Presunzione di innocenza e ragionevole durata del processo per il soggetto danneggiato tra spinte europee e (possibili) resistenze nazionali

Vincenzo Telaro
18 Dicembre 2020

La recente sentenza della Corte EDU, Pasquini c. San Marino emessa in ordine alla compatibilità dell'art. 196-bis c.p.p. della Repubblica di San Marino con il principio della presunzione di innocenza sancito all'art. 6, par. 2, CEDU, ha da subito fatto avanzare da alcuni problemi in merito alla compatibilità dell'art. 578 c.p.p. italiano, “gemello” dell'art. 196-bis cit., con il sistema CEDU...
Abstract

La recente sentenza della Corte EDU, Pasquini c. San Marinoemessain ordine alla compatibilità dell'art. 196-bis c.p.p. della Repubblica di San Marino con il principio della presunzione di innocenza sancito all'art. 6, par. 2, CEDU, ha da subito fatto avanzare da alcuni problemi in merito alla compatibilità dell'art. 578 c.p.p. italiano, “gemello” dell'art. 196-bis cit., con il sistema CEDU.

Il problema appare, tra l'altro, di particolare importanza perché, in seguito alla sentenza della Corte EDU, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p. per presunta violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, della Costituzione.

Obiettivo del lavoro è quello di evidenziare gli eventuali risvolti della sentenza CEDU nel caso Pasquini c. Italia nell'ordinamento italiano e di proporre le possibili soluzioni, anche al fine di meglio bilanciare le “spinte europee” e le “esigenze nazionali”.

Prescrizione penale e risarcimento della persona danneggiato dal reato: possibili risvolti nell'ordinamento italiano dopo la Corte EDU Pasquini c. San Marino

Nell'ordinamento italiano, come è noto, la parte civile costituita nel processo penale ha diritto a vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno derivante dal reato soltanto nel caso in cui il giudice di prime cure pronunci una sentenza di “condanna”, così come previsto dall'art. 538 c.p.p.

La ragione di tale disposizione, infatti, così come rilevato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 12/2016, è da rinvenire nella scelta del legislatore del codice del 1989 di basare il nuovo sistema processualpenalista sul principio della separazione delle giurisdizioni civili e penali, dimostrando un certo sfavore verso l'esercizio della azione civile in sede penale che viene ad assumere carattere meramente accessorio.

Il legislatore, infatti, con tale principio ha voluto evitare due problemi tra loro connessi: da un lato, che il processo civile venisse travolto dalle vicende del processo penale, ove, come è noto, non risulta sufficiente al fine di affermare la responsabilità penale dell'imputato la regola del “più probabile che non”, come avviene, invece, nel settore civile in tema di responsabilità aquiliana; dall'altro, che il giudice penale si concentrasse su aspetti non prettamente penalistici, con conseguente allungamento dei tempi del processo e a discapito delle ragioni di prevenzione generale e speciale fatte valere dallo Stato in tale sede.

Se il giudice penale di primo grado, dunque, allorché il danneggiato del reato eserciti l'azione civile nel processo penale, emani una sentenza di condanna, potrà anche esprimersi senza ulteriori dispendio di energie pure con riguardo agli effetti civili della sentenza; se, invece, decida di non condannare l'imputato per qualsiasi causa, anche a causa di intervenuta prescrizione, dovrà esimersi di decidere sulle conseguenze civile del fatto, non essendo la sede penale il luogo adatto nel quale continuare il processo al fine di verificare la sussistenza dei danni derivanti dal reato.

Il danneggiato del reato, dunque, in assenza di sentenza di condanna, dovrà a sua volta intentare una autonoma azione innanzi il giudice civile.

Diversa regola, tuttavia, il legislatore ha dettato all'art. 578 c.p.p. in caso di dichiarazione di prescrizione o di amnistia sopravvenute nel corso del processo di appello e che vanno a travolgere una pronuncia del giudice di primo grado di condanna penale che aveva anche statuito ai fini civili. In tale caso, infatti, il giudice d'appello potrà dichiarare estinto il reato e allo stesso tempo, però, pronunciarsi in ordine alla responsabilità civile dell'imputato già affermata in primo grado.

