La titolarità del diritto di credito derivante dalla prestazione lavorativa nelle associazioni tra professionisti

22 Dicembre 2020

La Corte di cassazione, nella sentenza in commento, ha stabilito i requisiti affinché un'associazione tra professionisti possa ottenere la titolarità dei diritti di credito derivanti dall'attività professionale svolta dai singoli aderenti.
Massima

Il cliente che conferisce l'incarico ad un legale, membro di uno studio associato, è tenuto a versare l'onorario al professionista e non allo studio di cui quest' ultimo fa parte, data la natura personale dell'attività oggetto del mandato professionale, a meno che l'associazione sia regolata da appositi accordi, che possono attribuire a quest'ultima la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità dei rapporti. Il giudice di merito deve accertare tale circostanza scrutinando lo statuto dell'associazione tra professionisti.

Il caso

La questione affrontata dalla II sezione civile della Corte di cassazione nella sentenza in commento riguarda la titolarità dei compensi spettanti agli avvocati facenti parte di un'associazione di professionisti. Specificatamente, il legale rappresentante di un'associazione professionale conveniva in giudizio l'amministratore di sostegno di una cliente dello studio associato, in favore della quale alcuni degli avvocati allo stesso aderenti avevano prestato la loro attività professionale. Intervenuto il decesso della cliente, il processo proseguiva nei confronti del di lei legittimo erede, cioè il figlio. Sia il giudice di prime cure, che la Corte d'appello territorialmente competente, rigettavano le domande di parte attrice/appellante, rilevando come lo studio associato non fosse legittimato a pretendere il pagamento dei compensi derivanti dall'attività difensiva svolta in proprio dagli associati, posto che non emergeva alcun elemento a sostengo del fatto che l'incarico fosse stato conferito ad un'associazione di professionisti. Vieppiù, tale aspetto non era stato dedotto in giudizio, poiché l'attrice/appellante non aveva chiarito i termini di regolamentazione interna dei rapporti tra i vari professionisti associati e l'associazione medesima, di tal che si evidenziava l'irrilevanza della circostanza che il mandato fosse stato conferito dalla cliente a professionisti facenti parte del medesimo studio professionale.

La questione

La questione giuridica principale oggetto del giudizio in esame è rappresentata dalla legittimazione o meno dell'associazione tra professionisti a pretendere il pagamento dei compensi per l'attività esercitata dagli esperti che ne facciano parte. Con il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, la ricorrente deduceva altresì, rispettivamente, la violazione della normativa sull'amministrazione di sostegno relativamente all'assunzione di debiti da parte dell'amministrata; la violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto il giudice d'appello non avrebbe statuito interamente sulla domanda di condanna indirizzata a tutti i convenuti; la violazione dell'art. 91 c.p.c., poiché il giudice del gravame avrebbe erroneamente condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata.

