettera commerciale, un dipendente della società destinataria con dell'espressione “clochard”, riferita al vestiario usato ed alle sembianze, non potendo ritenersi configurabile l'esimente del diritto di critica...
Massima

Con la sentenza n. 33115/2020 la Suprema Corte ha affermato che integra la condotta di diffamazione qualificare, in una lettera commerciale, un dipendente della società destinataria con dell'espressione “clochard”, riferita al vestiario usato ed alle sembianze, non potendo ritenersi configurabile l'esimente del diritto di critica, che postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, in quanto il termine utilizzato si riferisce ad una categoria, seppur non identificabile in astratto con l'attribuzione di un giudizio dispregiativo, molto spesso oggetto di gratuito e anacronistico disprezzo sociale, scaturente da una cultura caratterizzata da aporofobia, ovvero da odio, repulsione e, in molti casi, violenta ostilità nei confronti di soggetti che vivono in stato di indigenza.

Il caso

Il Tribunale di Trapani, in funzione di giudice di appello, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, con sentenza del 23 ottobre 2018, ha condannato l'imputato per il reato di diffamazione (art. 595 c.p.) per avere, quale geometra comunale, mediante l'invio di una missiva alle competenti direzioni Enel, offeso la credibilità e la reputazione di un dipendente dell'azienda, incaricato di un sopralluogo tecnico presso edifici scolastici, dolendosi della “mancanza di tesserino di riconoscimento e di idoneo abbigliamento… perché dal vestiario usato e dalle sembianze sembrava più un clochard che un dipendente ENEL

La difesa dell'imputato denunciava, tra gli altri motivi, il vizio di violazione di legge in riferimento all'art. 595 c.p., deducendo che nelle parole della missiva non si esprimeva alcuna volontà di offendere il dipendente dell'azienda, restando all'interno del perimetro del diritto di critica dell'operato del gestore dell'energia elettrica, accusato di aver anteposto i propri interessi a quelli degli utenti. Del resto, l'uso del termine “clochard” era chiaramente riferito all'abbigliamento indossato dall'incaricato del sopralluogo, che non lo aveva reso identificabile quale dipendente dell'ENEL.

La questione

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte affronta in via preliminare la questione relativa alla possibilità di valutare, in sede di giudizio di legittimità la portata offensiva delle frasi o parole utilizzate, al fine di considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta di diffamazione.

A tale questione è connessa, sul piano della offensività della condotta, quella della individuazione dei requisiti della esimente del diritto di critica di cui all'art. 51, comma 1, c.p. e, soprattutto, di quello della continenza delle forme espositive del pensiero, che devono essere strettamente funzionali alla finalità di disapprovazione, senza trasmodare in una gratuita ed immotivata aggressione

dell'altrui reputazione. Tale questione, non controversa sul piano definitorio astratto del legittimo esercizio del diritto di critica, trova inevitabilmente contrastanti soluzioni applicative in relazione alla sussumibilità delle singole condotte nell'alveo dell'esimente in parola, confluendo il sentire sociale e culturale ed il retaggio storico nella valutazione del concreto trasmodare in offensività delle parole od espressioni usate dall'agente.

