È nulla la pattuizione che conferisce il diritto “reale di uso esclusivo” su una porzione comune dell'edificio

22 Dicembre 2020

Intervenendo a comporre un contrasto verificatosi all'interno delle Sezioni semplici e decidendo una questione di massima di particolare importanza, le Sezioni Unite della Cassazione affermano che, stante il principio del numerus clausus dei diritti reali vigenti nel nostro ordinamento, è precluso agli stipulanti conferire il c.d. diritto “reale” di uso esclusivo su parti comuni dell'edificio in àmbito condominiale, lasciando, però, aperta la possibilità che il diritto di uso esclusivo, sussistendone i presupposti normativamente previsti, possa essere ricondotto nel “diritto reale d'uso” contemplato dall'art. 1021 c.c., oppure che il contratto stipulato, interpretando la reale volontà dei contraenti, possa convertirsi in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (ma solo inter partes) di natura “obbligatoria”.
Massima

La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. diritto reale di uso esclusivo su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell'edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall'art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi, restando riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i tipi reali normativi.

Il caso

La fattispecie sottesa alla sentenza in commento originava da uno scioglimento di una comunione - che dava, poi, àdito ad una situazione di condominio - all'esito della quale un soggetto era diventato proprietario esclusivo di un appartamento al primo piano nonché del “negozio posto al piano terra con l'uso esclusivo della porzione di cortile”, in realtà comune ai proprietari degli altri appartamenti del medesimo stabile.

Questi ultimi convenivano il proprietario dell'appartamento del primo piano, chiedendo la rimozione delle opere realizzate sul cortile comune, mentre il convenuto resisteva rilevando di aver diritto all'uso esclusivo in virtù del titolo, o per usucapione della relativa servitù, oppure in forza dell'art. 1021 c.c.

Il Tribunale aveva rigettato integralmente le domande principali e riconvenzionali, mentre la Corte d'Appello aveva dichiarato che i manufatti esistenti nel cortile retrostante il fabbricato avevano natura condominiale, ordinando all'originario convenuto di cessare l'uso esclusivo, al fine di consentire a tutti i condomini il pari utilizzo.

A seguito del ricorso per cassazione del soccombente, la II Sezione aveva disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, tanto per esigenza di composizione di un contrasto, quanto per la particolare importanza della questione, sulla natura dell'uso esclusivo in àmbito condominiale, e il Primo Presidente aveva disposto in conformità.

Nelle more, era intervenuta la rinuncia al ricorso e l'accettazione della controparte, ma l'estinzione del giudizio non ha precluso alle Sezioni Unite di enunciare il “principio di diritto nell'interesse della legge”, stante la particolare importanza della questione decisa ex art. 363, comma 3, c.p.c.

La questione

Si trattava di verificare se l'attribuzione ad un condomino di un diritto di uso esclusivo altro non sia, almeno in taluni casi, che una formula da intendersi come equivalente dell'attribuzione a lui della proprietà solitaria sulla porzione in discorso; o se e come il diritto di uso esclusivo di una parte comune possa armonizzarsi con la regola basilare dettata dall'art. 1102 c.c., senz'altro applicabile al condominio per il rinvio dell'art. 1139 c.c., secondo cui ciascun comunista può servirsi della cosa comune; oppure se il diritto di uso esclusivo abbia natura di diritto reale atipico o sia riconducibile ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento, o se abbia natura (non di diritto reale, bensì) di diritto di credito.

Le soluzioni giuridiche

In effetti, l'ordinanza di rimessione aveva dato atto che esisteva una configurazione appagante le diffuse esigenze avvertite dalla pratica notarile, volta appunto a dare al c.d. uso esclusivo di parti condominiali il rango di un diritto perpetuo e trasmissibile, a contenuto, dunque, non strettamente personale, e cioè stabilito a favore del solo usuario, collegando la facoltà di usare il bene non ad un soggetto, ma ad una porzione in proprietà individuale senza limiti temporali (trattavasi di un escamotage per risolvere, tramite la qualificazione surrettizia, problemi catastali, ad esempio per il mancato frazionamento dell'area cortilizia comune).

Al contempo, si riconosceva che la qualificazione del diritto di uso esclusivo quale diritto “quasi uti dominus”, ma pur sempre con il limite di cui all'art. 1102 c.c., non risolveva il problema della trascrivibilità, e quindi dell'opponibilità, dell'uso esclusivo sulla cosa comune, avuto riguardo al rilievo che di modificazioni del diritto di proprietà, di comunione o di condominio non si parlava in alcuno dei primi tredici numeri dell'art. 2643 c.c., né nell'art. 2645 c.c., che prevedeva la trascrizione di “ogni altro atto o provvedimento che produce... taluni degli effetti dei contratti menzionati nell'art. 2643 c.c., mentre solo il n. 14 dell'art. 2643 c.c. faceva riferimento a sentenze (e non ad atti negoziali) che operavano “la modificazione” di uno dei diritti menzionati nei numeri precedenti.

