Giudizio abbreviato e delitti puniti con l'ergastolo: un'idiosincrasia costituzionalmente legittima

21 Dicembre 2020

È costituzionalmente legittima, sotto il profilo della conformità agli artt. 2, 3, 24, 27, 111, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, la previsione dell'inammissibilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, prevista dall'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., inserito dall'art. 1, comma 1, lett. a), l. 12 aprile 2019, n. 33...
Massima

È costituzionalmente legittima, sotto il profilo della conformità agli artt. 2, 3, 24, 27, 111, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, la previsione dell'inammissibilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, prevista dall'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., inserito dall'art. 1, comma 1, lett. a), l. 12 aprile 2019, n. 33. È, altresì, costituzionalmente legittimo l'art. 5 della predetta legge, che limita l'applicazione della nuova preclusione ai fatti commessi successivamente al 20 aprile 2019, data di entrata in vigore della riforma.

I casi

Tizio, accusato del delitto di cui agli artt. 575, 576, comma 1, n. 1, c.p. in riferimento all'art. 61, n. 1, e 577, comma 2, c.p., per aver cagionato la morte della moglie, verificatasi il 28 maggio 2019, colpendola più volte con un coltello, il 20 marzo 2019, in occasione di un litigio insorto per il malfunzionamento di una caldaia, chiedeva, in sede di un udienza preliminare, di accedere al giudizio abbreviato. Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale della Spezia, ritenendo di non poter ammettere il rito richiesto stante la preclusione di cui all'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., sollevava questioni di legittimità costituzionale della predetta norma, con riferimento agli artt. 3 e 111, comma 2, Cost., nonché dell'art. 5 l. 12 aprile 2019, n. 33, con riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU.

Caio, rinviato a giudizio dinanzi alla Corte di assise di Napoli con decreto di giudizio immediato per il delitto di cui agli artt. 575 e 576, comma 1, n. 2, in relazione all'art. 61, n. 1 e 4, c.p., per aver cagionato a coltellate, il 26 aprile 2019, la morte del padre in seguito a un banale litigio per motivi lavorativi, reiterava l'istanza di ammissione al giudizio abbreviato già dichiarata inammissibile dal giudice per le indagini preliminari ai sensi dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p. La Corte, ritenendo di non poter ammettere il rito richiesto stante la preclusione di cui all'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., sollevava questione di legittimità costituzionale della predetta norma, con riferimento agli artt. 3, 24 anche in relazione agli artt. 2,3 e 27, nonché agli artt. 111, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU.

Sempronio, accusato del delitto di cui agli artt. 575 e 577, comma 1, n. 1, c.p., per aver cagionato, con l'uso di un coltello, la morte della moglie il 6 maggio 2019, chiedeva, in sede di udienza preliminare, di accedere al giudizio abbreviato. Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale Piacenza, ritenendo di non poter ammettere il rito richiesto stante la preclusione di cui all'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., sollevava questioni di legittimità costituzionale della predetta norma e dell'art. 3 l. 12 aprile 2019, n. 33, con riferimento agli artt. 3, 27, comma 2, e 111, comma 2, Cost.

La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, definendo i tre giudizi incidentali di legittimità di cui sopra, ha dichiarato: 1) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma1-bis, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111, comma 2, Cost., dal Tribunale della Spezia; 2) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 anche in relazione agli artt. 2,3 e 27, e 111, comma 1, Cost., dalla Corte di assise di Napoli; 3) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., nonché dell'art. 3 l. 33/2019, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, co. 2, e 111, co. 2, Cost., dal Tribunale di Piacenza; 4) manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., sollevata, in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, dalla Corte di assise di Napoli; 5) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 l. 33/2019, sollevata, in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, dal Tribunale della Spezia.

