Acquisizione di posizione dominante e accordo con un clan mafioso. Sulla configurabilità del reato di illecita concorrenza

22 Dicembre 2020

Il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia è integrato dall'accordo tra l'imprenditore e un clan di stampo mafioso? Nella sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno affermato che nel paradigma del delitto previsto dall'art. 513-bis c.p. rientra...
Massima

Integra il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia, di cui all'art. 513-bis c.p., l'acquisizione di una posizione dominante in un determinato settore economico dovuta all'accordo tra l'imprenditore e un clan di stampo mafioso ed alle condotte violente o minatorie, anche di carattere implicito o “ambientale”, che l'hanno tradotto in atto, operate sia a livello della domanda che a carattere diffuso e da cui sia conseguita l'interposizione di barriere all'ingresso di altri concorrenti su un certo mercato o su una zona “contrattualmente” stabilita.

Il caso

Il Tribunale del riesame confermava l'ordinanza cautelare applicativa della misura inframuraria nei confronti dell'indagato perché gravemente indiziato del delitto di concorso in illecita concorrenza previsto dall'art. 513-bis c.p., aggravato ex art. 416-bis.1 c.p.

In particolare, l'indagato – esponente di rilievo di un clan mafioso - aveva percepito una somma periodica per l'installazione di slot machine – da parte di un imprenditore – presso esercizi pubblici che insistevano nell'area di influenza del clan di appartenenza.

Nel proporre, ricorso in Cassazione, l'indagato si doleva che l'attività di indagine non aveva dimostrato che l'imprenditore si era avvalso dell'appoggio dell'indagato per impedire ad aziende concorrenti di inserirsi nel relativo settore economico.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso evidenziando che l'indagato percepiva stabilmente delle somme di denaro in relazione alla installazione delle slot machine da parte dell'imprenditore colluso al quale era riferibile la totalità delle slot machine presenti in città, precisando che l'indagato grazie alla propria forza di intimidazione assicurava l'installazione, presso i diversi esercizi commerciali, delle slot machine…consentendo all'imprenditore di conseguire una posizione di sostanziale monopoli nel settore, sebbene gli apparecchi per le scommesse forniti dall'imprenditore colluso non erano funzionanti o a fronte di ritardi nelle riparazioni ovvero allorché vetuste. Tale situazione è in grado di alterare l'equilibrio del mercato e del principio della libera concorrenza, atteso che i rapporti commerciali che ne conseguono non sono il frutto di una libera scelta degli esercenti, ma della minaccia anche implicita scaturente dalla notorietà dell'apparentamento dell'imprenditore con i clan di stampo mafioso, con danno anche di altri imprenditori operanti nel medesimo settore i cui prodotti finiscono per essere forzatamente boicottati.

La questione

La questione in esame è la seguente: il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia è integrato dall'accordo tra l'imprenditore e un clan di stampo mafioso?

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno affermato che nel paradigma del delitto previsto dall'art. 513-bis c.p. rientra la condotta dell'imprenditore che acquisisce posizioni dominanti di mercato in un determinato settore economico attraverso l'intervento dei clan che controllano le zone ove insistono gli esercizi commerciali destinatari delle sue prestazioni e delle condotte violente o minatorie, anche di carattere implicito o “ambientale”, che lo traducano in atto.

In tali ipotesi, si verifica un'alterazione dell'equilibrio del mercato e del principio della libera concorrenza: i rapporti commerciali che ne conseguono non sono frutto di una libera scelta dei singoli esercenti, bensì della minaccia, anche implicita, che scaturisce dalla notorietà dell'apparentamento dell'imprenditore con i clan di stampo mafioso, con danno anche di altri imprenditori operanti nel medesimo settore i cui prodotti finiscono per essere forzatamente boicottati.

L'art. 513-bis c.p. è stato introdotto con l'art. 8 della l. 13 settembre 1982, n. 646, la cosiddetta legge Rognoni - La Torre.

Tale legge contiene misure di prevenzione antimafia.

