Sempre necessario un accertamento sul reato presupposto (anche se prescritto) per condannare la società

Ciro Santoriello
29 Dicembre 2020

In tema di responsabilità degli enti in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso...
Massima

In tema di responsabilità degli enti in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma primo, lett. b) d.lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso, con verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato.

Il caso

In sede di appello veniva confermata la condanna di una società per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25, comma 2, d.lgs. 231 del 2001 in relazione al reato di corruzione di cui agli artt. 81, 319, 321 c.p. commesso da un consigliere di amministrazione dello stesso ente e gestore di una discarica e da un componente del comitato tecnico della Provincia ove aveva sede la predetta discarica. In particolare, quest'ultimo, in cambio dell'asservimento delle pubbliche funzioni da lui svolte agli interessi della società sotto processo, si faceva conferire e promettere dalla stessa il conferimento di incarichi di natura professionale, con la società che traeva un profitto di rilevante entità costituito dalla circostanza che, a seguito dell'interessamento illecito del pubblico ufficiale, veniva espresso parere favorevole sulle istanze presentate dalla società tese ad ottenere l'autorizzazione all'adeguamento della discarica ed alla realizzazione di una piattaforma per il trattamento, la valorizzazione e lo stoccaggio definitivo dei rifiuti non pericolosi.

Va precisato che al momento del giudizio di appello il reato di corruzione, presupposto della responsabilità dell'illecito, era prescritto. Ciò nonostante, veniva comunque confermata la condanna ella società, facendo i giudici di seconde cure riferimento alla previsione di cui all'art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001.

In sede di ricorso per cassazione, la difesa impugnava la sola decisione inerente la condanna della società anche se le censure riguardavano essenzialmente la insussistenza del reato di corruzione: si sosteneva infatti che essendo venuta meno la colpevolezza del singolo per il reato di corruzione, reato presupposto della responsabilità della persona giuridica, si sarebbe dovuta ritenere insussistente anche la colpevolezza dell'ente. Inoltre, nel ricorso si evidenziava come i giudici di merito avessero ritenuto la responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001 osservando che, essendo stata provata la condotta corruttiva ascritta al componente del consiglio di amministrazione della persona giuridica, «non [poteva] dubitarsi che il responsabile del reato presupposto abbia [avesse] nell'esclusivo interesse della società, identificabile nel conseguimento dell'autorizzazione all'adeguamento dell'impianto brindisino», senza però che queste motivazioni, che avevano spinte il privato all'attività di corruzione, fossero state erano oggetto della contestazione.

La questione

Ai sensi dell'art. 8 comma 2 d.lgs. n. 231 del 2001, «salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell'ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l'imputato ha rinunciato alla sua applicazione». Alla luce di questa disposizione è dunque possibile che il processo nei confronti della persona fisica prosegua e la responsabilità della stessa venga riconosciuta anche quando nei confronti della persona fisica responsabile del reato presupposto e che ha agito a vantaggio o nell'interesse dell'ente si disponga di non doversi procedere per essere prescritto il relativo delitto: va ricordato, infatti, che la disciplina in tema di prescrizione dettata dal d.lgs. n. 231 del 2001 è assai diversa rispetto a quella dettata dagli artt. 157 del codice penale.

In particolare, l'art. 22 d.lgs. n. 231 del 2001 prevede che «1. le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato. 2. Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59. 3. Per effetto della interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione. 4. Se l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio» (in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., Sez. II, 15 dicembre 2001, Cerasino, in Mass. Uff., n. 256705, secondo cui «in tema di responsabilità da reato degli enti, la richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica intervenuta entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, in quanto atto di contestazione dell'illecito, interrompe il corso della prescrizione e lo sospende fino alla pronunzia della sentenza che definisce il giudizio»; Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2013, Citibank, in Mass. Uff., n. 255415, secondo cui, l'intervenuta prescrizione del reato presupposto successivamente alla contestazione all'ente dell'illecito non ne determina l'estinzione per il medesimo motivo, giacché il relativo termine, una volta esercitata l'azione, non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica).

Le ragioni per cui il legislatore è pervenuto ad una regolamentazione dell'istituto della prescrizione nell'ambito del procedimento contro le persone giuridiche così divergente rispetto al regime che il medesimo istituto ha in sede di processo penale nei confronti di persone fisiche sono rinvenute nella circostanza che da un lato l'illecito dell'ente è un illecito amministrativo e quindi pare opportuno il richiamo a quanto in tema di prescrizione dispone l'art. 28 l. n. 689 del 1981 e dall'altro che la disciplina contenuta nel d.lgs. 231 realizza un adeguato bilanciamento fra le esigenze di durata ragionevole del processo - essendo comunque previsto un termine di prescrizione breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito - e le esigenze di garantire un'adeguata completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente (Cass. pen., Sez. IV, 1 ottobre 2019, n. 1432). In particolare, l'effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale.