Le questioni

Le questioni rimesse alla Corte costituzione sono le seguenti:

è costituzionalmente legittimo il comma 1-bis dell'art. 438 c.p.p., inserito dall'art. 1, comma 1, lett. a), l. 12 aprile 2019, n. 33, nella parte in cui non consente l'accesso al giudizio abbreviato agli imputati accusati di aver commesso un delitto punito con la pena dell'ergastolo?

Inoltre, è costituzionalmente legittimo l'art. 3 della predetta legge, nella parte in cui prevede che la preclusione in esame si applichi ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge?

Le soluzioni giuridiche

Nel dichiarare inammissibili le questioni poste dal giudice spezino, la Corte ha fornito, innanzitutto, alcune precisazioni sulla disciplina temporale dettata dall'art. 5 della legge n. 33 del 2019, in base al quale la preclusione del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l'ergastolo si applica solo ai procedimenti concernenti fatti commessi dopo l'entrata in vigore della legge, avvenuta il 20 aprile 2019.

Nel caso di specie, l'imputato era accusato di aver accoltellato la moglie il 20 marzo 2019, mentre il decesso della stessa era sopraggiunto il 28 maggio 2019. Il Tribunale della Spezia, ritenendo che il tempus commissi delicti del fatto sottoposto alla sua cognizione dovesse identificarsi con il momento in cui si era verificato l'evento (la morte avvenuta il 28 maggio 2019) e non con il momento in cui era stata tenuta la condotta (accoltellamento avvenuto il 20 marzo 2019), come invece sostenuto dalle Sezioni Unite in tema di reati “a evento differito” (cfr. Cass. pen., Sez. Unite, 19 luglio 2018-, n. 40986, Rv. 273934), orientamento che il rimettente ha ritenuto non applicabile al caso di specie stante la natura processuale dell'istituto da applicare (il giudizio abbreviato), ha ritenuto rilevante stabilire la legittimità costituzionale della preclusione di cui all'art. 438, comma 1-bis, c.p.p.

La Consulta ha osservato che, dal punto di vista intertemporale, la l. 33/2019, anziché dare rilevanza al momento in cui viene richiesto l'accesso al rito abbreviato, come sarebbe stato naturale trattandosi di una legge processuale, la cui successione nel tempo dovrebbe essere regolata dal principio tempus regit actum, ha inteso derogare a tale principio generale, dettando una disciplina transitoria di carattere speciale, analoga a quella dettata per gli istituti di diritto penale sostanziale. Ad avviso della Corte, si tratta di una disciplina conforme alla ratio della riforma perché la preclusione introdotta, sebbene dettata in tema di rito abbreviato, ha un'immediata ricaduta sulla tipologia e sulla durata delle pene applicabili in caso di condanna, dato che, impedendo la celebrazione del giudizio abbreviato, impedisce anche che la pena detentiva perpetua possa essere sostituita con la reclusione di trent'anni (o, in caso di concorso di reati o di reato continuato, che all'ergastolo con isolamento diurno possa essere sostituito l'ergastolo). Stante l'accennato riflesso sostanziale della disciplina in esame, la riforma non può che soggiacere ai principi di garanzia che vigono in materia di diritto penale sostanziale, tra cui il divieto di applicare una pena più grave di quella prevista al momento del fatto, affermato tanto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con specifico riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato in relazione ai reati puniti con l'ergastolo (cfr. Corte EDU, Grande Camera, sent., 17 settembre 2009, n. 2, Scoppola c/o Italia), quanto dalla stessa Corte costituzionale, con riferimento a tutte le norme processuali o penitenziarie che incidono direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato (sentenza n. 32 del 2020).