Le soluzioni giuridiche

La questione preliminare della possibilità di valutare, nel giudizio di legittimità, la portata diffamatoria delle espressioni usate. Sulla indicata questione preliminare si è ormai formato un consolidato orientamento secondo cui, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato. Il principio è stato da ultimo ribadito da Cass. pen., Sez. V, 10 ottobre 2019, n. 2473, ove è stata ritenuta scriminata, quale espressione del diritto di "critica sindacale", l'accusa di malafede ed incapacità gestionale rivolte in una nota da rappresentanti sindacali nei confronti di un dirigente di azienda. In senso conforme, Cass. pen., Sez.V, 19 settembre 2014, n. 48698, ove si chiarisce che il giudice di legittimità può e deve fare anche sotto il profilo del dolo e della sussistenza della scriminante del diritto di critica, allorquando gli stessi elementi evidenziati nella sentenza impugnata depongono per il difetto della componente soggettiva del reato. Nella specie, sempre con riferimento a dichiarazioni di critica sindacale espresse da giornalisti nei confronti delle decisioni del direttore della testata per condotte di censura del loro operato, la Corte ha tenuto conto del contesto nel quale tali dichiarazioni sono state rese, della finalità che le ha caratterizzate, del loro tenore e della loro corrispondenza ad una realtà fattuale accertata sulla base delle risultanze processuali, desumendo l'assenza del contenuto offensivo “ab initio” e, dunque, la superfluità della valenza scriminante del legittimo esercizio del diritto di critica, essendo il pensiero espresso liberamente oggetto della copertura prevista dall'art. 21 Cost., in quanto opinione, fondata su notizie vere e che i partecipanti all'assemblea sindacale avevano interesse ad apprendere (in senso conforme, Cass. pen., Sez. V, 14 febbraio 2013, n. 41869; Cass. pen., Sez. V, 21 giugno 2005, n. 832).

L'offensività del termine “clochard”: da spirito filosofico libero ad elemento pertubativo. La Suprema Corte affronta la questione principale oggetto del ricorso, relativa alla concreta portata offensiva dell'espressione “clochard” utilizzata dall'imputato per qualificare in via comparativa il “vestiario usato e le sembianze” della persona offesa, richiamando il parametro valutativo della continenza. Secondo l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, in tema di diffamazione, l'esimente del diritto di critica di cui all'art. 51 c.p. postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione. Non vieta, tuttavia, l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2020, n. 17243; Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2015, n. 31669; Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2016, n. 37397; Cass. pen., Sez. V, 29 novembre 2019, n. 15089).

Gli approdi granitici della giurisprudenza sul contenuto definitorio del requisito della continenza, quale parametro per il riconoscimento della scriminante del diritto di critica, finiscono per dissolversi nella applicazione pratica ai casi concreti, venendo in rilievo, nella legittima valutazione della portata offensiva delle espressioni, criteri interpretativi delle parole che si assumono lesive connessi alla evoluzione semantica delle stesse, al contesto socio-culturale e storico nel quale sono espresse ed, in ultima analisi, alla sensibilità sociale con la quale le stesse sono percepite.

Nel caso in esame, la Corte si interroga sul significato che il termine clochard ha assunto nel linguaggio sociale, premettendo come il riferimento a tale categoria non possa ritenersi in astratto offensivo.

Il termine, di origine francese, identifica la categoria con quella delle persone “senzatetto, senza casa o senza fissa dimora”, e viene ritenuta di significato equivalente, secondo l'uso comune, al sostantivo di lingua inglese ”homeless” e, in italiano, “barbone”.

Al di fuori di esemplificazioni traslative linguistiche di ardua condivisione, giova evidenziare che, secondo la rappresentazione classica della letteratura francese di Balzac, Hugo e Zola, il clochard è un personaggio che vive di espedienti, al limite delle convezioni sociali, con una naturale connotazione artistica, al confine tra il reale e il surreale. Si parla comunemente di “charme du clochard” come una ideale e contrastata pulsione verso la piena libertà dell'uomo da vincoli materiali (derivanti dalle dinamiche della proprietà e della moneta) e la repulsione della prospettiva di non possedere nulla.

La categoria, nella ricostruzione della letteratura, ha tratti distintivi positivi, esprime una pacatezza e saggezza d'animo, nonché simpatia per le soluzioni geniali nell'affrontare le difficoltà della vita ed al contempo nell'essere libero dagli schemi che questa ti impone nel vivere sociale.

Clochard è dunque una filosofia di vita che indica la povertà (economica e materiale) come sinonimo di ricchezza (spirituale e morale). Non rilevano i motivi che spingono a tale scelta di vita minimale (vivere in strada o dormire sotto un ponte), né necessariamente deve individuarsi in essa una interruzione della psiche.