La disciplina suddetta è stata denunciata per contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, e 111 Cost., ma la Cassazione (Cass. pen., Sez. VI, 10 novembre 2015, Bonomelli, in Mass. Uff., n. 267047; Cass. pen., Sez. II, 27 settembre 2016, Riva, sul punto non massimata) ha ritenuto manifestatamente infondata la questione di legittimità, atteso che la diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente, e l'impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 nell'ambito e nella categoria dell'illecito penale, giustificano il regime derogatorio della disciplina della prescrizione. Inoltre, si ritiene che non vi sia alcuna violazione del principio della ragionevole durata del processo e del diritto di difesa anche perché il legislatore ha tenuto conto di tali esigenze, da un lato fissando, all'art. 22 d.lgs. n. 231 del 2001, il termine massimo di cinque anni dalla data di consumazione del reato perché la prescrizione possa essere impedita mediante un atto interruttivo, e dall'altro escludendo in ogni caso, mediante l'art. 60 d.lgs. n. 231 del 2001, la possibilità di procedere alla contestazione dell'illecito all'ente se prima del compimento di tale atto si sia estinto per prescrizione il reato presupposto.

Quanto al possibile contrasto con gli artt. 41 e 117 Cost in riferimento all'art. 6 della Convenzione E.D.U., si ritiene che la previsione nel d.lgs. n. 231 del 2001 di limiti temporali raccordati alla generale disciplina civilistica in materia di prescrizione esclude l'incompatibilità del regime dettato per la prescrizione dell'illecito amministrativo dipendente da reato con il principio di libertà dell'iniziativa economica, mentre la dedotta violazione dell'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 6 della Convenzione E.D.U. sarebbe insussistente non potendosi qualificare la responsabilità degli enti collettivi come avente natura penale. Inoltre, la pronuncia di sentenza di prescrizione nei confronti degli imputati persone fisiche non produce alcun pregiudizio per l'ente, sia perché non implica per questo alcun vincolo formale in ordine alla ricostruzione del fatto, sia perché non esonera l'accusa dal dimostrare puntualmente l'esistenza del reato presupposto, sia perché non impedisce all'ente di chiedere l'ammissione e produrre prove utili ad escludere o a far ragionevolmente dubitare della sussistenza del fatto di reato quale imprescindibile componente della «fattispecie complessa» da cui discende la responsabilità amministrativa (in dottrina, cfr. GALLUCCIO, Ancora in tema di sospensione condizionale e procedimento penale a carico dell'ente, in Cass. Pen., 2012, 3516; BENDONI, Il rapporto fra confisca per equivalente e prescrizione, ivi, 2014, 1226; SALVATORE, L'interruzione della prescrizione nel sistema del d.lgs 231/2001, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2/2009; BELTRANI, La responsabilità dell'ente da reato prescritto (Commento a Cass. pen., n. 21192, 25 gennaio 2013), ivi,2/2014.

Si ricorda che nell'interpretazione del citato art. 22 si registra un contrasto in giurisprudenza con riferimento all'individuazione del momento della produzione degli effetti interruttivi della contestazione. Alcune pronunce hanno sostenuto che «in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'ente, in quanto atto di contestazione dell'illecito, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231» (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 1 ottobre 2019, n. 1432; Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012; Cass. pen., Sez. II, 20 marzo 2012 n. n. 10822), mentre altre pronunce hanno sostenuto che, sempre in tema di responsabilità da reato degli enti, «la richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica interrompe il corso della prescrizione, in quanto atto di contestazione dell'illecito, solo se, oltre che emessa, sia stata anche notificata entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, dovendo trovare applicazione, ai sensi dell'art. 11, primo comma, lett. r), L. 29 settembre 2000, n. 300, le norme del cod. civ. che regolano l'operatività dell'interruzione della prescrizione» (Cass. pen., Sez. VI, 30 aprile 2015, n. 18257).

Secondo il primo orientamento, dunque, deve considerasi risolutivo il rinvio dell'art. 59 del d.lgs n. 231 del 2011 all'art. 405 comma 1 c.p.p., che individua fra gli atti di contestazione dell'illecito la richiesta di rinvio al giudizio, ovverosia un atto la cui efficacia prescinde dalla notifica alle parti, posto che «il richiamo che la legge delega effettua alle norme del codice civile non consente di trasformare la richiesta di rinvio a giudizio in un atto recettizio, in assenza di ogni indicazione normativa al riguardo; del pari, non è consentito interpolare la norma riconducendo l'effetto interruttivo alla notifica dell'avviso di udienza, ovvero ad un atto a cui la legge non riconosce tale effetto»; di conseguenza, anche nell'ambito del procedimento verso gli enti collettivi, deve ritenersi operante la giurisprudenza secondo cui «in tema dì interruzione della prescrizione del reato, va riconosciuta anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo. Gli atti interruttivi della prescrizione, infatti, hanno valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza nello Stato dell'interesse punitivo» (Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 1999, n. 1387). Al contrario, la seconda linea interpretativa valorizza la lettera dell'art. 11 della legge delega n. 300/2000, per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, la cui lett. r) espressamente stabilisce di "prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lettere g), i) e l) si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati indicati nelle lettere a), b), c) e d) e che l'interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile".