Per completezza espositiva, occorre osservare che, qualora le sopracitate cause di estinzione del reato intervengano, invece, in sede di legittimità, dopo una già pronunciata sentenza di condanna, la Corte di cassazione, non essendo un giudice di merito, se annullerà la sentenza ai fini civili, dovrà rinviare al giudice civile competente in grado di appello affinché questo si determini in ordine agli effetti civili, così come previsto all'art. 622 c.p.p.

La ragione dell'eccezione di cui all'art. 578 c.p.p. alla regola prevista dall'art. 538 c.p.p. è da ravvisare, in tale contesto, nel principio di economia processuale; in questi casi, infatti, la pronuncia di condanna ha accertato la piena responsabilità dell'imputato e non sono necessari ulteriori accertamenti da parte del giudice penale.

In tale modo, dunque, si permette al danneggiato di avere, da un lato, una ragionevole durata del processo e, dall'altro, una tutela effettiva del proprio diritto al risarcimento.

Le eccezioni, tuttavia, apparivano concedere in alcuni casi la possibilità di una motivazione del giudice di appello soltanto apparente nei confronti dell'imputato.

Caso tipico a tal riguardo, infatti, si poteva verificare allorché l'appellante avesse impugnato nel merito la sentenza contestando la propria responsabilità penale e il giudice, ferma restando la pronuncia di estinzione del reato, al fine di affermare la responsabilità civile, avesse motivato soltanto facendo un generico riferimento alle statuizioni del giudice di prime cure, senza esprimersi compiutamente in ordine alla responsabilità del reo.

Per evitare il problema di una motivazione soltanto apparente, dunque, la Corte di cassazione in tali casi (ex pluribus, Cass. pen., Sez. VI, n. 16155/2013; Cass. pen., Sez. V, n. 3869/2014; Cass. pen., Sez. V, n.10952/2013. Ma anche Cass. pen., Sez.Unite, n. 35490/2009; Cass. pen., Sez. Un., n. 40109/2013, in Cass. Pen., 14, 831, Musio) ha statuito che il giudice di secondo grado competente dovrà procedere a valutare la responsabilità dell'imputato ai soli fini civili motivando autonomamente alla luce delle doglianze appellate, ferma restando, in assenza dei presupposti di una sentenza assolutoria piena ex art. 129, comma 2, c.p.p., la pronuncia di intervenuta prescrizione o di amnistia.

Recentemente, tuttavia, ci si è posto il problema se il sistema di cui all'art. 578 c.p.p. risulti conforme ai dettami di cui all'art. 6, Diritto a un equo processo, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo adottata in seno al Consiglio di Europa a Roma il 04 novembre del 1950.

Il dubbio sorge, infatti, in seguito alla pronuncia Pasquini c. San Marino, 20 ottobre 2020, ricorso n. 23349/2017, dei Giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo, deputati a giudicare sui casi di presunti contrasti tra diritto nazionale e diritto convenzionale, in ordine alla compatibilità dell'art. 196-bis del codice di procedura penale della Repubblica di San Marino con l'art. 6, par. 2, CEDU.

L'art. 196-bis c.p.p. della Repubblica di San Marino, infatti, prevede un sistema simile a quello dettato dall'art. 578 c.p.p e, in aggiunta, la sopracitata pronuncia della Corte EDU è intervenuta in ordine a un caso riguardante un cittadino italiano; appare, pertanto, chiaro come gli effetti della sentenza della Corte EDU potranno ben presto avere degli effetti anche nell'ordinamento italiano.

Si noti, inoltre, che in merito risulta già pendente innanzi alla Corte costituzionale italiana la questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p., sollevata dalla Corte d'Appello di Lecce con ordinanza 06 novembre 2020, scaturita proprio in seguito alla pronuncia della Corte EDU Pasquini c. San Marino.