Dunque, si tratta di una diposizione normativa che muove da un'ottica di tutela dell'iniziativa economica intesa quale valore costituzionale da forme di aggressione della criminalità organizzata.

Il legislatore, nella lotta contro la mafia, ha cercato di adeguare gli strumenti normativi ai differenti modelli operativi delle associazioni criminali, le quali, penetrano nelle attività economiche e produttive, attraverso forme d'intimidazione, al fine di ottenerne il controllo o, comunque, condizionarne la gestione.

Si è così voluto colmare una lacuna del sistema penale nella repressione di comportamenti di scoraggiamento della concorrenza, spesso realizzati mediante esplosioni di ordigni, danneggiamenti o violenza sulle persone, i quali risultavano difficilmente inquadrabili nelle fattispecie di cui agli artt. 629 c.p. e 513 c.p.

Pertanto, il delitto in esame tende a contrastare la progressiva occupazione dell'economia lecita da parte di aziende legate alla criminalità organizzata; infiltrazione che finisce per alterare l'equilibrio della concorrenza, con grave nocumento sia per i competitors che per l'intero tessuto economico.

Particolare rilievo assume poi il profilo del bene giuridico protetto, che, trattandosi di delitto plurioffensivo, concerne tanto il corretto funzionamento del sistema economico (la norma, si ricorda, è inserita nel titolo relativo ai delitti contro l'economia pubblica), quanto la libertà di autodeterminazione individuale nell'esercizio di un'attività economica: bene che è specificamente aggredito dalle condotte di violenza o di minaccia, capaci di condizionare la volontà del soggetto passivo e pertanto di limitarne la libertà.

Inoltre, occorre prendere atto che la disposizione è ricompresa nei reati contro l'ordine pubblico economico, affiancata ad altre fattispecie che vedono come soggetti agenti delle imprese ontologicamente lecite, nate cioè per un perseguimento sociale legale ma che si avvalgono di un modus operandi illecito.

Infatti, nonostante il fine perseguito dal legislatore, manca un qualsiasi riferimento a fatti di criminalità organizzata. Da ciò si evince che seppure le condotte incriminate siano quelle proprie delle organizzazioni criminali, possono rilevare a livello penale anche condotte poste in essere da imprenditori non legati a sodalizi criminali.

Pertanto, anche se la norma è stata introdotta mediante una legge che regola le misure di prevenzione antimafia, il mancato riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non intende affatto ridimensionare l'ambito di applicabilità della stessa, ma solo caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso ad un significativo parallelismo (Cass.pen. n. 2224/1996).

Secondo la suprema Corte la scelta di non inserire il metodo mafioso, oggi definito dall'art. 416-bis, comma 3, c.p., tra gli elementi costitutivi del delitto di illecita concorrenza, ma di tipizzare, quali elementi costitutivi del reato, la mera violenza o minaccia, è stata compiuta al fine di consentire la repressione di ogni forma di concorrenza sleale attuata mediante metodi violenti o intimidatori, a prescindere dalla loro riferibilità ad un sodalizio criminale. Ciò non toglie che l'uso del metodo mafioso possa rilevare al fine di fondare, almeno astrattamente e nei termini di fumus commissi delicti caratteristici del procedimento cautelare, come nell'odierna vicenda, un addebito per il delitto di cui all'art. 513 bis c.p., essendo tale condotta ugualmente pericolosa per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice (Cass. pen., n. 6462/2010).

La libertà di concorrenza si è progressivamente imposta come libertà costituzionalmente tutelata, espressione del più generale principio di libertà nell'iniziativa economica privata di cui all'art. 41 Cost., suscettibile di essere garantita non solo nei confronti dello Stato, ma erga omnes. In quest'ottica, la repressione degli atti di concorrenza sleale si pone come garanzia di tale precetto costituzionale, offrendo una specifica tutela nei confronti di comportamenti dell'imprenditore che non siano lesivi solo del funzionamento dell'economia generalmente considerata, ma anche e soprattutto dell'altrui libertà di iniziativa economica e dell'altrui diritto a inserirsi nel mercato in condizioni di libera concorrenza.