Ciò detto, la Corte si concentra su cosa debba intendersi per fatto commesso ai sensi dell'art. 5 l. 33/2019 quando, come nel caso sottoposto al suo scrutinio, l'evento costitutivo del reato si sia verificato successivamente alla condotta. Ritenendo di condividere gli approdi ermeneutici raggiunti dalle Sezioni Unite, la Consulta osserva che ancorare l'applicazione della nuova disciplina al momento del compimento della condotta, e cioè al momento nel quale la norma esplica la sua capacità deterrente, assicura che il consociato sia destinatario di un chiaro avvertimento circa le possibili conseguenze penali della propria condotta, così da preservarlo da un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Detto diversamente, quando il consociato decide, ad esempio, di compiere un omicidio aggravato deve essere chiaramente consapevole, non solo che in caso di condanna gli potrà essere irrogata la pena massima prevista dall'ordinamento, ma anche che tale trattamento punitivo non potrà essere affievolito scegliendo di farsi giudicare sulla base degli atti contenuto nel fascicolo del Pubblico Ministero.

Dunque, il giudice spezino avrebbe dovuto ammettere il giudizio abbreviato richiesto dall'imputato essendo il fatto a lui contestato consumato prima dell'entrata in vigore della preclusione censurata.

Passando al merito delle censure, sia la Corte di assise di Napoli che il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Piacenza lamentano una violazione dell'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo: a) una irragionevolezza estrinseca (stesso trattamento per situazioni diverse), dovuta all'equiparazione sanzionatoria fra fatti aventi un diverso disvalore, in quanto nell'ambito degli omicidi aggravati puniti con l'ergastolo rientrano fattispecie dal disvalore assai eterogeneo (i giudici rimettenti pongono a confronto gli omicidi maturati nell'ambito di grandi organizzazioni criminali con quelli commessi contro congiunti in un momentaneo accesso d'ira, fra i quali rientrano quelli posti alla loro attenzione) e ciò renderebbe irragionevole l'esclusione a priori della possibilità di accedere al giudizio abbreviato per i relativi imputati; b) una irragionevolezza intrinseca (diverso trattamento per situazioni equiparabili) dovuta alla differenziazione sanzionatoria fra omicidio del coniuge anche legalmente separato, punito con l'ergastolo (artt. 575 e 577, comma 1, c.p.) e dunque sottratto al giudizio abbreviato e omicidio del coniuge divorziato, punito con la reclusione da ventiquattro a trent'anni (artt. 575 e 577, comma2, c.p.) e dunque giudicabile con il rito contratto.

Sul punto la Corte costituzionale osserva che le irragionevoli equiparazioni e differenziazioni sanzionatorie evidenziate dai giudici rimettenti non derivano dalla disciplina censurata ma dalla disciplina sostanziale, di cui quella sottoposta al suo vaglio costituisce solo un riflesso processuale. Detto diversamente, la possibilità o meno di accedere al rito abbreviato nei reati presi in esame dai giudici a quibus non dipende dalla scelta, a valle, del legislatore processuale di precludere il giudizio abbreviato agli imputati di reati puniti con l'ergastolo ma dalla scelta, a monte, del legislatore sostanziale di comminare la pena dell'ergastolo per alcune ipotesi piuttosto che per altre. Dunque, conclude la Corte, «le questioni di legittimità costituzionale avrebbero dovuto rivolgersi propriamente nei confronti della previsione, da parte del legislatore, della pena detentiva perpetua per i reati contestati nei procedimenti a quibus – l'omicidio a danno dell'ascendente, in un caso, e l'omicidio del coniuge non divorziato, nell'altro –, giacché è proprio da tale previsione che deriva l'asserita diseguaglianza di trattamento sanzionatorio rispetto a fatti che si assumono più gravi (come, per riprendere un esempio formulato nelle ordinanze di rimessione, un omicidio perpetrato nell'ambito delle attività di un'organizzazione criminale)».

Rispetto alla normativa processuale ciò che può essere sindacata è la ragionevolezza di una disciplina che precluda, in via generale, l'accesso al giudizio abbreviato a tutti, indistintamente, gli imputati di reati punibili con la medesima pena dell'ergastolo.