Il giudice a quo, nello specifico, ha assunto come parametri di costituzionalità, da un lato, l'art. 117, comma 1, Cost., con riferimento alle violazioni concernenti il diritto CEDU, e, dall'altro, l'art. 11 Cost., in relazione alle violazioni del diritto dell'Unione europea e, in particolare, dell'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000 in cui si afferma la presunzione di innocenza, che, per opera del disposto di cui all'art. 52 della medesima Carta, va interpretato allo stesso modo che in àmbito CEDU.

In tale sede, dunque, si cercherà di porre in luce gli eventuali conseguenze nell'ordinamento italiano della pronuncia dei giudici della Corte EDU, prospettando le possibili soluzioni al problema, al fine di meglio bilanciare le “esigenze nazionali” con le “spinte europee”.

Per meglio comprendere meglio la questione e verificare i possibili ed eventuali risvolti nell'ordinamento italiano, ci si soffermerà, in via preliminare, sul contenuto della sentenza e, dopodiché, sulle eventuali conseguenze e possibili soluzioni al problema.

La comprensione del problema: Corte EDU, Pasquini c. Italia

La questione ha avuto origine in relazione ad un procedimento penale instauratosi nella Repubblica di San Marino nei confronti di due soggetti per alcuni reati commessi nell'àmbito di operazioni finanziare sospette.

In particolare, ricostruendo brevemente la vicenda, gli imputati venivano in primo grado riconosciuti colpevoli dei reati a loro ascritti e condannati anche al risarcimento del danno della parte civile costituitasi.

La sentenza, tuttavia, veniva appellata dagli imputati e il giudice d'appello - dopo aver assolto gli stessi per alcuni capi di imputazione - procedeva a dichiarare l'estinzione degli altri reati per intervenuta prescrizione, ferma restando la condanna al risarcimento del danno della parte civile, così come previsto in tali casi dall'art. 196-bis del codice di procedura penale della Repubblica di San Marino.

Orbene, uno dei due imputati, cittadino italiano, in seguito, come abbiamo già detto, ha fatto ricorso alla Corte EDU contro la Repubblica di San Marino, sostenendo che il sistema delineato dall'art. 196-bis c.p.p. cit. pare risultare in contrasto con il principio della presunzione di innocenza di cui all'art. 6, par. 2, della CEDU, ai sensi del quale “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la legge non ne provi la colpevolezza”.

I giudici della Corte, preliminarmente, osservano che il principio di cui all'art. 6, par. 2, CEDU, riguarda due aspetti: da un lato, impone dei requisiti in ordine ad una rigida regolamentazione da parte degli Stati in tema di presunzioni legali e di fatto, di pubblicità del processo prima della condanna, di questioni inerenti il privilegio dell'autoincriminazione e di quelle riguardanti l'uso di espressioni premature da parte dell'autorità pubblica; dall'altro, si rende necessario proteggere le persone accusate di un reato e poi assolte o, comunque, per le quali il procedimento penale risulta interrotto per una causa diversa, affinché queste non siano trattate dalle autorità pubbliche come se fossero di fatto colpevoli.

I giudici di Strasburgo, inoltre, sottolineano che il ricorrente ha agito innanzi alla Corte EDU, perché, a suo avviso, una sentenza che dichiari il reato estinto per intervenuta prescrizione è da considerare di fatto come una sentenza di assoluzione nel merito.

Entrando, di seguito, nel merito della questione, i giudici di Strasburgo, richiamando precedente giurisprudenza della Corte e, in particolare, la sentenza Allen c. Regno Unito, G.C., 12 luglio 2013, ricorso n. 25424/2009 e Fleischner c. Germania, 03 ottobre 2019, ricorso n. 61985/2012, dichiarano che il principio di presunzione di innocenza impone che, dopo una sentenza di assoluzione, nessuna espressione con cui si afferma la responsabilità penale dell'imputato da parte delle autorità risulta ammissibile in altri procedimenti, neanche se in questa ci si riferisca al mero sospetto di colpevolezza.