È lo stesso principio di libera concorrenza nel mercato interno ed europeo, cioè, a imporre all'ordinamento di approntare degli strumenti adeguati a impedire comportamenti che alterino il normale funzionamento del mercato, quali, tra gli altri, quelli previsti dal codice civile per reprimere gli atti di concorrenza sleale: atti che, come già si è osservato, costituiscono un tipo aperto, contrassegnato dai requisiti della contrarietà ai canoni della correttezza professionale e della idoneità a danneggiare l'altrui azienda, in cui la giurisprudenza civilistica ha fatto confluire una pluralità di condotte ulteriori rispetto a quelle espressamente contemplate nella prima parte dell'art. 2598 c.c. (dal boicottaggio economico, al c.d. dumping, allo storno dei dipendenti, alla concorrenza parassitaria, alla pubblicità menzognera, ecc.).

La libera concorrenza costituisce uno dei principi-cardine dell'ordinamento eurounitario (v.artt. 101, 102, 120 TFUE e 16 CDFUE), vincolante in quanto tale a livello domestico per effetto degli artt. 11 e 117 Cost., di modo che l'art. 2598 c.c. deve essere interpretato alla stregua di tali fonti super-primarie e sulle orme della giurisprudenza di legittimità nel settore civile, per la quale ostacolare l'altrui partecipazione al mercato (o la promozione della propria attività commerciale/imprenditoriale) integra una trasgressione dei doveri di correttezza professionale degli operatori economici sanciti dal n. 3 della menzionata disposizione in tema di "concorrenza sleale".

Ad ogni modo la libertà di iniziativa economica e la competizione tra attività di impresa che ne costituisce il logico corollario incontrano un limite fisiologico e sistematico nel divieto di compimento di atti pregiudizievoli per la “struttura concorrenziale del mercato”.

La tutela contro tali “atti pregiudizievoli”, infatti, è apprestata dal legislatore sia attraverso l'armamentario degli artt. 2595 ss. c.c. – e soprattutto, in questo contesto, dalla valvola di sicurezza dell'art. 2598 n. 3 c.c. – sia attraverso la normativa penale riveniente, in prima battuta, dagli artt. 513 e 513-bis c.p., con quest'ultimo che viene, anche qui in una prospettiva di chiusura, a sanzionare quegli atti di concorrenza sleale “estrema” (tanto che l'elemento materiale si connota per essere espressione di violenza o minaccia), lesivi sia di un più ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, sia di un bene “strumentale” rilevato e qualificato garanzia della sfera soggettiva della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva.

Ne segue la rimproverabilità, giusta art. 513-bis c.p., non solo dei comportamenti violenti o minatori ex se idonei ad alterare le dinamiche concorrenziali, ma anche di quelle condotte - contrarie alla deontologia professionale - poste in essere con le medesime note modali al precipuo scopo di acquisire una posizione di vantaggio competitivo indipendentemente dal merito imprenditoriale.

Con l'odierno decisum, i giudici di legittimità aderiscono all'orientamento ad avviso del quale ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza connotati da violenza o minaccia, realizzati nell'esercizio di una attività commerciale, industriale o comunque produttiva, idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva (Cass. pen, Sez. unite, n. 13178/2020, a mente della quale: sono criminalizzabili tutti i comportamenti competitivi, posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell'esercizio dell'altrui libertà di concorrenza, che si prestino ad essere realizzati in forme violente o minatorie, sì da favorire o consentire l'illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva).

In linea con tale orientamento si è deciso inoltre che integra il delitto di concorrenza sleale l'imprenditore che tenga una condotta, violenta o intimidatoria, idonea ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale e, quindi, anche quando imponga sul mercato la propria attività, in via esclusiva o prevalente, avvalendosi della forza intimidatrice del sodalizio mafioso cui risulta contiguo (Cass.pen., n. 9513/2018).

