Emergenza carceri: tra aumento dei contagi da Covid-19, lacune legislative, supplenze giudiziarie e questioni alla Consulta

18 Dicembre 2020

Continua l'emergenza legata all'esponenziale aumento dei contagi da Covid-19 all'interno delle carceri italiane. Ciò ha spinto il presidente di “Nessuno tocchi Caino”, e l'Osservatorio Carceri dell'UCPI, ad un incessante sciopero della fame (durato addirittura 35 giorni quello di Rita Bernardini) per richiamare l'attenzione sulla “doppia ansia del contagio”...
Abstract

Continua l'emergenza legata all'esponenziale aumento dei contagi da Covid-19 all'interno delle carceri italiane. Eppure non se ne parla. Silenzio assordante. Ciò ha spinto il presidente di “Nessuno tocchi Caino”, e l'Osservatorio Carceri dell'UCPI, ad un incessante sciopero della fame (durato addirittura 35 giorni quello di Rita Bernardini) per richiamare l'attenzione sulla “doppia ansia del contagio” dove, alla paura di rimanere contagiati dal Coronavirus, si unisce l'assenza di spazi detentivi e di strumenti per fronteggiare la pandemia negli istituti di pena.

Occorre un intervento incisivo per ridurre immediatamente la densità penitenziaria e non delle finte misure extramurarie, sbandierate dal legislatore, da ultimo dal d.l. n. 137 del 2020 (sulla falsariga di quelle previste, all'inizio della pandemia, dal d.l. Cura Italia n. 18 del 2020), più preoccupato invece ad evitare le scarcerazioni.

Il tutto mentre la giurisprudenza di sorveglianza, da un lato continua a chiamare in causa la Consulta, chiedendo di eliminare incongrui momenti di rigidità della pena (come il divieto di concessione di misure alternative in caso di loro pregressa revoca); dall'altro, assume un delicato ruolo di supplenza, facilitando l'accesso alla detenzione domiciliare per i detenuti "malati".

Numeri preoccupanti nelle carceri di positivi al Covid-19

Secondo gli ultimi dati generali, superati i mille contagi da covid-19 tra i detenuti. Come si evince dall'ultimo report settimanale (consultabile dal 22 novembre 2020 sul sito del Ministero della giustizia) pubblicato il 15 dicembre 2020, si contano come ‘positivi' 1030 detenuti (di cui 35 ricoverati in ospedale), 754 di agenti di polizia penitenziaria e 70 del personale amministrativo.

Se ci sono quasi 54.000 detenuti costretti a vivere in un sistema carcerario che ha circa 46.000 posti disponibili «senza essere dei ragionieri è ovvio che la falla nella diffusione dei contagi risieda nei numeri del sovraffollamento» (Giannetti-Manca, Il digiuno di Bernandini impone allo Stato di fare solo il proprio dovere, in Il Dubbio, 28 novembre 2020, p. 12).

È un problema diffuso, avendo il coronavirus da tempo oltrepassato le mura delle carceri, raggiungendo sezioni dove, come nel caso del 41-bis ord. pen. (come accaduto a Tolmezzo), le restrizioni sono massime e le possibilità di contatto ridotte al minimo.

Da più parti si è evidenziato il rischio che i penitenziari possano diventare delle ‘bombe sanitarie', per l'impossibilità di mantenere il distanziamento tra i detenuti, che vivono in celle dove talvolta non è loro garantito il minimo spazio vitale dei 3 mq, dormono vicinissimi (in letti a castello), ed in condizioni igienico-sanitarie spesso precarie.

I focolai in carcere ci sono ed è un errore sminuirne la portata, sventolando le esigenze di pubblica sicurezza (che spesso rimangono allo stato ipotetico).

Lo sbilanciamento delle istanze di sicurezza sociale a scapito del diritto alla salute del detenuto è reso manifesto dalle «timide manovre “chirurgiche” del d.l. Ristori in materia penitenziaria» (Manca-Minnella, Focus in questa Rivista, 6 novembre 2020) dove il legislatore si è più preoccupato di introdurre limitazioni all'esecuzione della pena presso il domicilio che ad agevolare la deflazione delle presenze carcerarie, riducendo la platea dei destinatari.