Sul punto, però, la Corte non ravvisa profili di incostituzionalità giacché la previsione della pena edittale dell'ergastolo, qualitativamente diversa rispetto a quella della reclusione, è frutto di un giudizio di speciale disvalore del reato che rientra nella valutazione discrezionale del legislatore e che non è stato fatto oggetto di censure; ed è proprio tale speciale disvalore che sta alla base della scelta del legislatore del 2019 di precludere l'accesso al giudizio abbreviato a tutti gli imputati di tali delitti. Del resto, la Corte ha sempre escluso l'illegittimità costituzionale delle preclusioni di natura oggettiva, fondate sul titolo astratto del reato, poste dal legislatore all'accesso ad altri riti speciali ad effetto premiale (si pensi, ad esempio, al c.d. patteggiamento allargato).

Va detto che i rimettenti avevano ritenuto sussistente una disparità di trattamento anche sotto un diverso profilo, più strettamente attinente al meccanismo processuale congeniato dal riformatore. Poiché il comma 6-ter dell'art. 438 c.p.p. consente il recupero, all'esito del giudizio ordinario, della diminuzione di pena conseguente al giudizio abbreviato nel caso in cui la circostanza aggravante che determina l'astratta applicabilità dell'ergastolo sia stata ritenuta insussistente, la disposizione censurata creerebbe una irragionevole disparità di trattamento rispetto a quegli imputati nei cui confronti la circostanza aggravante venga ritenuta sussistente ma “elisa”, ai fini sanzionatori, nel giudizio di bilanciamento con una o più circostanze attenuanti, casi nei quali il predetto meccanismo recuperatorio non può operare.

Sul punto i giudici costituzionali osservano che, quando che la legge penale, sostanziale o processuale, subordina l'applicazione di un dato istituto alla condizione che sia prevista una determinata pena massima per il reato per cui si procede, ai fini della determinazione di tale pena massima, in base alla regola generale di cui all'art. 4 c.p.p., si tiene conto delle sole circostanze aggravanti a effetto speciale, ma non delle circostanze attenuanti che possano eventualmente concorrere nel caso concreto; né tantomeno è consentito all'autorità giudiziaria di effettuare il giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. tra le predette circostanze, comparazione che è riserva esclusivamente alla quantificazione della pena all'esito del giudizio.

La regola in esame si fonda sulla considerazione che la sussistenza di una circostanza aggravante che comporta la previsione di una pena di specie diversa da quella prevista per la fattispecie base esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore rispetto a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, all'esito del giudizio, nel caso di condanna, dovrà quantificare la pena.

Dunque, l'art. 438, comma 6-bis, c.p.p., che si conforma alla disciplina generale di cui sopra, non produce alcuna disparità di trattamento. Le due situazioni poste in comparazione dai rimettenti sono diverse, di talché la relativa disparità di trattamento è giustificata. Infatti, chi ha compiuto un omicidio aggravato punibile con l'ergastolo ha commesso un fatto più grave di chi ha compiuto un omicidio non aggravato, anche se, in presenza di circostanze attenuanti ritenute equivalenti o prevalenti rispetto all'aggravante, dovesse subire un trattamento punitivo meno grave. Solo il primo imputato, infatti, è accusato di avere posto in essere un reato che raggiunge la soglia di gravità che il legislatore considera astrattamente incompatibile con il giudizio abbreviato. Di talché appare logico che soltanto laddove, in esito al dibattimento, risulti in concreto non sussistente quell'aggravante, la cui inesatta contestazione abbia precluso all'imputato l'accesso al giudizio abbreviato, egli debba poter “recuperare” lo sconto di pena connesso al rito medesimo; e che tale “recupero” non possa operare, invece, nei confronti di chi risulti effettivamente avere compiuto l'omicidio aggravato che gli era stato contestato, sia pure in presenza di circostanze attenuanti, che ben potranno essere valorizzate dal giudice del dibattimento in sede di commisurazione della pena.