Nei casi, invece, di interruzione del procedimento per cause diverse, occorre prestare attenzione al linguaggio adoperato in altri procedimenti - ad esempio in sede di risarcimento del danno della persona danneggiata dai fatti oggetto del procedimento penale - tenendo, tuttavia, conto del contesto in cui vengano espresse, purché da queste non emerga una affermazione della responsabilità penale nei confronti dell'imputato del precedente processo penale.

Nel caso oggetto di esame, dunque, ciò che rileva è la seconda situazione sopra prospettata, ossia quando il procedimento penale ha avuto termine per cause diverse dall'assoluzione con formula piena e in cui occorre bilanciare le esigenze di giustizia - ad esempio in ordine al risarcimento della persona danneggiata - con il principio di non colpevolezza dell'imputato, anche al fine di preservarne la reputazione.

I giudici della Corte, così, applicando le suesposte considerazioni al caso in esame, affermano nella sentenza che il giudice di appello aveva confermato la condanna al risarcimento del danno a favore del danneggiato, ancorché la dichiarazione di intervenuta prescrizione per i fatti reato contestati, facendo riferimento direttamente alla sentenza di primo grado, senza una autonoma di valutazione e dicendo che i fatti apparivano con certezza commessi con dolo.

Secondo i giudici, in tale caso, il giudice d'appello ha adoperato espressioni dalle quali si deduce la responsabilità penale dell'imputato, anche perché fa espresso riferimento a fatti commessi con dolo, e, pertanto, hanno ritenuto di accogliere con 5 voti su 6 le doglianze del ricorrente, considerato che quanto accaduto risulta in contrasto con l'art. 6, par. 2, CEDU.

Una sentenza rivoluzionaria?

Il problema paventato da alcuni in seguito alla sentenza della Corte EDU, Pasquini c. San Marino, come abbiamo già visto, è quello relativo ai possibili risvolti nell'ordinamento italiano che tale pronuncia potrà provocare.

Problema avanzato anche dal giudice a quo che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 538 c.p.p. in seguito alla sopracitata sentenza dei giudici di Strasburgo.

La questione può trovare soluzione, innanzitutto, interrogandosi sull'effettiva valenza della sentenza dei giudici di Strasburgo e verificando se trattasi di una pronuncia rivoluzionaria o se, invece, esaurisca i suoi effetti nell'àmbito del caso concreto da cui è scaturita.

Ad avviso di chi scrive, in realtà, la pronuncia sembra non avere nulla di rivoluzionario e pare esaurire i suoi effetti nell'àmbito del processo penale instaurato nei confronti del Sig. Pasquini nella Repubblica di San Marino.

Le ragioni della sopra esposta affermazioni trovano riscontro nelle motivazioni che si vanno qui di seguito ad esporre.

Nella sentenza in esame la Corte EDU, infatti, pur dichiarando che il principio della presunzione di innocenza di cui all'art. 6, par. 2, della CEDU può risultare violato allorché le autorità pubbliche, dopo l'interruzione del procedimento penale anche per cause diverse dall'assoluzione nel merito, continuino ad affermare nelle espressioni adoperate di fatto la colpevolezza dell'imputato, dichiarano pure che la questione non può trovare una soluzione generalizzata, ma va valutato il contesto del caso concreto al fine di verificare se le espressioni utilizzate violano la presunzione di innocenza.

In particolare, nel § 54 della sentenza, i giudici affermano a chiare lettere che nel valutare le espressioni adoperate occorre guardare al contesto in cui sono pronunciate e che queste, di per sé da sole, senza considerare ulteriori elementi, non possono essere sintomo della violazione della presunzione di innocenza di cui all'art. 6, par. 2, CEDU.