Il non corretto equilibrio tra due sottolineate esigenze è evidente in quanto il d.l. n. 137 del 2020 non solo ha lasciato la preclusione per gli autori dei reati previsti nell'art. 4-bis ord. pen. per la misura ex art. 1 della legge 199 del 2010, ma l'ha estesa (nell'esecuzione domiciliare ad hoc descritta dall'art. 30) anche in caso di cumulo con reati comuni, coniando la categoria dei detenuti ‘pericolosi per sempre': è sufficiente che nel loro percorso deviante abbiano commesso un solo reato ostativo (a cui sono ulteriormente aggiunti i delitti di maltrattamenti in famiglia e stalking) per precludere l'accesso alle misure ‘svuota carceri'.

Prove di un ‘nuovo' bilanciamento per fronteggiare l'emergenza coronavirus

Per disinnescare la bomba-carceri occorre ridurre immediatamente la popolazione penitenziaria. Tuttavia, «se non si mollano gli ormeggi della posizione securitaria e non si rallenta la presa delle ostatività, le esigenze emergenziali non troveranno la risposta che serve per uscire dal pericolo della pandemia» (ancora Giannetti-Manca, cit.).

Un serio tentativo di affrontare il pericolo della diffusione del Covid-19 all'interno delle prigioni italiane passa nel ridisegnare l'attuale assetto normativo sotteso al bilanciamento tra le esigenze di sicurezza pubblica legate alla tutela della collettività (pericolo di commissione di altri reati dal detenuto che esce dal carcere) e quelle legate al diritto di salute.

Quest'ultimo, sia nella sua declinazione ‘individuale' – salute del singolo detenuto e di tutti gli operatori penitenziari (diritto “fondamentale”, come dice l'art. 32 Cost.) seriamente messo in pericolo dal contagio da Coronavirus – sia quella legata alla salute ‘pubblica' e al rapido diffondersi del virus e alla sua fuoriuscita verso l'esterno: «si tratta di salvaguardare non soltanto la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari, ma quella dell'intera collettività: il virus, una volta entrato in carcere, non rimane dietro le sbarre, ma esce facilmente verso l'esterno» (Dolcini-Gatta, Carcere, Coronavirus, decreto ‘cura Italia': a mali estremi, timidi rimedi, in Sistema penale, 20 marzo 2020).

Primo passo per comporre un diverso equilibrio tra le due contrapposte esigenze passa (in tal senso spingono alcuni emendamenti al d.l.n. 137 del 2020):

1) dall'eliminare le preclusioni alla legge n. 199 del 2010, togliendo il divieto assoluto di concessione ai condannati per i delitti compresi nell'ombrello del 4-bis ord. pen., degradandolo per lo meno in divieto ‘relativo' di accesso all'esecuzione domiciliare (ponendosi in linea con le indicazioni della storica sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, che ha trasformato da assoluta a relativa la presunzione assoluta di pericolosità dei detenuti 4-bis);

2) dall'aumentare il tetto di pena residua (lasciato a 18 mesi) per accedere alle nuove ipotesi di esecuzione domiciliare previste prima dall'art. 123 d.l.n. 18/2020 - Cura Italia e ora dall'art. 30 d.l 137 Ristori-bis (una misura ‘specifica' dovrebbe cercare di ampliare il ventaglio applicativo e non restringerlo…);

3) riservare i pochi braccialetti elettronici rimasti ‘solo' ai detenuti 4-bisord. pen.(e non a quelli comuni, per i quali il braccialetto non è previsto nemmeno dalla ordinaria 199!), ai fini del tracciato nuovo equilibrio tra esigenza di sicurezza sociale e diritto di salute ai tempi del Covid-19.

Divieto triennale di concessione di concessione di misure alternative: il percorso di progressiva erosione di meccanismi presuntivi

Altro ostacolo all'accesso delle misure alternative, pure per residui di pena minimi (inferiori a sei mesi), di condannati per reati comuni è il divieto triennale di concessione di benefici penitenziari dal momento in cui è stato emesso il provvedimento di revoca di una misura alternativa alla detenzione (art. 58-quater ord. pen.). Appare evidente come dalla revoca si fa discendere l'operatività di meccanismi automaticamente preclusivi di qualsivoglia indagine avente ad oggetto la meritevolezza di una misura extramuraria, in violazione con l'art. 27 comma 3 Cost.