Le soluzioni giuridiche

Risolta, in via preliminare, la questione relativa al ricorso presentato in proprio dal legale rappresentante, ritenuto inammissibile poiché lo stesso non aveva personalmente preso parte alle precedenti fasi del giudizio - stante che per costante orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., n. 520/2012) la legittimazione a ricorrere per cassazione spetta soltanto alle parti che abbiano assunto tale veste nelle precedenti fasi del giudizio -, i Supremi Giudici analizzavano il primo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente lamentava la violazione degli artt. 1703 c.c. ed 83 c.p.c.. L'associazione appellante si doleva che, riconosciuto il conferimento del mandato alle liti, in fasi temporalmente scisse, a professionisti tutti facenti parte dell'associazione professionale ricorrente, il giudice del gravame avesse erroneamente escluso la legittimazione della stessa a richiedere il pagamento dei relativi onorari. La defunta assistita, invero, aveva chiesto consulenza sic et simpliciter allo studio associato, essendo quindi irrilevante chi fosse il professionista che, in concreto, avrebbe assunto la sua difesa. In tale ottica, è bene premettere che, per le società tra professionisti, operano le medesime norme che disciplinano la società di persone. Pertanto, le società ed i singoli soci sono responsabili in solido per le cause di cui si occupano. Tuttavia, la Suprema Corte rilevava che nonostante per granitico orientamento pretorio fosse stata riconosciuta la legittimazione dello studio professionale associato a pretendere, in proprio, il pagamento dei compensi spettanti per l'attività professionale svolta dai singoli associati, nel caso di specie né il legale rappresentante, né gli altri professionisti avevano fornito prova della sussistenza di una società tra avvocati, viceversa emergendo - dal carteggio processuale - l'esistenza di un'associazione professionale. In caso di esercizio della professione forense in forma associata, l'art. 4-bis comma 3 della l. n. 124/2017, fa salvo il principio di prestazione personale della professione. Da ciò discendeva che l'incarico conferito alla società potesse essere svolto soltanto dai soci professionisti dotati delle specifiche capacità tecniche per assolverlo, ma non risultava provato né che fosse stata effettivamente costituita una società tra avvocati della quale tutti i professionisti cui il mandato era stato rilasciato erano soci - potendosi al più ritenere sussistente un'associazione tra professionisti -, né che la cliente avesse inteso instaurare un rapporto direttamente con la società. In relazione a tale aspetto, l'orientamento espresso dalla Corte di cassazione (Cass. civ., sent., n. 17718/2019) ritiene ammissibile bilanciare il principio di personalità della prestazione con l'autonomia che viene riconosciuta allo studio professionale associato, nel senso che è possibile attribuire a quest'ultimo la titolarità dei diritti di credito dovuti per l'attività professionale svolta dai singoli associati, non rientrando il medesimo tra quelli per cui vige il divieto assoluto di cessione, purché ciò sia oggetto di specifica pattuizione. E' invero ormai superato l'atavico assunto per il quale l'associazione tra professionisti non possa assumere la titolarità dei rapporti con i clienti, in quanto costituisce ius receptum il fatto che gli studi associati debbano essere assimilati alle associazioni ex art. 36 c.c.. Tale norma prevede che i rapporti interni tra gli associati, nonché quelli tra questi ultimi e l'associazione stessa, siano regolati dagli accordi intercorsi tra detti soggetti. Di conseguenza, è pacifico che - in ossequio a tali accordi - sia possibile attribuire all'associazione la titolarità dei rapporti, e che la stessa li conferisca ai singoli associati. Nell'eventualità in cui ciò venga giudizialmente accertato, il giudice di merito potrà rilevare la legittimazione attiva dello studio professionale associato rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli aderenti. Nondimeno, la più recente giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. civ., sent., nn. 7898/2020 e 8358/2020) ha sancito che - di norma - il cliente che conferisce il mandato professionale ad un avvocato è tenuto a versare l'onorario direttamente a quest'ultimo, e non allo studio associato di cui lo stesso, eventualmente, faccia parte, stante la natura personale dell'attività oggetto del mandato. Questa presunzione, tuttavia, può essere smentita dalla concreta verifica, da porre in essere con approccio casistico, che lo statuto di una specifica associazione tra professionisti preveda puntuali accordi in base ai quali la stessa è legittimata a stipulare contratti e, eventualmente, ad acquisire la titolarità dei rapporti con i clienti. I Supremi Giudici specificano altresì che, alla suddetta ricostruzione, non osta il principio pretorio (Cass. Civ., sent., n. 17683/2010) in base al quale lo studio associato rientri nell'alveo dei fenomeni aggregativi di interessi cui la legge consente di stare in giudizio il che, relativamente alle associazioni non riconosciute, è espressamente sancito dal secondo comma dell'art. 36 c.c.. Chiosando sul primo motivo di ricorso e rigettandolo, l'ordinanza in commento rilevava che l'impugnata sentenza d'appello aveva correttamente applicato i principi suesposti. La ricorrente, infatti, non aveva specificato i termini degli accordi tra i singoli professionisti e lo studio associato, sì da consentire il riconoscimento della legittimazione di quest'ultimo ad esigere iure proprio il pagamento del compenso per la prestazione esperita dal singolo associato. Invero, non è sufficiente la mera deduzione della sussistenza di uno studio associato al fine di inferire che la titolarità dei rapporti giuridici - diritti di credito compresi - costituiti dai singoli aderenti nell'ambito della propria attività professionale spetti allo stesso.