La Corte, dunque, nel pronunciare la violazione dell'art. 6, par. 2, CEDU nel caso Pasquini da parte della Repubblica di San Marino, ha ritenuto richiamare preliminarmente l'attenzione sulla circostanza che in questo specifico caso le espressioni adoperate dal giudice d'appello risultavano non conformi al principio della presunzione di innocenza. Di conseguenza, non ha affermato, invece, che una pronuncia del giudice penale d'appello comportante nel medesimo procedimento l'estinzione del reato per prescrizione e la condanna al risarcimento del danno a favore della parte civile costituitasi si ponga sempre e in ogni caso in contrasto col diritto CEDU.

La stessa Corte, nel § 52 della sentenza, tiene in considerazione i casi di pronunce di condanna al risarcimento del danno nei processi in cui è dichiarata la prescrizione del reato, affermando che in tali situazioni risultano ammissibili dichiarazioni di responsabilità ai fini civili, purché sia garantito il diritto di difesa dell'imputato e dalle espressioni adoperate non risulti con certezza affermata la responsabilità penale.

In tal senso la Corte, infatti, appare prendere atto del diverso regime probatorio richiesto ai fini dell'affermazione della responsabilità civile rispetto a quella penale, identificati rispettivamente nel “più probabile che non” e nella prova “dell'oltre ogni ragionevole dubbio”, cercando di bilanciare le esigenze di tutela dell'accusato con quelle del danneggiato dai fatti contestati nel processo penale.

Alla luce delle predette considerazioni, dunque, non si comprende come le statuizioni della Corte EDU nel caso in esame possano andare a creare dei problemi di compatibilità dell'ordinamento italiano con il sistema CEDU, tanto da indurre un giudice nazionale a sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p.

Non si comprende, infatti, come di per sé l'art. 578 c.p.p. risulti in contrasto in ogni caso con l'art. 6, par. 2 CEDU, tanto da dichiarare una volta per tutte l'art. 578 c.p.p. in contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., se gli stessi giudici di Strasburgo nella sentenza Pasquini c. San Marino evidenziano che occorre guardare, di volta in volta, al caso concreto.

Se dovesse, tuttavia, essere ritenuto corretto l'orientamento che ritiene la pronuncia della Corte EDU come una statuizione che avrà, con certezza, risvolti nell'ordinamento italiano e che comporterà dei problemi in ordine alla conformità dell'art. 578 c.p.p. al sistema CEDU, ci sembra di potere affermare che, in ogni caso, si possa evitare una pronuncia di legittimità costituzionale della disposizione procedurale.

In questo caso, infatti, al fine di superare l'eventuale contrasto, appare sufficiente comunque una interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 578 c.p.p. da parte del giudice ordinario nei singoli casi che si troverà a risolvere, senza che si renda necessaria una pronuncia definitiva di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale.

Il giudice ordinario, infatti, nei casi disciplinati dall'art. 578 c.p.p., dovrà soltanto tenere in debito conto che l'imputato non va più valutato con le regole di natura penale, ma con quelle meno rigorose e, ci si permetta il termine, meno “colpevolizzanti” del giudizio civile.

In altri termini, il giudice penale, assunte le vesti del giudice civile, dovrà valutare la responsabilità civile adoperando espressioni che si limitino a riscontrare, così come richiesto dall'art. 2043 c.c., la sussistenza di un danno, il nesso causale tra un fatto dell'(ex) imputato e il danno, l'elemento soggettivo doloso o colposo con cui è stato commesso il fatto, valutando il tutto secondo la regola del “più probabile che non”.

Sarebbe irragionevole, infatti, dopo una sentenza che accertato il reato in primo grado e che ha condannato l'imputato al risarcimento del danno a favore della parte civile costituita, rinviare in grado d'appello il danneggiato del reato innanzi al giudice civile al fine di fare pronunciare qualcosa che può benissimo, senza ulteriori dispendi di energie, fare il giudice penale, anche in un'ottica di economia processuale.

In tale caso, infatti, occorre tenere in debita considerazione la ratio dell'art. 578 c.p.p. in cui si cerca ragionevolmente di bilanciare la presunzione di non colpevolezza dell'imputato sancita all'art. 27 Cost. con i diritti del danneggiato dal fatto a una tutela effettiva di cui all'art. 24 Cost. e ad una ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost.