È noto l'ormai lungo e consolidato indirizzo giurisprudenziale volto ad erodere progressivamente tali automatismi. Percorso iniziato con la sentenza n. 436 del 1999 che dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 58-quater comma 2 ord. pen. nella parte in cui si riferisce ai minorenni. Proseguito nella sentenza manipolativa n. 189 del 2010 dove i giudici delle leggi ritennero di dare una lettera costituzionalmente orientata del divieto triennale di concessione di misure alternative al condannato riconosciuto colpevole di evasione.

Ad avviso della Consulta, deve escludersi l'ammissibilità, nel nostro ordinamento penitenziario, della prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati in quanto l'opzione repressiva non può “relegare nell'ombra” il profilo rieducativo e si impone al giudice la necessità di valutare, caso per caso, con motivazione approfondita e rigorosa, la personalità e le condotte concrete del condannato per il delitto ex art. 385 c.p.; in tale modo evitando che si determini la lesione di diritti inviolabili della persona, il trattamento uguale di situazioni diverse, la vanificazione della funzione rieducativa della pena e la compromissione degli interessi della famiglia e dei figli minorenni costituzionalmente garantiti.

In epoca più recente, si segnala la sentenza n. 149 del 2018 che ha censurato l'art. 58-quater ord. pen. in quanto è incostituzionale negare qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all'ergastolo per aver causato la morte del sequestrato a scopo di estorsione, terrorismo o eversione, prima che abbiano scontato 26 anni di detenzione. Per i giudici della Consulta, neppure l'esigenza di lanciare un fermo segnale di deterrenza alla generalità dei consociati può, nella fase esecutiva della pena, operare in chiave distonica rispetto alla funzione rieducativa della pena quale necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l'intero arco dell'espiazione della pena.

Altra importante tappa del percorso di eliminazione dei momenti di incongrua rigidità della pena previsti dall'art. 58-quater ord. pen. – ossia di tali automatismi che non tengono conto degli eventuali progressi trattamenti compiuti e il grado di rieducazione – è stato compiuto dalla sentenza n. 187 del 2019 nella quale la Corte costituzionale ha eliminato l'automatismo del divieto triennale di concessione di “tutte” le detenzioni domiciliari previste per i genitori di figli minori di anni dieci. Vale a dire di quelle previste:

1) dall'art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b) ord. pen. – introdotto dalla legge Simeone n. 165 del 1998 – il quale prevede che solo quanto la pena residua non supera i quattro anni possono accedere alla detenzione domiciliare: a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

2) dalla distinta misura della «detenzione domiciliare speciale», introdotta, con l'introduzione dell'art. 47-quinquies, dalla legge n. 40/2001 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), per il quale solo quando non ricorrono le condizioni di cui all'articolo 47-ter (quindi la pena residua supera i quattro anni) le condannate madri ovvero – in caso di decesso o impossibilità di questa, e non essendovi altro modo di provvedere all'assistenza della prole – il padre di prole di età inferiore a dieci anni, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli possono usufruire della forma speciale di detenzione domiciliare.

In quest'ultimo caso, sul piatto della bilancia degli interessi in gioco vi era anche quello del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, a cui il meccanismo preclusivo automatismo del 58-quater ord. pen. tracima i confini di costituzionalità, per recuperare i quali occorre ‘sostituirlo' con una valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza circa la ‘concreta gravità della condotta' che ne ha determinato la revoca della precedente misura.

Sollevata questione di legittimità costituzionale del divieto triennale di misure alternative in caso di revoca

Ponendosi nel solco di tale sentiero ermeneutico, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha sollevato, con ordinanza del 5 novembre 2020, questione di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, commi 1,2 e 3, ord. pen., laddove preclude l'accesso all'affidamento in prova per un arco temporale di tre anni da quando è intervenuta la revoca di una pregressa misura alternativa alla detenzione.

Il Giudice remittente (Dott. Fabio Gianfilippi) ci riprova: dopo essere stato il giudice a quo della storica sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale (proprio in materia di preclusioni assolute, addirittura nel perimetro dell'art. 4-bis ord. pen.) e della recente pronuncia n. 245 del 2020 (in cui sono state rigettati i dubbi di costituzionalità del d.l. n. 29 del 2020, convertito in L. n. 70 del 2020, sulle scarcerazioni per motivi di salute di alcune categorie di condannati legate anche al Covid-19: se vis, Minnella, Decreto ‘antiscarcerazioni': per la Consulta rispettati gli standard di tutela del diritto di salute e di difesa del detenuto, in questa Rivista, 25 novembre 2020) chiede alla Consulta di rimettere la norma censurata nei corretti binari della legalità costituzionale.