Secondo tale indirizzo giurisprudenziale l'identificazione degli "atti di concorrenza" illecita deve essere effettuata senza arrestarsi alle indicazioni contenute nell'art. 2598 c.c. ma tenendo in considerazione anche gli artt. 101,102 e 120 TFUE e, soprattutto, la l. n. 287 del 1990: tale ampliamento della base normativa extrapenale utile per la definizione degli atti di concorrenza illecita consente di affermare che la nozione di atti di concorrenza rinvia ad un concetto molto ampio e cioè a tutti quegli atti che siano idonei a falsare il mercato e a consentire ad un imprenditore di acquisire, in danno di altri imprenditori, illegittime posizioni dominanti senza alcun merito derivante dalla propria capacità (Cass. n. 15781/2015).

Inoltre, si è posto il problema se ai fini dell'integrazione del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia sia necessaria l'esteriorizzazione di un comportamento violento o intimidatorio, ovvero, se sia sufficiente la forza intimidatrice dell'organizzazione criminale, derivante da atti di violenza e minaccia continui nel tempo.

Al riguardo si osserva che il reato può dirsi consumato attraverso il ricorso a quelle forme intimidatorie tipiche della criminalità organizzata descritte dall'art. 416 bis c.p., poiché è certo che l'intimidazione mafiosa è espressione di una violenza gravissima, certamente idonea e forse ancora più efficace di una semplice minaccia nello scoraggiare o impedire la lecita concorrenza.

Quanto alla identificazione del comportamento con efficacia intimidatoria si osserva che le mafie storiche abbiano un capitale criminale la cui evocazione sortisce un effetto coercitivo parificabile, se non superiore a quello che si ottiene attraverso il ricorso a forme di minaccia "tipica"; l'evocazione del capitale criminale della mafie storiche consente una semplificazione dell'azione criminale in quanto l'effetto intimidatorio si raggiunge attraverso la evocazione della riconosciuta capacità criminale di gruppi organizzati noti per la consumazione reiterata di efferati crimini contro la persona e non richiede lo spiegamento delle energie coercitive che sono necessarie per l'efficacia di una minaccia "ordinaria".

Il fulcro del processo d'identificazione non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso - puntualizza, infatti, l'art. 416-bis c.p. - l'associazione i cui partecipanti "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e di omertà che ne deriva".

La circostanza, infatti, che l'associazione mafiosa è composta da soggetti che "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva", parrebbe denotare - come l'uso dell'indicativo presente evoca - che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di "effettività": nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di "possedere in concreto" quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso.

Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza "oggettiva", tali da qualificare non soltanto il "modo d'essere" della associazione (l'affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo "modo di esprimersi" in un determinato contesto storico e ambientale.

Forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un "metodo" che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire "di esibizione", pur se priva di connotati eclatanti.

Sul primo versante, non è senza significato la circostanza che la Corte di Cassazione abbia anche di recente affermato che, ai fini della configurabilità dell'associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all'esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell'associazione o, addirittura, ne ignori l'esistenza (Cass. pen., n. 26427/2019, fattispecie in tema di costituzione di nuova struttura criminale; Cass.pen., n. 57896/2017, per le quali il metodo mafioso va integralmente analizzato alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in un determinato ambito sociale e territoriale).

È evidente che, in questa cornice, non sarà l'atteggiamento del singolo a contare in sé e per sé, ma è la risposta "collettiva" a dimostrare che l'associazione ha raggiunto una capacità di intimidazione "condizionante" una generalità di soggetti, e che della stessa si avvale per il perseguimento degli obiettivi normativamente scolpiti dallo stesso art. 416-bis c.p.

Il profilo relativo alla necessità che la capacità di intimidazione del sodalizio sia manifestata, obiettivamente percepita e attuale si distingue da quello riguardante le modalità con cui tale capacità è esteriorizzata; la forza di intimidazione può manifestarsi in qualunque modo, anche in assenza di atti di intimidazione, e la prova di essa deve essere accertata in concreto, potendo rilevare a tal fine qualsiasi circostanza obiettiva idonea a dimostrarla.

Forza intimidatrice, dunque, "a forma libera", dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una "flessibilità" delle tipologie espressive e delle forme d'intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente la "persona", con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà.