Lo stesso art. 6, par. 2, CEDU, tra l'altro, va bilanciato con i diritti ad una ragionevole durata del processo e ad una tutela giurisdizionale effettiva di cui ai parr. 2 e 3 del medesimo articolo.

Tale interpretazione convenzionalmente orientata inoltre, sarà a maggior ragione supportata nel caso in cui l'imputato, condannato in primo grado, appelli la sentenza per carenza di un vizio motivazionale in ordine alla sussistenza della responsabilità penale, ponendola in dubbio. In tale caso, infatti, così come affermato dalla Corte di cassazione, nelle pronunce già viste nel par. 1, il giudice d'appello potrà affermare la responsabilità civile, soltanto, ancorché l'intervenuta prescrizione del reato, abbia dimostrato la responsabilità dell'imputato con una autonoma motivazione alla luce delle doglianze prospettate nell'atto di appello.

Nel caso, invece, in cui l'imputato appellante non abbia messo in discussione la propria responsabilità penale, ma le sue doglianze riguardino motivi differenti, tenuto conto dell'aspetto devolutivo dell'appello nel sistema processualpenalista italiano, il giudice, dopo la pronuncia di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, potrà limitarsi a dichiarare la responsabilità civile facendo attenzione alle espressioni adoperate al fine di non indurre a pensare ad una colpevolezza penale in via di fatto e salvaguardando la reputazione dell'appellante. In tale caso, infatti, non vi è alcun dubbio in ordine alla commissione del fatto, nemmeno da parte dello stesso imputato (sic!).

Si tenga in considerazione, inoltre, che nel nostro ordinamento una pronuncia di intervenuta prescrizione non equivale affatto, almeno in ogni caso, ad una sentenza di assoluzione nel merito.

Ciò emerge pure dalla sentenza della Corte EDU in G.I.E.M. ed altri c. Italia, 28 giugno 2018, ricorsi nn. 1828/2006, 34167/2007, 19029/2011, emessa in conclusione alla querelle che ha riguardato la giurisprudenza CEDU e quella nazionale, anche costituzionale, in ordine alla possibilità di disporre la conquista urbanistica in caso di sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.

In tale sentenza, infatti, i giudici di Strasburgo hanno affermato che gli Stati possono applicare una sanzione amministrativa risultante sostanzialmente penale, valutata alla luce dei criteri elaborati nella nota sentenza Engel ed altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, ricorsi nn. 5100/71; 5101/71; 5102/71; 5354/72; 5370/72, non soltanto in caso di condanna formale, ma anche in caso di un accertamento sostanziale in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi del reato.

Di recente, a tal proposito, infatti, i giudici della Corte di Cassazione in una sentenza a Sezioni Unite, la n. 135139/2020, ha distinto i casi in cui è possibile applicare la confisca perché trattasi di una pronuncia di prescrizione intervenuta a reato già accertato e quelli in cui non è possibile procedere ai fini dell'applicazione della confisca, intesa come sanzione amministrativa sostanzialmente penale, perché la dichiarazione di intervenuta prescrizione si è resa necessaria in una fase del processo in cui concretamente non è maturato un accertamento degli elementi oggettivo e soggettivo del reato.

La ratio della prescrizione, infatti, non è quella di dichiarare l'innocenza del presunto reo, ma quella di riscontrare il venir meno delle esigenze di prevenzione generale e speciale del diritto penale nei confronti dell'imputato a causa del decorso di un lungo periodo di tempo.

Se, quindi, nel nostro ordinamento è permessa, già in primo grado e alla luce del diritto e della giurisprudenza europea, la condanna dell'imputato, il cui reato risulta prescritto, alla confisca amministrativa sostanzialmente costituente una pena di natura penale, senza che ciò vìoli il principio della presunzione di innocenza, a fortiori dovrà ammettersi in grado d'appello una pronuncia del giudice penale che affermi la mera responsabilità civile dell'autore del fatto ormai prescritto.