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso della difesa è stato accolto, sulla base di un'attenta ricostruzione della modalità con cui può operare il citato art. 8 d.lgs. n. 231, individuando le condizioni in presenza delle quali può riconoscersi la responsabilità dell'ente collettivo pur in assenza di una dichiarazione di colpevolezza della persona fisica che avrebbe posto in essere il reato presupposto – evenienza questa possibile non solo in caso di intervenuta prescrizione, come nel caso di specie, ma anche per altre ragioni, quali la morte del reo o la mancata individuazione della persona fisica responsabile.

In proposito, la Cassazione richiama la giurisprudenza secondo cui, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma primo, lett. b) d.lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso. Tale accertamento richiede però una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (Cass. pen., Sez.VI, 25 gennaio 2013, n. 21192), accertamento che nel caso di specie è, secondo la Cassazione, mancato per censurabile scelta dei giudici di merito.

Nella decisione si evidenzia peraltro come questa impostazione opera anche in caso di separazione delle posizioni processuali di alcuni degli imputati del reato presupposto per effetto della scelta di riti alternativi. Tale circostanza, infatti, non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell'ente né riduce l'ambito della cognizione giudiziale, per cui dall'assoluzione di uno degli imputati del reato presupposto, non per insussistenza del fatto, non discende automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente, dovendo il giudice procedere ad una verifica del reato presupposto alla stregua dell'integrale contestazione dell'illecito formulata nei confronti dell'ente, accertando la sussistenza o meno delle altre condotte poste in essere dai coimputati nell'interesse o a vantaggio dell'ente (Cass. pen., Sez. VI, 25 luglio 2017, in Mass. Uff., n. 271563).

Osservazioni

La sentenza affronta un tema particolarmente delicato che attiene alle corrette modalità di applicazione di una disposizione presente nel d.lgs. n. 231 del 2001 e che consente la punibilità della persona giuridica anche nei casi in cui non sia stato individuato l'autore del reato presupposto.

Questa previsione non ha ricevuto consensi in dottrina, che l'ha ritenuta di fatto inapplicabile (VINCIGUERRA, La struttura dell'illecito,in VINCIGUERRA – CERESA GASTALDO –ROSSI, La responsabilità dell'ente per il reato commesso nel suo interesse, Padova 2004, 13), ritenendosi indispensabile per pervenire alla condanna la persona giuridica la previa individuazione del soggetto persona fisica che ha realizzato reato presupposto. In effetti, in primo luogo non è indifferente l'identità dell'autore dell'illecito alla luce di quanto previsto dalle lett. a) e b) dell'art. 5 del d.lgs. n. 231/2001 in quanto, a seconda che responsabile per il reato sia ritenuto un soggetto posto in posizione cosiddetta apicale o un soggetto sottoposto all'altrui direzione, mutano l'onere della prova circa la sussistenza della colpa organizzativa, l'incidenza causale dell'omessa vigilanza sulla condotta delittuosa e la possibilità di escludere l'inosservanza degli obblighi di vigilanza in caso di adozione ed attuazione del modello organizzativo – gestionale; in secondo luogo, si consideri come l'individuazione dell'autore del reato sia essenziale per decidere se applicare o meno le sanzioni interdittive, in quanto solo per i reati commessi da persone soggette all'altrui direzione esse sono disposte quando “la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative”, secondo quanto dispone l'art. 13, comma 1, lett. a) del decreto; si consideri ancora come dalla identificazione del reo possano «derivare conseguenze per la valutazione della gravità del fatto dell'ente, nell'ambito della quale gravità rientra anche il grado di colpevolezza dell'autore del reato».

Anche il giudizio circa la sussistenza della circostanza che il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente richiede che il giudice penale accerti il singolo responsabile dell'illecito, non foss'altro per comprendere la ragione della condotta criminosa, così accertando che la stessa è stata tenuta (esclusivamente o unitamente ad altre ragioni) al fine di avvantaggiare la società di appartenenza.

La rilevanza di queste considerazioni viene spesso sottovalutata ed in alcune pronunce ci si limita a richiedere che, a fondamento della responsabilità dell'ente collettivo, venga posto un generico accertamento circa l'esistenza del reato «inteso come tipicità del fatto, accompagnato dalla sua antigiuridicità oggettiva, con esclusione della sua dimensione psicologica» (Cass. pen., Sez. II, 24 maggio 2016, n. 26304) e sulla base di questa affermazione la Cassazione ritiene che possa parlarsi di una responsabilità da reato della società anche quando la mancata individuazione dell'autore del fatto illecito abbia precluso l'accertamento dell'elemento soggettivo del reato (Cass. pen., Sez. II, 24 maggio 2016, n. 26304), oppure quando non è stata individuata la categoria di appartenenza del medesimo - se si tratti cioè di un soggetto apicale ovvero di un dipendente -, affermando infine che anche il profilo attinente alla circostanza che l'illecito si stato commesso a vantaggio o nell'interesse dell'ente potrebbe essere accertato (ma francamente non vediamo come!) in assenza di una compiuta individuazione della persona fisica responsabile del diritto.

Decisamente più corretta rispetto a questa impostazione ci pare invece la tesi secondo cui, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice deve comunque procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.