Piuttosto, in tale habitus di vita si individua una volontà dell'individuo di rottura con il sistema sociale, una sorta di rottura della propria esistenza. In tale prospettiva il clochard è, dunque, la massima espressione della desocializzazione, la rappresentazione della perdita del senso di comunità sociale, la estrema difesa della libertà individuale verso le risorse di intelligenza organizzativa della collettività, che finisce per difendere gli interessi della parte prevalente e non di ognuno.

Deve evidenziarsi, tuttavia, che il tratto distintivo (negativo) della categoria, colto dalla Suprema Corte nella sentenza di commento, si sovrappone a quello romantico, come momento di esperienza perturbativa per il prossimo, in cui la visione della figura del clochard finisce per incarnare tutte le conseguenze materiali della perdita dello stile di vita quotidiano e rappresenta un momento irredimibile di caduta rispetto al quale ogni sforzo di ripresa appare vano, un effetto perverso del sistema capitalistico. Rispetto a tale figura il sentire sociale finisce per esprimere un sentimento di repulsione e rifiuto, anche nel solo gesto di porgere l'elemosina o di ricercare una giustificazione nelle storture del sistema capitalistico, ma il più delle volte una indifferenza emotiva. In ciò la ritenuta accezione negativa del termine.

Nel caso in esame, la Corte prende atto di tale significato degenere che la categoria ha assunto nel sentire sociale e nell'opinione comune, definito come “oggetto di gratuito e anacronistico disprezzo sociale, frutto di opzioni culturali di “aporofobia”, caratterizzate da odio, repulsione e, in molti casi, violenta ostilità di fronte ai soggetti che vivono in stato di indigenza”. Da tale sentire comune la Corte desume l'evidenza del tenore offensivo del termine utilizzato dall'imputato nella missiva, volto in modo univoco a disprezzare la persona offesa, per la gratuità del riferimento al suo abbigliamento (“vestiario”) e, soprattutto, alle sue "sembianze".

Pur se l'attribuzione della qualità di clochard a un soggetto non può definirsi offensiva in via astratta, la finalità dispregiativa e le modalità del tutto gratuite ed eccentriche del termine rispetto al contesto espressivo di riferimento, consente di configurare, secondo la Corte, il reato di diffamazione ed escludere l'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p.

Si osserva, in particolare, che la carica dispregiativa attribuita dall'imputato al termine clochard finisce per configurare anche l'elemento soggettivo della diffamazione, per la quale è sufficiente il dolo generico, anche in forma di dolo eventuale, implicando comunque l'uso consapevole, da parte dell'agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive (Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2013, n. 8419; Cass. pen., Sez. V, 12 dicembre 2012, n. 4364).

La disomogeneità delle concrete soluzioni applicative del requisito della continenza. Il richiamato principio consolidato che individua i parametri per il riconoscimento dell'esimente del diritto di critica nell'uso di una “forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione”, si incrina in relazione ai casi in cui questa ha concreta applicazione. Con il recente arresto di Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2020, n. 17243, si è affermato, ad esempio, che i toni e le parole, pur oggettivamente offensive, del giudizio critico possono integrare l'esimente di cui all'art. 51 c.p., rientrando nel perimetro della continenza, tenendo conto del “complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato”. Il caso di riferimento riguardava l'accusa di "assoluta incapacità ad organizzare il reparto" rivolta al direttore di un Pronto Soccorso da un consigliere del comitato consultivo di un'Azienda Ospedaliera che, nell'esercizio delle proprie funzioni di controllo dell'attività e dell'organizzazione aziendale, evidenziava reali disservizi organizzativi e sollecitava i dovuti controlli. La Corte ha ritenuto che le frasi utilizzate non esorbitano dai limiti della critica legittima, in quanto non rivelano un attacco alla persona o una finalità meramente denigratoria, ma una critica, sia pure aspra, alle capacità organizzative - ritenute insufficienti - del direttore del reparto ospedaliero.