Venendo alle censure “minori”, la Corte ritiene che rientri nel novero delle scelte discrezionali del legislatore la scelta di imporre un dibattimento pubblico davanti ad una corte a composizione mista (giudici togati e giudici popolari) per i reati astrattamente più gravi previsti dall'ordinamento, persino nei casi di fatti pienamente accertati commessi da soggetti che abbiano reso piena confessione (tale condotta potrà essere valorizzata sotto il profilo sanzionatorio, ad esempio riconoscendo la sussistenza di circostanze attenuanti generiche).

Sotto il profilo del diritto costituzionale di difesa, la Corte ritiene che dall'art. 24 Cost. non possa dedursi il diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall'ordinamento processuale penale, in quanto l'accesso ai riti alternativi costituisce parte integrante del diritto di difesa soltanto in quanto il legislatore abbia previsto la loro esperibilità in presenza di certe condizioni.

Sotto il profilo della pubblicità delle udienze, che ad avviso del giudice rimettente violerebbe il diritto di difesa inteso come diritto alla dignità e alla riservatezza dell'imputato, la Corte osserva che la pubblicità delle udienze non è concepita dalle carte internazionali dei diritti alle quali il nostro ordinamento è vincolato unicamente come una garanzia soggettiva dell'imputato, come tale disponibile, ma costituisce altresì un connotato identitario dello stato di diritto, in quanto un processo che si svolge sotto il controllo dell'opinione pubblica è un processo giusto (art. 111, comma 1, Cost.) nel quale la giustizia è amministrata in nome del popolo (art. 101, comma 1, Cost.). E ciò, aggiunge la Corte, è particolarmente rilevante quando il processo ha ad oggetto l'accertamento dei reati più gravi, che maggiormente colpiscono l'ordinata convivenza civile e addirittura ledono il nucleo dei diritti fondamentali delle vittime, a cominciare dalla loro stessa vita. «Di talché il mero consenso dell'imputato non basta a fondare un suo diritto costituzionale – opposto, e anzi speculare, al suo diritto alla pubblicità delle udienze – alla celebrazione di un processo “a porte chiuse”, al riparo del controllo dell'opinione pubblica».

Suggestiva ma infondata è anche l'idea che la preclusione del giudizio abbreviato discenda da una mera valutazione del pubblico ministero, destinata a privare irrimediabilmente l'imputato – pur ancora presunto innocente – della possibilità di accesso al rito alternativo e al relativo sconto di pena nel caso, futuro ed eventuale, di una sua condanna.

Tale censura non considera che il meccanismo processuale congeniato dal legislatore del 2019 prevede sia un vaglio preventivo sull'imputazione formulata dal pubblico ministero da parte del giudice dell'udienza preliminare, sia il “recupero” in sede dibattimentale della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato.

Proprio per evitare che l'imputato rimanga definitivamente privato della possibilità di definire la propria posizione processuale allo stato degli atti a seguito di una scelta unilaterale del Pubblico Ministero, che per avventura potrebbe formulare una imputazione (giuridicamente) azzardata proprio a tale scopo, la novella prevede che, in caso di dichiarazione di inammissibilità del rito ai sensi dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., la richiesta possa essere riproposta fino a che non siano formulate le conclusioni (art. 438, co. 6, c.p.p.)

Qualora il giudice dell'udienza preliminare, nel disporre il rinvio a giudizio, dia al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio e tale da rendere ammissibile il giudizio abbreviato, deve inserire nel decreto di cui all'art. 429 c.p.p. l'avviso che l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato entro quindici giorni dalla lettura del provvedimento o dalla sua notificazione. Viene così recuperato il rito premiale attraverso un meccanismo analogo a quello previsto per la conversione del giudizio immediato, di cui si richiama la relativa disciplina (art. 429, comma 2-bis, c.p.p.). Dunque, l'eventuale rito abbreviato richiesto si svolgerà in camera di consiglio dinanzi allo stesso giudice dell'udienza preliminare. Naturalmente, il meccanismo delineato presuppone che l'imputato non abbia richiesto (ed eventualmente riproposto) il giudizio abbreviato nel corso dell'udienza preliminare perché in tal caso il giudice, se accoglie l'istanza, può procedere direttamente alla celebrazione del rito.