Si prende atto dell'impossibilità di fornire alla norma censurata una lettura costituzionalmente orientata in quanto il diritto vivente della pacifica giurisprudenza di legittimità considera il divieto triennale de quo non circoscritto al procedimento esecutivo nel cui ambito è intervenuto la revoca ma avente portata generale e da validità estesa anche ad altri e diversi procedimenti esecutivi.

Alla luce del descritto vissuto costituzionale e di quello volto a ritenere ‘eccezionalmente' ammissibili le presunzioni di pericolosità, purché non arbitrarie né irrazionali, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ritiene che il divieto triennale di concessione triennale di benefici penitenziari a seguito della revoca di una delle misure alternative alla detenzione previste dal comma 2 dell'art. 58-quater si appalesa privo delle caratteristiche di ragionevolezza, in contrasto con gli artt. 3 e 27 comma 3 Cost..

La fissità dell'effetto preclusivo che deriva dalla revoca – per il giudice remittente – non consente in alcun modo di graduare ragionevolmente le conseguenze del comportamento che ha condotto al provvedimento con il quale si è posta fine alla misura alternativa concessa. Il percorso rieducativo rimane ‘congelato' per tre anni dalla disposta revoca, senza che in sede successiva istanza possa operarsi alcun ragionamento sulla tipologia di condotta e sulla concreta gravità della stessa ai fini di pronosticare il rischio che si ripeta. Ciò anche se le condizioni che hanno originato la revoca sono mutate, all'esito di una ulteriore osservazione intramuraria che, medio tempore, potrebbe aver rimosso le ragioni o condizioni alla base della condotta violativa.

Arbitrario viene ritenuto dal giudice a quo il limite temporale di tre anni in cui la persona si considera socialmente pericolosa, precludendo l'accesso a benefici extramurari. La norma determina una irrimediabile compromissione della finalità rieducativa della pena, confinata alla sola possibile concessione della liberazione anticipata, che frustra l'osservazione intramuraria privandola di ogni concreta utilità alla costruzione di percorsi risocializzanti.

Dal divieto triennale ne deriva quindi un vulnus all'art. 27 comma 3 Cost. in quanto preclude al giudice della rieducazione l'evoluzione della personalità del condannato, a partire dal reato e dai suoi comportamenti nel corso dell'esecuzione penale, per leggerne e stimolarne i progressi verso il reinserimento sociale.

Il diverso bilanciamento con le esigenze di sicurezza pubblica tracciato dalla Corte costituzionale è teso alla progressiva eliminazione delle preclusioni, pur quando giustificate dall'obiettivo di mandare robusti “segnali di deterrenza”, che impediscono valutazioni di pericolosità in concreto, le uniche che possano giustificare degli arresti motivati, e sempre rivedibili, rispetto ai percorsi di reinserimento sociale che sostanziano la prospettiva costituzionale delle pene.

La scelta legislativa pecca poi di irragionevolezza – rilevabile sotto il parametro dell'art. 3 Cost. – con riferimento al ventaglio dei benefici preclusi (come già segnalato dalla n. 149/2018), così compromettendo la necessaria progressione trattamentale in grado di accompagnare ad un nuovo percorso verso l'esterno.

L'auspicabile accoglimento della questione di legittimità costituzionale consentirebbe di completare il descritto percorso di erosione di automatismi presuntivi, esaltando l'esecuzione della pena come strutturalmente flessibile, proporzionata e individualizzata.

Il ‘solito' ruolo di supplenza della Magistratura di sorveglianza

Nascosto dietro esigenze di sicurezza pubblica, il legislatore sembra purtroppo negare tale preziosa e ampia evoluzione giurisprudenziale, soprattutto di matrice costituzionale (cui si aggiunge quella della Corte EDU, in cui la sentenza Viola contro Italia n. 2 del 13 giugno 2019 si pone come antesignana dello scardinamento dell'endiadi ‘collaborazione=rieducazione', poi ripresa nella sentenza 253 del 2019 dalla Corte costituzionale), continuando – anche in quella delicata fase di emergenza sanitaria e di proliferazione dei contagi all'interno delle mura carcerarie – a non introdurre misure realmente ‘svuota carceri'.