In senso analogo, Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2016, n. 37397, ha collocato nel perimetro dell'esimente, in ragione della continenza, l'utilizzo del termine "puttaniere" in colloqui interni alla cerchia familiare, rivolto da una donna nei confronti del coniuge, ed in presenza del figlio e di altri familiari, dopo che la stessa ne aveva scoperto una convivenza "more uxorio". La Corte sottolinea che lo specifico contesto intrafamiliare in cui il termine viene utilizzato consente di individuare un significato di mero giudizio critico negativo, anche in ragione della comune accezione dello stesso, inteso nella lingua italiana “traslata” come sinonimo di "donnaiolo, playboy o uomo alla ricerca di avventure passeggere", per tale motivo del tutto compatibile con il requisito della continenza.

La Suprema Corte (Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2015, n. 31669), inoltre, ha affermato che il requisito della continenza è soddisfatto nel caso di uso di termini oggettivamente offensivi che siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti. Nella specie un privato, in una missiva inviata all'ente comunale, aveva stigmatizzato come "incompetente" un architetto per non aver saputo fornire una adeguata prestazione professionale. La Corte ha invitato il giudice di merito ad esaminare il campo, il tema, la cornice storica in cui è nato il conflitto ed hanno avuto origine le affermazioni critiche (motivi e contenuto dell'incarico conferito, modalità di esecuzione, esito favorevole o sfavorevole della committente) e, solo all'esito di tale analisi, eventualmente concludere se sia stata o meno impiegata una forma espositiva corretta, in relazione ad una carenza di capacità professionale di grave natura, alla quale sola va commisurata la portata dell'indispensabilità funzionale della critica così come formulata.

Gli arresti richiamati trovano un tratto comune nel riconoscimento diffuso del diritto di critica in ambiti associativi, quali le associazioni private, l'attività sindacale ed i partiti politici, il condominio, la famiglia ed anche i rapporti di stabile collaborazione professionale, che postulano situazioni di potenziale conflitto, in cui tende a legittimarsi l'asprezza dei toni e delle parole, in quanto strettamente funzionale al legittimo esercizio del diritto. In senso sostanzialmente analogo, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la Suprema Corte (Cass. pen., Sez. V, 27 giugno 2019, n. 39059) ha affermato che il criterio della continenza deve essere contestualizzato, potendo risultare sussistente anche nel caso in cui siano utilizzate espressioni che, per quanto più aggressive e disinvolte di quelle ammesse nel passato, risultino ormai accettate dalla maggioranza dei cittadini, per effetto del mutamento della sensibilità e della coscienza.

Nel contesto dialettico, la valutazione del requisito della continenza della condotta di diffamazione, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, postula la verifica delle parole e dei toni utilizzati dall'agente, pur aspri e forti. Essa deve tener conto altresì della pertinenza ai possibili temi oggetto di discussione, cui va parametrata la loro gratuità (Cass. pen., Sez. V, 18 novembre 2016 n. 4853), in relazione ad un "botta e risposta" giornalistico, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione; in senso conforme, Cass. pen., Sez. V, 23 agosto 2018, n. 32027, che, con riferimento alla interrogazione di un consigliere comunale rivolta al Presidente del consiglio comunale circa la situazione di incompatibilità in cui si ipotizzava versasse, richiama la necessità di toni non meramente gratuiti, ma, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprimere).

Tuttavia, come si rileva dalla soluzione offerta da Cass. pen.,Sez. V, 14 aprile 2015, n. 31669, la Suprema Corte, oltre a contestualizzare le espressioni oggettivamente offensive in cui si sostanzia la critica, non disdegna operazioni semantiche, di ricerca dell'attuale valore e significato del termine usato, del suo depotenziamento in relazione ai mutamenti della coscienza sociale, della sua intrinseca necessità ed aderenza alla censura rivolta verso la vittima del reato.