Anche alla luce delle predette considerazioni, una diversa impostazione della questione, apparirebbe fortemente sproporzionata, irragionevole e il tutto a discapito delle esigenze di tutela del danneggiato del fatto in relazione, soprattutto, al suo diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva e ad una ragionevole durata del processo.

Se, infine, anche tale interpretazione convenzionalmente orientata non dovesse convincere la giurisprudenza di Strasburgo e che, dunque, il contrasto parrebbe poter essere risolto soltanto con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p., sarebbe opportuno in tale caso che la Corte costituzionale facesse prevalere le esigenze nazionali su quelle europee.

La giurisprudenza CEDU, infatti, se letta in tale senso, ossia come pronuncia rivoluzionaria che non può essere accolta nell'ordinamento se non a mezzo di una pronuncia di illegittimità costituzionale di cui all'art. 578 c.p.p. - cosa che ci pare, tuttavia, come già detto, da escludere, alla luce delle suesposte considerazioni – sembrerebbe porsi in contrasto con i princìpi basilari sanciti nella Costituzione della Repubblica italiana del 1948.

Appare in violazione, infatti, sia del diritto del danneggiato dal fatto ad una tutela giurisdizionale effettiva di cui all'art. 24 Cost. sia del diritto ad una ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost.

In tale situazione, di conseguenza, la Corte costituzionale dovrebbe dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge di esecuzione e ratifica con cui si è data attuazione nel nostro ordinamento alla CEDU per violazione degli artt. 24 e 11 della Costituzione.

Si ricordi, per completezza espositiva, che a differenza di ciò che è previsto per il diritto dell'Unione europea che assume rango costituzionale nel nostro ordinamento ai sensi dell'art. 11 Cost. e che incontra soltanto i limiti dei princìpi fondamentali sanciti nella Costituzione (c.d. teoria dei controlimiti), la CEDU acquista, ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost., mero valore di parametro interposto tra la legge e la Costituzione e, risulta, quindi, sottoposta all'intero testo costituzionale.

In conclusione

Nel corso della trattazione si è visto che in seguito alla pronuncia della Corte EDU, Pasquini c. San Marino, si è posto il problema della compatibilità nell'ordinamento italiano dell'art. 578 c.p.p. con il diritto CEDU, in particolare con l'art. 6, par. 2, CEDU.

Si è avuto modo di appurare, tuttavia, nonostante sia stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p. per violazione del diritto europeo, che la pronuncia dei giudici di Strasburgo nel caso Pasquini c. San Marino sembra avere una mera valenza nell'àmbito del caso concretamente trattato in sentenza e che questa, ad avviso di chi scrive e per diverse motivazioni, anche alla luce delle stesse parole dei giudici, non possa avere conseguenze importanti nell'ordinamento nazionale.

Si è visto, inoltre, che in ogni caso, al fine di rispettare le statuizioni dei giudici della Corte EDU, sarebbe necessaria una interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 578 c.p.p. alla luce dell'art. 6, par. 2, CEDU.

In extrema ratio, infine, si osservato che se la pronuncia dovesse avere, a differenza di quanto al momento si è ritenuto di credere, nell'evolversi della giurisprudenza europea e nazionale quegli effetti dirompenti e di contrasto tra ordinamento nazionale ed europeo che troverebbero soluzione soltanto con una pronuncia di incostituzionalità dell'art. 578 c.p.p., ciò potrebbe comportare anche una dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge interna con cui si è data esecuzione e ratifica alla CEDU, perché il sistema risulterebbe in contrasto con diritti fondamentali sanciti nella Costituzione della Repubblica italiana.

In conclusione, tuttavia, ci sembra di potere affermare, per le ragioni ampiamente esposte nel par. 3, che la sentenza Pasquini c. Italia non comporterà alcun effetto dirompente nel sistema, salvo indurre i giudici penali nazionali a prestare maggiore attenzione alle espressioni adoperate in caso di affermazione della responsabilità civile pronunciata dopo la dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

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