A monte, la questione - cui occorreva dare soluzione - circa la natura, i limiti e l'opponibilità del suddetto diritto di uso esclusivo su beni comuni, involgeva, a ben vedere, il classico problema dell'utilizzabilità delle obbligazioni, come espressioni di autonomia privata, volte a regolare le modalità di esercizio dei diritti reali, opponendosi dai teorici che la libertà negoziale potesse conformare unicamente i rapporti di debito, e non anche le situazioni reali, rinvenendo tale severa conclusione il suo fondamento sempre nel tradizionale principio del numerus clausus dei diritti reali, restando pur riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i “tipi” reali normativi.

Nella giurisprudenza di legittimità, in effetti, si registrano numerose decisioni rese nell'àmbito di liti in cui si controverteva della pretesa titolarità, in capo ad un condomino, di un diritto di uso esclusivo su una porzione - segnatamente cortilizia, e dunque, di una parte - comune ai sensi dell'art. 1117 c.c.

Nonostante la diffusione del fenomeno, tuttavia, non risulta che, prima di Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 2017, n. 24301, i giudici di legittimità abbiano mai chiaramente preso posizione sul fondamento della configurabilità di un c.d. diritto reale di uso esclusivo di una parte comune - “formula dalla forte caratterizzazione di ossimoro, laddove coniuga l'esclusività dell'uso con l'appartenenza della porzione a più condomini” - e sulla sua natura.

Con tale pronuncia, si è affermato che l'uso esclusivo su parti comuni dell'edificio, riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incide non sull'appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avviene secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c.; tale diritto non è riconducibile al diritto reale d'uso previsto dall'art. 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne le modalità di estinzione, è tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell'unità immobiliare cui accede.

Osservazioni

Le Sezioni Unite hanno ritenuto che il tema del c.d. diritto reale di uso esclusivo di parti comuni dell'edificio in àmbito condominiale debba essere inquadrato, prendendo le mosse dal dato normativo.

Invero, nell'art. 1102 c.c., rubricato “uso della cosa comune” - dettato per la comunione ma applicabile al condominio per il tramite dell'art. 1139 c.c. - il vocabolo “uso” si traduce nel significato del “servirsi della cosa comune”, mentre, nell'art. 1117 c.c., che apre il capo dedicato al condominio, ricorre per tre volte, in ciascuno dei numeri in cui la norma si suddivide, l'espressione “uso comune”, che ripete e sintetizza la previsione del suddetto art. 1102 c.c.

Orbene, nella locuzione “servirsi della cosa comune”, si riassumono le facoltà ed i poteri attraverso i quali il partecipante alla comunione, ovvero il condomino, ritrae dalla cosa le utilità di cui essa è capace, entro i limiti oggettivi della sua “destinazione”, cui pure si riferisce l'art. 1102 c.c., laddove l'“uso”, quale sintesi di facoltà e poteri, costituisce allora parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, come, ovviamente, di quello di proprietà, a tenore del dettato dell'art. 832 c.c.

In altri termini, l'uso è (non diritto, bensì) uno dei modi attraverso i quali può esercitarsi il diritto, e forma parte intrinseca e caratterizzante, nucleo essenziale, del suo contenuto, e l'art. 1102 c.c. ribadisce ulteriormente il carattere intrinseco e caratterizzante dell'“uso della cosa comune” nella parte in cui istituisce l'obbligo del partecipante di non impedire agli altri “di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Nella formula “parimenti uso”, peraltro, si riassumono i connotati, per così dire normali, dell'uso della cosa comune nell'àmbito della comunione e del condominio, uso in linea di principio, ed almeno in potenza, per l'appunto indistintamente paritario, promiscuo e simultaneo; ciò non esclude la possibilità di un “uso” più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri (Cass. civ., sez. II, 30 maggio 2003, n. 8808; Cass. civ., sez. II, 27 febbraio 2007, n. 4617; Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 2009, n. 22341; Cass.civ., sez. II, 16 aprile 2018, n. 9278), tanto più che l'art. 1123, comma 2, c.c. contempla espressamente la possibile esistenza di cose destinate a servire i condomini “in misura diversa”, regolando il riparto delle spese in proporzione dell'uso, previsione che trova ulteriore specificazione nel successivo art. 1124 c.c. riguardo alla manutenzione di scale e ascensori.