In tal senso, Cass. pen.,Sez. V, 29 novembre 2019, n. 15089, ha ritenuto scriminato l'utilizzo dell'epiteto "idiota” oggettivamente offensivo rivolto, in un post su Facebook, nei confronti di un poliziotto, pur non identificato nominativamente, che aveva sparato dei colpi di arma da fuoco in pieno centro cittadino per arrestare la fuga degli autori di un reato. La Corte evidenzia che, nel caso di specie, l'utilizzo del termine è giustificato dal fatto che lo stesso è insostituibile nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non ha adeguati equivalenti nell'esprimere l'intenzione dell'imputato di limitarsi a stigmatizzare l'uso eccessivo della forza, sproporzionato rispetto al reato e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si era svolto il fatto, formulando legittime riserve rispetto ad un episodio particolarmente eclatante, senza ovviamente entrare nel merito delle condotte degli operanti.

Osservazioni

Con la sentenza in commento la Corte, nell'escludere la continenza delle espressioni offensive, contestualizza l'epiteto “clochard” utilizzato nella missiva per stigmatizzare l'abbigliamento ed il modo di presentarsi del dipendente dell'azienda elettrica incaricato per il sopralluogo.

L'operazione interpretativa, che presuppone l'analisi storico-esegetica della categoria simbolica, muove su due diverse direttrici.

Da un lato, si desume la concreta e specifica lesività del termine, pur non offensivo in astratto, dall'accento negativo in cui lo stesso viene comunemente declinato, come sinonimo di “barbone” nella lingua italiana, trascurando forse di interrogarsi sul significato e sulle origini di tale categoria sociale, alla luce della sua rappresentazione positiva nella letteratura d'oltralpe, certamente lontana dalla semplificazione moderna dell'accezione negativa.

Dall'altro, svolge un'operazione di contestualizzazione della condotta di critica nell'ambito dei rapporti tra l'ufficio comunale e l'ENEL, non conflittuali sul piano dei rapporti istituzionali o commerciali, che fanno ritenere le espressioni offensive riferite al solo dipendente dell'azienda non strettamente funzionali alla finalità di disapprovazione critica dell'operato di questa. Si evidenzia, in tal senso, che nella specie l'agente ha utilizzato il suddetto termine solo per disprezzare la vittima, riferendo l'epiteto “clochard”, in modo gratuito, al suo abbigliamento e, addirittura, alle sue "sembianze".

Il recupero dell'offensività della condotta diffamatoria attraverso la contestualizzazione del termine, privo in sé di oggettiva carica lesiva dell'altrui dignità, ne evidenzia anche l'uso non pertinente – e, pertanto, gratuito - essendo esso rivolto al dipendente dell'azienda nell'ambito di un contrasto in essere tra questa e l'ente comunale che fruiva del servizio.

La carica dispregiativa del termine deriva, dunque, oltre che dal suo inserimento nel testo della missiva di doglianza, dal contesto istituzionale o commerciale in cui la missiva stessa è maturata, ritenuta sufficiente dalla Corte a configurare anche l'elemento soggettivo del reato ascritto, “sub specie” di dolo generico, consistente nell'uso consapevole, in forza di rappresentazione da parte dell'agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente (cfr. ex multis, la citata Cass. pen., Sez. V, 16 ottobre 2013, n. 8419).

Guida all'approfondimento

F. G. Capitani, Non è diffamatorio accusare di 'parzialità' l'esercente di pubbliche funzioni, in Diritto & Giustizia, fasc.20, 2016, pag. 11

M. Grande, Osservazioni, (Nota a sentenza Cass. pen., Sez. V, n. 32829 del 20 marzo 2019), in Cass. Pen. fasc.2, 2020, pag. 614

V. Marzucco, Gossip giuridico' ed esimenti: proscioglimento dall'accusa di diffamazione commessa durante un noto programma televisivo, in Diritto & Giustizia, fasc.136, 2019, pag. 7

V. Pezzella, La diffamazione, Torino, 2020

A. Trucano, Nota in tema di limiti del diritto di critica (nota a sentenza Cass. pen., Sez. 5, n. 37220 del 23 giugno 2010), in Giur. It., 2011, 8-9, 1888

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