Questo costringe, al solito, la magistratura di sorveglianza ad autentiche acrobazie interpretative per cercare di ridurre in fretta la popolazione carceraria.

Gli spazi di manovra più ampi per muoversi in tale direzione, per i giudici, si hanno per i detenuti con quadri clinici importanti, finora ritenuti, nei casi di specie, non superare la soglia di incompatibilità con lo status detentionis. È evidente infatti che il rischio concreto di contagio da Covid-19 può rappresentare per questi detenuti ‘malati' il ‘quid pluris' che fa superare tale soglia e configurare una grave infermità fisica ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p.

Si è così concessa la detenzione domiciliare umanitaria o in surroga «tenuto conto dell'attuale recrudescenza della situazione epidemiologica e del maggior rischio di contagio in ambiente carcerario per le condizioni di promiscuità in ambienti chiusi e ristretti, il complesso e serio quadro pluripatologico del […], suscettibile di evoluzione peggiorativa nell'eventualità di contagio da Covid-19 anche in relazione al dato anagrafico, unitamente alla valutazione della modesta pericolosità sociale di cui lo stesso pare portatore, legittimano la concessione del chiesto differimento dell'esecuzione della pena» (Trib. Sorv. Bologna, 5 novembre 2020, ordinanza n. 2020/4109).

Più difficile le speranze di apertura del carcere per i detenuti ‘sani', anche in considerazione delle forti limitazioni ad orizzonti trattamentali nell'ultimo anno a causa della pandemia. A meno di allargare le maglie in termini di valutazione di (ridotta) ‘pericolosità sociale' per poter accedere alla detenzione domiciliare ordinaria o alla 199.

Potrebbe essere il momento per rivedere i requisiti della ‘concretezza' e ‘attualità' della pericolosità sociale, laddove i giudici di sorveglianza vadano oltre lo routinarie informative; quest'ultime si risolvono spesso in duplicazioni del casellario giudiziale e dei carichi pendenti (e dei relativi giudizi ivi contenuti sul pericolo concreto di recidiva e di pericolo di fuga non più concreti e attuali).

Proprio in un caso che ha avuto risonanza mediatica (quello del detenuto nel carcere di Vicenza che aveva adito la Corte di Strasburgo con ricorso cautelare, presentato ai sensi dell'art. 39 del Regolamento della Corte europea, dove il rischio di contagio da COVID-19 – non fronteggiato attraverso l'accesso a una misura alternativa alla detenzione – si rappresentava quale elemento aggiuntivo alla configurazione della pena non contraria al senso di umanità, in violazione dell'art. 3 CEDU), il Tribunale dii sorveglianza di Venezia, con ordinanza del 29 aprile 2020, ha concesso la detenzione domiciliare, prendendo atto che «quella versata in atti era una semplice informativa in cui si limita ad elencare le pregresse condanne e, in considerazione di mancanze di iscrizioni relative all'apertura di nuovi procedimenti penali, non è corrispondente alla gravità di quanto segnalato; dall'altro, ritiene mancare l'attualità della pericolosità sociale in quanto risale al lontano 2010 la violazione della legge sugli stupefacenti e di modesta entità il precedente del 2014 di guida senza patente (come conferma pure la sua successiva depenalizzazione e degradamento in sanzione amministrativa). Sulla scorta di tali fatti storici non può dirsi, almeno allo stato, corroborato in termini concreti il pericolo sociale paventato dai Militari dell'arma, per l'effetto dell'espansione naturale della presunzione di non colpevolezza».

Questa dovrebbe essere ‘la regola' e non, come accede troppo spesso nella pratica, ‘l'eccezione'.

La rivalutazione della concretezza e attualità della pericolosità sociale del condannato, ai fini di una valutazione più approfondita dalla magistratura di sorveglianza, potrebbe consentire un ricorso più massiccio alla detenzione domiciliare e all'esecuzione domiciliare, di cruciale importanza in questa nuova ondata di contagi.