L'uso della cosa comune può assumere, inoltre, caratteri differenziati rispetto alla regola dell'indistinta paritarietà, tuttavia pur sempre mantenuta ferma mediante un congegno di reciprocità: così, ad esempio, per l'uso frazionato (Cass. civ., sez. II, 14 luglio 2015, n. 14694; Cass. civ., sez. II, 11 aprile 2006, n. 8429; Cass. civ., sez. II, 14 ottobre 1998, n. 10175; Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 1985, n. 434), nonché per l'uso turnario (Cass. civ., sez. II, 12 dicembre 2017, n. 29747; Cass. civ., sez. II, 19 luglio 2012, n. 12485; Cass. civ., sez. II, 3 dicembre 2010, n. 24647; Cass. civ., sez. II, 4 dicembre 1991, n. 13036).

I giudici di Piazza Cavour riconoscono, altresì, che l'art. 1102 c.c. - nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto - non pone una norma inderogabile, i cui limiti non possano essere resi più severi dal regolamento condominiale; se, però, i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, resta fermo che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni (Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2018, n. 2114; Cass. civ., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 27233).

In quest'ordine di concetti, il c.d. diritto reale di uso esclusivo va evidentemente a collocarsi aldilà dell'osservanza della regola del “farne parimenti uso”, pur declinata nelle forme particolari di cui sopra, atteso che, nel primo caso, proprio perché esclusivo, si elide - rimanendo da verificare se ed in che limiti ciò sia giuridicamente fattibile - il collegamento tra il diritto ed il suo contenuto, concentrandosi l'uso in capo ad uno o alcuni condomini soltanto.

Pertanto, qualora l'esegesi dell'atto induca a ritenere che l'attribuzione abbia effettivamente riguardato, secondo la volontà delle parti - non la proprietà, sia pure in veste “mascherata”, ma - il c.d. diritto reale di uso esclusivo” su una parte comune, ferma la titolarità della proprietà di essa in capo al condominio, è da escludere che un simile diritto, con connotazione di “realità”, possa trovare fondamento sull'art. 1126 c.c.

Tale norma stabilisce, infatti, che, quando l'uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico, mentre gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.

Trattasi, però, di previsione dettata per una situazione del tutto peculiare, come quella dei lastrici solari, che, pur svolgendo una funzione necessaria di copertura dell'edificio, e costituendo come tali parti comuni, possono essere oggetto di calpestio, per la loro conformazione ed ubicazione, soltanto da uno o alcuni condomini, sicché l'uso esclusivo nel senso sopra descritto non priva gli altri condomini di alcunché, perché essi non vi potrebbero comunque di fatto accedere.

Dalla previsione dell'art. 1126 c.c., allora, può semmai desumersi a contrario che non sono configurabili ulteriori ipotesi di uso esclusivo, le quali, in violazione della regola generale stabilita dal già richiamato art. 1102 c.c., nonché dei principi del numerus clausus e di quello di tipicità dei diritti reali - v. appresso - sottraggano a taluni condomini il diritto di godimento della cosa comune loro spettante.

Neppure rileva - ad avviso degli ermellini - la riforma della normativa del condominio introdotta dalla l. n.220/2012, dove sembra introdurre alcune ipotesi di concessione a singoli condomini di un godimento apparentemente non paritario, giacché - pur volendo tralasciare che tali previsioni, per la loro eccezionalità, non possono concorrere alla costruzione di un principio generale - è da escludere che esse comportino modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni in favore del titolare dell'uso.

Ad esempio, l'art. 1122, comma 1, c.c. prevede che, nelle parti normalmente destinate all'uso comune che sono state destinate all'“uso individuale”, il condomino non può eseguire opere che determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio, ma la norma de qua non fa riferimento univoco ad un ipotetico “diritto reale di uso esclusivo”, riferendosi piuttosto al caso, già ricordato, dell'uso frazionato delle parti comuni.

E ancora, l'art. 1120, comma 2, n. 2), c.c. consente, tra l'altro, che i condomini, con una maggioranza meno rigorosa di quella prevista per le innovazioni in genere, possano disporre opere ed interventi per la realizzazione di parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari, ma la norma non chiarisce se i posti auto realizzati debbano essere attribuiti in proprietà esclusiva, costituendo in tal caso pertinenze delle singole unità immobiliari, o in godimento frazionato in favore dei proprietari di tali unità immobiliari.

Dunque, atteso che l'art. 1102 c.c., applicabile al condominio, stabilisce che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, è da escludere che, così come talune parti altrimenti comuni, alla stregua dell'art. 1117 c.c., possono essere attribuite in proprietà esclusiva ad un singolo condomino, a fortiori esse possano essere attribuite, con caratteri di “realità”, ad un singolo condomino, in uso esclusivo.