Il secondo motivo di ricorso veniva rigettato dai Supremi Giudici in quanto il rappresentante (recte l'amministratore di sostegno) non può essere chiamato a rispondere dei debiti assunti dal rappresentato (nel caso di specie, amministrato). In ogni caso, il rigetto della domanda rivolta dallo studio associato nei confronti della cliente (e, alla dipartita di quest'ultima, del suo erede legittimo) in ossequio alla rilevata carenza di legittimazione attiva, preclude - di conseguenza - l'esperimento dell'azione nei confronti dell'amministratore di sostegno.

Il terzo motivo di ricorso veniva respinto dal Collegio decidente in base all'evidenza che, rilevata l'insussistenza di responsabilità della defunta cliente nei confronti dello studio associato, essendo il di lei figlio subentrato nella vicenda processuale iure successionis, nel rispetto delle norme sulla successione ereditaria, non poteva - parimenti - rilevarsi la responsabilità in capo allo stesso.

Il quarto ed ultimo motivo di ricorso era respinto dai Giudici della II Sezione civile della Corte di cassazione poiché, stante il rigetto degli altri tre motivi, la situazione di soccombenza restava immutata.

In conclusione, per le suesposte ragioni, il ricorso presentato dallo studio associato veniva rigettato.

Osservazioni

La sentenza n. 21868/2020 analizza in modo puntuale l'iter evolutivo della giurisprudenza in merito alla complessa vicenda della corresponsione del compenso ad un professionista facente parte di uno studio associato. La motivazione estesa dalla II sezione civile consente di inferire l'essenzialità che venga regolamentato (nonché provato giudizialmente) il rapporto tra i singoli professionisti associati e l'associazione medesima. Quest'ultimo costituisce elemento indefettibile al fine di configurare un'autonoma legittimazione dell'associazione a rappresentare in giudizio i suoi aderenti. A mente della pronuncia in esame, infatti, è possibile bilanciare la natura personale della prestazione in esame, sancita dagli artt. 2229 e ss. c.c., con l'autonomia che si riconosce agli studi associati tra professionisti. Posto che, come confermato in vari arresti dalla Suprema Corte (ex multis, Cass. civ., sent. n. 15417/2016), il fenomeno associativo tra professionisti non possa univocamente orientarsi alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi, nulla osta a che lo statuto dell'associazione espressamente preveda la legittimazione alla stipula dei contratti ed alla correlativa acquisizione dei proventi per l'espletamento delle prestazioni professionali da parte dei singoli aderenti spetti all'associazione medesima. In altri termini, muovendo dalla premessa per cui lo studio professionale associato non possa sostituirsi ai singoli professionisti nella gestione materiale del rapporto con la clientela qualora si tratti di prestazioni connotate da particolare complessità tecnica, per le quali la legge richieda peculiari titoli abilitativi di cui solo gli associati, singolarmente intesi, possono essere titolari, è pienamente ammissibile che lo statuto riconosca la spettanza dei diritti di credito derivanti dall'espletamento dell'attività professionale all'associazione. Rimane comunque fermo che lo svolgimento della prestazione debba essere resa personalmente dal singolo aderente, titolare dei requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività. Viceversa, il diritto di credito a titolo di compenso per l'attività professionale esperita può essere ceduto, come testimoniato anche dalla giurisprudenza di legittimità ai fini tributari (Cass. civ., sent., n. 28957/2008).

In definitiva, da quanto sopra esteso, può evincersi come la II sezione civile della Corte di cassazione abbia confermato il rilievo fondante che deve attribuirsi allo statuto delle associazioni non riconosciute. Queste ultime, ex art. 36 comma primo c.c., regolamentano i loro rapporti interni in base agli accordi tra gli aderenti, i quali possono attribuire all'associazione (compresa quella professionale) la legittimazione a stipulare contratti, nonché ad acquisire la titolarità dei rapporti poi delegati ai singoli associati che da questi ultimi vengono personalmente curati. In tale eventualità, sussiste la legittimazione dello studio professionale associato rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli professionisti a favore del cliente che abbia conferito l'incarico.

Riferimenti
  • Bertolotti, Società tra professionisti e società tra avvocati, Torino;
  • Campobasso, Manuale di diritto Commerciale, Milano;
  • Garesio - Marulli, La società in generale. Le società di persone. Le società tra professionisti, Milano.

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