La carica intimidatoria dell'organizzazione risulta sufficiente quale atto “impeditivo” a falsare il mercato e a consentire alle imprese ad esse collegate illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle proprie attività produttive.

Perciò, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la violenza o minaccia, rivestono natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono un accessorio eventuale, o meglio latente, della stessa, ben potendo derivare dalla semplice notorietà del vincolo associativo (Cass.pen. n. 4893/2010).

Di conseguenza integra il delitto di concorrenza sleale la condotta dell'imprenditore che imponga la propria attività in via esclusiva o prevalente, avvalendosi della forza intimidatrice del sodalizio mafioso di cui risulta contiguo, a prescindere da condotte tipiche anticoncorrenziali: la forza intimidatrice dell'organizzazione mafiosa di una coartazione tale da impedire ad altre imprese di inserirsi nel meccanismo di aggiudicazione degli appalti.

È noto che le associazioni mafiose, oltre a porre in essere espliciti atti di violenza e minaccia, possono palesarsi anche attraverso condotte di intimidazione caratterizzate da messaggi intimidatori indiretti e larvati o, addirittura, in assenza di avvertimenti diretti.

Tali associazioni, quando si manifestano con modalità silenti, “si avvalgono” della fama criminale conseguita nel corso degli anni nei territori di origine e successivamente diffusa ed esportata in altre zone del territorio nazionale ed anche oltre i confini nazionali.

Il messaggio intimidatorio può assumere diverse forme. La prima forma è rappresentata dall'esplicito e mirato avvertimento mafioso rispetto al quale il timore, già consolidato, funge da rafforzamento della minaccia formulata specificamente. Si pensi, a tal proposito, alla condotta di affiliati che, attraverso la spendita del nome dell'associazione mafiosa di appartenenza, con minaccia o violenza costringano la persona offesa a consegnare denaro o altra utilità facendo esplicito riferimento allo stato di detenzione di alcuni sodali (Cass.pen. n. 43/2015).

La seconda forma di manifestazione del metodo mafioso è caratterizzata da un messaggio intimidatorio avente forma larvata ed indiretta che costituisce un chiaro avvertimento della sussistenza di un interesse dell'associazione verso un comportamento attivo o omissivo del destinatario con implicita richiesta di agire in conformità (Cass. pen. n. 20187/2015; Cass.pen., n. 21562/2015).

La minaccia, infatti, oltre che essere palese, esplicita, determinata, può essere manifestata in modi e forme differenti, ossia in maniera implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, essendo solo necessario che sia sufficiente ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali in cui questa opera (Cass. pen, n. 37526/2004).

La terza ed ultima forma di manifestazione del metodo intimidatorio si sostanzia nell'assenza di messaggio e in una contestuale e correlativa richiesta (implicita e quindi silente) finalizzata ad ottenere una condotta attiva o passiva da parte del destinatario.

Tale ultima forma può integrarsi solo nel caso in cui l'associazione abbia raggiunto una tale forza intimidatrice da rendere superfluo l'avvertimento mafioso, sia pure implicito.

La mafia silente opera con riferimento alla seconda e terza forma di estrinsecazione del metodo intimidatorio, ossia con riferimento alle modalità larvate o a quelle propriamente dette silenti.

Osservazioni

Come in precedenza riferito, la fattispecie prevista dall'art. 513-bis c.p. è stata introdotta dal legislatore per sanzionare la concorrenza attuata con metodi mafiosi, pertanto, secondo tale voluntas legis, è rilevante il ricorso a forme tipiche di intimidazione proprie della criminalità organizzata che, con metodi violenti o minatori, incide sul rispetto delle regole della concorrenza del mercato, destinate a garantire il buon funzionamento del sistema economico e, di riverbero, la libertà delle persone di autodeterminarsi.

La fattispecie risulterà integrata dall'acquisizione di una posizione esclusiva o prevalente sul mercato, mediante la forza intimidatrice dell'associazione mafiosa, cui risulta contiguo il soggetto attivo.