A ben vedere, un diritto reale di godimento di uso esclusivo, in capo ad un condomino, di una parte comune dell'edificio, privando gli altri condomini del relativo godimento, e cioè riservando ad essi un diritto di comproprietà svuotato del suo nucleo fondamentale, “determinerebbe, invece, un radicale, strutturale snaturamento di tale diritto, non potendosi dubitare che il godimento sia un aspetto intrinseco della proprietà, come della comproprietà, salvo, naturalmente, che la separazione del godimento dalla proprietà non sia il frutto della creazione di un diritto reale di godimento normativamente previsto”.

Da ultimo, i magistrati del Palazzaccio si sono interrogati se la creazione di un atipico “diritto reale di uso esclusivo”, tale appunto da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell'autonomia negoziale, ma lo hanno categoricamente escluso, essendovi di ostacolo i summenzionati principi del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi: in forza del primo, solo la legge può istituire figure di diritti reali, mentre, per effetto del secondo, i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito.

In proposito, si è rimarcata la differenza dal punto di vista sostanziale e contenutistico, del diritto reale d'uso e del diritto personale di godimento, che va colta proprio nell'ampiezza ed illimitatezza del primo, conformemente al canone di tipicità dei diritti reali delineato dalla legge, rispetto alla multiforme atteggiabilità del secondo, che proprio in ragione della natura obbligatoria (e non reale) del rapporto giuridico prodotto, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto.

Tuttavia, si è sottolineato quanto sia fallace l'idea di diritti reali creati per contratto, rilevando che le situazioni reali si caratterizzano per la sequela e per l'opponibilità ai terzi: i diritti reali, cioè, si impongono per forza propria ai successivi acquirenti della cosa alla quale essi sono inerenti, che tali acquirenti lo vogliano o non lo vogliano: creare diritti reali atipici per contratto vorrebbe dire perciò incidere non solo sulle parti, ma, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, anche sugli acquirenti della cosa, ed in definitiva, paradossalmente, vincolare terzi estranei, in nome dell'autonomia contrattuale, ad un regolamento eteronimo.

Il sopra delineato impianto del codice civile, di per sé autosufficiente, si rafforza, poi, nel quadro costituzionale, in applicazione dell'art. 42 Cost., laddove esso pone una riserva di legge in ordine ai modi di acquisto e, per l'appunto, di godimento, oltre che ai limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, senza che la funzionalizzazione della proprietà offra alcun sensato argomento che spinga nel senso della configurabilità di diritti reali limitati creati per contratto.

Il principio del numerus clausus e della tipicità, infine, non incontra ostacoli nell'ordinamento eurounitario, giacché l'art. 345 del Trattato sul funzionamento dell'UnioneEuropea lascia “del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”.

Esclusa, dunque, la validità della costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell'edificio, in àmbito condominiale, il massimo organo di nomofilachia si è posto il problema della sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia contemplato.

Una volta ricordato che l'art. 1117 c.c., nel porre una presunzione di condominialità, consente l'attribuzione ad un solo condomino della proprietà esclusiva di una parte altrimenti comune, occorre anzitutto approfonditamente verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se le parti, al momento della costituzione del condominio, abbiano effettivamente inteso limitarsi alla attribuzione dell'uso esclusivo, riservando la proprietà all'alienante, e non abbiano invece voluto trasferire la proprietà.

E' vero - riconosce il supremo consesso decidente - che l'art. 1362 c.c. richiama al comma 1 il senso letterale delle parole, senso che, nel caso dell'impiego della formula “diritto di uso esclusivo”, depone senz'altro contro l'interpretazione dell'atto come diretto al trasferimento della proprietà; ma anche vero è che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.

Riferimenti

Mezzanotte, La conformazione negoziale delle situazioni di appartenenza - Numerusclausus, autonomia privata e diritti sui beni, Napoli, 2015;

Celeste, L'uso esclusivo delle porzioni comuni del fabbricato tra (inconsapevoli) atti di tolleranza e (impreviste) pretese di usucapione, in Immob. & proprietà, 2016, 145;

Monegat, Per il godimento esclusivo del bene comune il comproprietario deve agli altri un corrispettivo, in Immob. & proprietà, 2013, 596;

Penuti, Uso esclusivo delle parti comuni: libertà e limiti all'iniziativa del singolo condomino, in Il Civilista, 2012, fasc. 7, 32;

Marmocchi, L'uso delle parti comuni: dal pari-uso all'uso esclusivo, in Riv. notar., 2008, 91;

Fusaro, Il numero chiuso dei diritti reali, in Riv. critica dir. privato, 2000, 439;

De Tilla, Disciplina giuridica ed uso comune ed esclusivo di terrazze, lastrici solari, tetti, coperture ecc., in Giust. civ., 1991, I, 978;

Trojani, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali e cessione di cubatura, in Vita notar., 1990, 285.

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