In conclusione

Difficile trovare un settore dell'ordinamento più ‘fluido' dell'ordinamento penitenziario. La punta dell'iceberg di tale sapere fluido è rappresentata dalla sentenza n. 32 del 2020 della Corte costituzionale – depositata pochi giorni prima che esplodesse l'emergenza sanitaria mondiale Coronavirus – che ha finalmente aderito alla tesi ‘sostanziale' delle norme che indicono sulla “qualità” della pena e trovano copertura costituzionale nel principio di legalità ex art. 25 comma 2 Cost.

Com'è stato ben rilevato, «il metodo trans-azionale – idoneo al superamento tradizionale del “bizantinismo” formale – si rivela quanto mai necessario anche perché per il giurista si deve confrontare con concetti e categorie solo in parte sovrapponibili a quelli classici, mentre la gran parte, ibridi e nuovi, innestati nel tessuto costituzionale quali parametri di valutazione della conformità delle norme alla Costituzione e alle fonti sovrannazionali (tanto da potersi parlare, giocando con i termini, di metodo trans-(n)azionale)» (Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari, Evoluzioni del “doppio binario” e prassi applicative, Giuffré, 2020, p. 3).

Non occorre un salto di qualità per far calare la curva epidemiologica all'interno delle carceri. Non occorre un cambio di mentalità per superare una malcelata visione carcero-centrica della pena. Basta prendere atto del quadro normativo vivente e della costante, recente e fluida evoluzione fornita da tutta la giurisprudenza, interna e sovrannazionale, che vede nella flessibilità dell'esecuzione penale, nel riconoscimento dei diritti fondamentali e della dignità umana dei detenuti, e nella legalità delle norme penitenziarie ‘sostanziali' le fondamenta su cui poggiare i pilastri della fase esecutiva della pena, anche, a fortiori, nella delicata emergenza sanitaria che stiamo vivendo.

Occorre che il legislatore (e parte della stessa magistratura di sorveglianza) se ne renda conto, e rimuova così le preclusioni normative (e i giudici rivedano le valutazioni sottostanti alla concretezza e attualità della pericolosità sociale) che limitano l'accesso dei detenuti ai domiciliari. Altrimenti – per dirla con le parole di Rita Bernardini – «il d.l. 137 procurerà solo il solletico al dramma dei contagi in cella» (Giannetti-Manca, cit.). Con il rischio concreto che le carceri esplodano (oltre che per il sovraffollamento anche) per il Covid-19.

Tra le iniziative concrete, oltre a numerosi emendamenti al d.l. ristori-bis, la Procura generale della Cassazione ha messo a punto un protocollo con le Regioni per garantire ad almeno mille detenuti un posto dove scontare la pena ai domiciliari, avendone il diritto.

Il procuratore generale della Cassazione ha infatti aperto un nuovo varco in collaborazione con ministero, Csm, magistrati di sorveglianza (competenti sull'esecuzione delle pene). Almeno duemila detenuti avrebbero diritto alla detenzione domiciliare, ma non possono esercitarlo perché privi di un «reale domicilio». Il che, scrive Salvi, oltre a «rappresentare un'inaccettabile discriminazione» su base economica e sociale, «comporta il paradosso che proprio i soggetti marginali e meno pericolosi vengono esclusi di fatto dai benefici» mentre il sistema carceri si preclude la possibilità di «consentire il distanziamento sociale senza che questo comporti la scarcerazione di persone maggiormente pericolose» (in La Stampa, 15 dicembre 2020).

Ora il raccordo tra Regioni, ministero e magistrati dovrebbe consentire di creare in tempi rapidi i primi mille posti (in opere pie, comunità, enti no profit) per altrettanti detenuti, con sostentamento e assistenza di base.

Si chiede a gran voce anche di reintrodurre la liberazione anticipata speciale, passando dagli attuali 45 giorni scontati ogni semestre a 75 giorni. Pende in Parlamento in tale direzione una proposta di legge alla Camera dei deputati n. 2650, presentata il 7 settembre 2020 dal deputato Giacchetti, che per un biennio dall'entrata in vigore della legge consente la detrazione di pena di 75 giorni; con la possibilità di concederla ‘integrativamente' ai detenuti che dal 1° gennaio 2020 hanno già usufruito della liberazione anticipata ordinaria. E nessuna limitazione è prevista per i condannati 4-bis.

Infine, per tutta la durata dell'emergenza, è necessario il blocco dell'esecutività delle sentenze passate in giudicato a meno che la Procura valuti che «il condannato possa mettere in pericolo la vita o l'incolumità delle persone».

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