Con la sentenza in esame la seconda sezione della Corte di cassazione è intervenuta in materia di concorrenza sleale con violenza o minaccia e di sfruttamento della forza intimidatrice di un'organizzazione criminale di stampo mafioso affermando due importanti principi di diritto.

In primo luogo ha chiarito che ai fini dell'integrazione del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia è necessario il compimento di atti di concorrenza connotati da violenza o minaccia, realizzati nell'esercizio di una attività commerciale, industriale o comunque produttiva qualsiasi comportamento violento o intimidatorio, idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale.

E in secondo luogo ha chiarito che la forza intimidatrice di un'organizzazione mafiosa è tale da incutere timore nelle imprese non affiliate e che la stessa si configura come un atto “impeditivo” capace di falsare il mercato e la libera concorrenza, poiché non consente al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale; con la conseguenza che, ai fini probatori, non è necessaria l'individuazione di un'impresa minacciata.

Al riguardo si osserva che il reato si considera integrato tanto quando la violenza o la minaccia sono esercitate in maniera diretta contro l'imprenditore concorrente, quando il fine del controllo o del condizionamento delle attività commerciali, industriali o produttive sia perseguito indirizzando la violenza o la minaccia su soggetti terzi comunque legati, come clienti o collaboratori, da rapporti economici o professionali con l'imprenditore concorrente (Cass. pen., n. 37520/2019).

Tale ricostruzione, non è inedita, in quanto già in un precedente si era affermato il principio secondo cui fosse irrilevante il soggetto contro il quale avveniva la violenza e l'individuazione dello stesso, l'importante è che la violenza fosse idonea ad impedire o scoraggiare la libera concorrenza (Cass. n. 19713/2005).

La sentenza in commento – sotto tale profilo – evidenzia che l'atti di concorrenza con violenza e minaccia non deve essere diretto nei confronti di altri concorrenti in senso stretto, potendo avere quali destinatari anche altri soggetti, quali gli esercenti costretti a subire l'installazione di slot machine.

In conclusione, la forza intimidatrice di una associazione mafiosa è tale da avere un valenza oggettivamente impeditiva dell'esercizio di un'attività imprenditoriale all'interno di uno spazio concorrenziale le cui regole di corretta competizione sono alterate sino a pregiudicare la libertà stessa di autodeterminazione di un'impresa parimenti operante nella medesima realtà territoriale: in tal caso l'effetto intimidatorio sarebbe raggiungibile anche attraverso minacce implicite o comportamenti evocatori del capitale criminale dell'organizzazione mafiosa.

Le condotte di minaccia o violenza, ove consumate in contesti imprenditoriali connotati da significativa presenza mafiosa, ben possano atteggiarsi in maniera sensibilmente diversa da quanto accade in ambiti diversi. È stato, infatti, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità il principio che integra il delitto di concorrenza sleale l'imprenditore che imponga sul mercato la propria attività in via esclusiva o prevalente avvalendosi della forza intimidatrice del sodalizio mafioso cui risulta contiguo (Cass. pen., n. 6462/2010).

Infatti, l'effetto intimidatorio è in grado di generare omertà e silenzio significative della condizione di assoggettamento delle vittime, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune.

Guida all'approfondimento

Basile, Le sezioni unite e l'illecita concorrenza con minaccia o violenza: offensività e legalità 'smarrite'?, in Diritto pen. processo, 2020, 1321

Bernardi, Le Sezioni Unite chiariscono il concetto di “atti di concorrenza” nel delitto di cui all'art. 513-bis c.p., in www.sistemapenale.it;

Cappitelli, Lo statuto penale della concorrenza sleale, in Cassazione penale, 2020, 3160;

Fiandaca, Art. 8, l. 13.9.1982, n. 646, in Legislazione Penale, 1983, 278;

Marini, Industria e commercio (delitti contro l'): illecita concorrenza con minaccia o violenza, in Novissimo Digesto, app., IV, Torino, 1983 166;

Rossi, Osservazioni a Cass. pen., sez. II, 2 marzo 2018, n. 9513, in Cassazione penale, 2018, 3255.

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