Nei casi in cui il giudice dell'udienza preliminare abbia dichiarato inammissibile la richiesta di giudizio abbreviato avente ad oggetto un reato punito con l'ergastolo e abbia disposto il rinvio a giudizio mantenendo ferma l'imputazione originaria, al giudice del dibattimento è attribuito il potere-dovere di rivalutare tale decisione. Se all'esito del dibattimento, considerati complessivamente gli esiti dell'istruzione probatoria, ritenga di riqualificare il fatto in una fattispecie per la quale non è prevista la pena dell'ergastolo, dovrà operare sulla pena irrogata la riduzione di un terzo prevista dall'art. 442, comma 2, c.p.p. (art. 438, comma 6-ter, c.p.).

La preclusione all'accesso al giudizio abbreviato dipende, dunque, soltanto nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull'oggetto della contestazione; ma tale valutazione è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo; senza alcuna violazione, dunque, della presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma 2, Cost.

Per quanto riguarda, infine, la conformità della nuova disciplina al principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111, comma 2, Cost., la Consulta osserva che l'inevitabile dilatazione dei tempi processuali conseguente alla necessità di celebrare un processo pubblico dinanzi alla Corte di assise per tutti i reati astrattamente puniti con l'ergastolo va bilanciata con l'esigenza, altrettanto rilevante, che rispetto ai reati più gravi previsti dall'ordinamento sia celebrato un processo con la piena garanzia, sia per l'imputato che per le vittime, di partecipare all'accertamento della verità. Detto diversamente, il sindacato di ragionevolezza della durata del processo va condotto tenendo conto della complessità e gravità dei fatti da accertare e dei livelli di tutela da accordare ai diritti fondamentali (non soltanto dell'imputato) coinvolti nel giudizio.

Osservazioni

Concentrando l'attenzione sul nucleo essenziale delle critiche rivolte alla riforma, va detto che la Consulta, con decisione pienamente condivisibile, ha dato continuità al proprio orientamento in merito alla ragionevolezza della scelta di precludere il giudizio abbreviato agli imputati di delitti puniti con l'ergastolo. Va, infatti, rammentato che la preclusione in esame già esisteva nel nostro ordinamento come conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, per eccesso di delega, dell'art. 442, comma2, c.p.p., nella parte in cui prevedeva che, in caso di condanna all'esito del giudizio abbreviato, la pena dell'ergastolo fosse sostituita quella della reclusione di anni trenta (sentenza n. 171 del 1990). Valutando la tenuta costituzionale dell'assento normativo venutosi a creare a seguito di tale pronuncia, la Corte dichiarò manifestamente inammissibili le questioni osservando che «non è in sé irragionevole, né l'esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l'ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee» (ordinanza n. 163 del 1992).

In successive pronunce, la Corte ha escluso, più in generale, l'illegittimità costituzionale delle preclusioni di natura oggettiva, fondate sul titolo astratto del reato, poste dal legislatore all'accesso ad altri riti speciali ad effetto premiale. In particolare, con l'ordinanza n. 455 del 2006 ha affermato, con riferimento alla legittimità costituzionale delle preclusioni al cosiddetto patteggiamento allargato, che «l'individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare al trattamento più rigoroso – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all'allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale – resta affidata alla discrezionalità del legislatore; e le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione».

Nelle numerose e sfaccettate critiche sollevate dai giudici rimettenti emerge in controluce una trama comune di avversione verso la pena dell'ergastolo. Tuttavia, rispetto alla tematica della compatibilità costituzionale di una pena detentiva perpetua le questioni sollevate sono fuori asse perché avrebbero dovuto colpire le scelte sanzionatorie del legislatore e non i riflessi processuali in tema di rito che ne derivano.

Ciò detto, il commento alla sentenza della Consulta ci fornisce l'occasione per porre sul tappeto, in ordine sparso e senza alcuna pretesa di completezza, alcune problematiche suscitate dalla riforma del 2019.

Un primo interrogativo nasce dall'articolata disciplina ordita per garantire all'imputato la riduzione di pena quando si accerti che l'accesso al rito gli è stato sbarrato da una imputazione erronea. Si vuole allude alla possibilità di riproporre la domanda di accesso al rito all'esito dell'udienza preliminare (art. 438, comma 6, c.p.p.) o di scegliere il rito dopo la notificazione del decreto che dispone il giudizio con imputazione novellata (art. 429, comma 2-bis, c.p.p.) o, ancora, di ottenere la riduzione premiale all'esito del dibattimento che abbia accertato l'errore di imputazione (art. 438, comma 6-ter, c.p.p.). Ecco, una disciplina così dettagliata sembra escludere la possibilità che il giudice possa svolgere un sindacato preliminare sull'imputazione al solo fine di stabile se accogliere la richiesta di accesso al rito (salvo, si intende, quello espressamente consentito dal comma sesto dell'art. 438 c.p.p. all'esito dell'udienza preliminare, in caso di reiterazione della richiesta). In tal senso depone il chiaro tenore letterale della norma, ma anche l'analisi dei lavori parlamentari, che danno atto della bocciatura di proposte volte ad introdurre la possibilità di avanzare richiesta di accesso al rito contratto subordinate ad una diversa qualificazione del atto.

Altri dubbi suscita la disciplina dell'uscita dal rito. Il nuovo comma 1-bis dell'art. 441-bis c.p. prevede la revoca, anche d'ufficio, dell'ordinanza ammissiva del rito, con contestuale fissazione dell'udienza preliminare o della sua eventuale prosecuzione, se il Pubblico Ministero modifica l'imputazione in modo ostativo. Il meccanismo in esame richiede che si proceda con rito abbreviato condizionato e che il Pubblico Ministero effettui ad una contestazione suppletiva, limitatamente ai fatti emergenti dagli esiti istruttori ed entro i limiti previsti dall'art. 423 c.p.p., come chiarito dalla Suprema Corte (cfr. Cass. pen., Sez. un., 18 aprile 2019, n. 5788, Rv. 277706). Ma allora, quid iuris se la preclusione deriva da una mera riqualificazione del fatto storico descritto in imputazione, consentita al Pubblico Ministero, a differenza degli interventi di modifica, anche nel corso del giudizio abbreviato non subordinato ad integrazione probatoria (cfr. Cass. pen., sez. II, 17 luglio 2019, n. 44574, Rv. 277761), ma possibile anche da parte del giudice all'esito del giudizio? Si tratta di interrogativi che si ripropongono anche per il giudizio di appello e di cassazione e che costituiscono un riflesso della mancata meditazione da parte del legislatore sui delicati rapporti fra i mutamenti, in fatto o in diritto, che l'imputazione può subire nell'arco dell'intero procedimento e i meccanismi di adeguamento processuale in punto di accesso o uscita dal rito contratto.

Infine, non può non rilevarsi l'assenza di una disciplina ad hoc per i riti abbreviati c.d. atipici, in particolare quello richiesto a seguito della notificazione del decreto di giudizio immediato (modulo procedimentale assai frequente per i delitti più gravi). Respinta l'dea, francamente assurda, che l'inserimento della preclusione nel corpo dell'art. 438 c.p.p. implichi, a contrario, l'ammissibilità del rito quando la richiesta venga avanzata al giudice per le indagini preliminari a seguito della notificazione del decreto che dispone il giudizio immediato, non resta che ritenere che l'imputato debba avanzare tempestivamente una richiesta di conversione del giudizio immediato in giudizio abbreviato destinata ad essere dichiarata inammissibile, al fine di poter eventualmente recuperare lo sconto di pena davanti al giudice dibattimentale secondo il meccanismo di cui all'art. 438, comma 6-ter, c.p., da applicarsi analogicamente.

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