Il sequestro preventivo: caratteristiche e presupposti applicativi

Cristina Ingrao
30 Dicembre 2020

Nell'apprezzamento del fumus commissi delicti il giudice deve valutare l'astratta configurabilità del reato, intesa come congruità degli elementi rappresentati dall'accusa rispetto alla fattispecie contestata. Ciò comporta l'applicazione di una regola di giudizio improntata alla “plausibilità” e un ambito di cognizione relativo alla “sussistenza del reato”...
Massima

Nell'apprezzamento del fumus commissi delicti il giudice deve valutare l'astratta configurabilità del reato, intesa come congruità degli elementi rappresentati dall'accusa rispetto alla fattispecie contestata. Ciò comporta l'applicazione di una regola di giudizio improntata alla “plausibilità” e un ambito di cognizione relativo alla “sussistenza del reato”.

Con riguardo al sequestro per equivalente, quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, esso è legittimo solo quando sia impossibile, in fatto, il sequestro diretto del profitto del reato. A tal fine, peraltro, assumono rilievo anche situazioni di impossibilità transitoria e reversibile, purché sussistenti al momento della richiesta e dell'adozione della misura.

Il caso

Il caso in esame trae origine dall'impugnazione di un decreto del GIP del Tribunale di Agrigento, che disponeva il sequestro preventivo, ex art. 321, comma 1, c.p.p., a carico degli imputati R.F. e B.A., indagati per il reato di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 nella qualità, rispettivamente, di amministratore di diritto e di fatto della società “R&B P. s.r.l.” (una società di pubblicità), dei saldi attivi rinvenibili sui rapporti finanziari loro riconducibili fino alla concorrenza della somma di denaro corrispondente al valore del profitto del reato loro contestato, e, in mancanza, il sequestro per equivalente (exart. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 e art. 321, comma 2, c.p.p.) di quote di beni mobili e immobili degli stessi fino alla concorrenza della stessa somma.

Per il GIP sussisteva il fumus commissi delicti del reato di cui all'art. 10 citato e lo desumeva dalle risultanze della verifica fiscale effettuata nei confronti della citata società, con riguardo agli anni di imposta 2012, 2013 e 2014. Il giudice, in particolare, attribuiva rilievo:

  • alla mancata esibizione della documentazione contabile la cui istituzione e tenuta è obbligatoria;
  • alla mancanza di giustificazioni, da parte dei coindagati, in ordine alla predetta circostanza;
  • all'assenza di denunce di furto o smarrimento aventi ad oggetto tale documentazione;
  • alla mancata presentazione delle dichiarazioni richieste dalla legge ai fini delle imposte, con riferimento agli anni d'imposta oggetto del controllo fiscale;
  • alla discrasia tra i dati comunicati dall'azienda sottoposta a controllo e quelli forniti da clienti e fornitori della società interessata.

Ciò premesso, il GIP disponeva il sequestro preventivo a carico dei coindagati - anche per equivalente - del profitto del reato, corrispondente all'ammontare complessivo delle imposte IRES e IVA evase.

Con apposito ricorso, la difesa contestava il provvedimento di sequestro preventivo.

In primo luogo, si adduceva il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, non essendo stato chiarito in che termini il ricorrente avrebbe apportato un contributo concorsuale alla realizzazione del reato contestatogli in qualità di amministratore di fatto della società di cui si è detto.

Con un secondo motivo, poi, si eccepiva l'illegittimità del provvedimento di sequestro per carenza del presupposto del sequestro per equivalente, trattandosi di un provvedimento che presume l'impossibilità, anche transitoria e reversibile, di reperire i beni pertinenti al reato.

Il ricorrente, infine, confutava la configurabilità della fattispecie contestata, deducendo il difetto del fumus commissi delicti. Nella specie, contestava, da un lato, l'insussistenza del fumus della condotta commissiva consistente nell'occultamento o distruzione dei documenti contabili la cui istituzione e tenuta è obbligatoria per legge; e, dall'altro lato, del fumus del suo status di amministratore di fatto.

La questione

La questione oggetto della decisione in esame attiene ai presupposti applicativi di quella misura cautelare reale che è il sequestro preventivo. Questo si caratterizza perché pone su una cosa mobile o immobile un vincolo di indisponibilità che ha la finalità di interrompere il compimento di un reato o di impedirne il compimento di nuovi. Il codice ha previsto dei requisiti ai fini della sua applicazione che, da un lato, permettono di tutelare la collettività, e, dall'altro, evitano che il giudice ecceda dalle sue funzioni ed eserciti una attività di mera prevenzione di un reato. Essi sono il fumus commissi delicti e il periculum in mora. Con riguardo al caso oggetto dell'ordinanza in esame ci si chiede: quando si possono ritenere integrati i presupposti del fumus commissi delicti? Inoltre, quando trova applicazione il sequestro per equivalente?

Le soluzioni giuridiche

La soluzione giuridica adottata dal Tribunale del riesame di Agrigento. Il Tribunale del riesame di Agrigento rigetta il ricorso avanzato dai ricorrenti.

In particolare, con riguardo al primo motivo, quello della nullità del decreto impugnato per carenza motivazionale, la Corte rileva che la motivazione richiesta dall'art. 321 c.p.p. è diretta a consentire all'interessato e al giudice dei successivi gradi di giudizio la conoscenza delle ragioni del provvedimento, per verificarne correttezza e legittimità. In tal senso, è da ritenersi legittima anche la motivazione per relationem. Ciò in quanto lo scopo della forma prevista è raggiunto nel momento in cui la motivazione richiamata è conosciuta o conoscibile dall'interessato, in modo che egli sia in grado di controllarne congruenza, logicità e legittimità (così Cass. pen., Sez. I, 12 gennaio 2000). Deve, quindi, escludersi la carenza motivazionale quando il decreto impugnato presenti quei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, che rendano comprensibile l'iter logico seguito dal giudice nell'adozione del provvedimento cautelare e in concreto possibile l'esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto colpito dalla misura cautelare reale, alla luce della tipologia di reato contestato (sul punto Cass. pen., Sez. III, n. 16763 del 2018; Cass.pen., Sez. III, n. 7018 del 2018).

Con riguardo al caso di specie l'enunciazione del fatto contestato appare chiara e inequivoca, tanto che il ricorrente esercitava ogni difesa sul punto, sicché la dedotta lacunosità della contestazione del concorso di persone nel reato di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, sotto il profilo del contributo concorsuale dell'istante in qualità di amministratore di fatto, è superata dalla concretezza degli elementi fatti valere dal ricorrente.

Con riguardo, poi, al secondo motivo di ricorso, - relativo all'illegittimità del decreto impugnato per carenza del presupposto del sequestro preventivo per equivalente -, il Tribunale nel provvedimento in esame precisa che tale tipologia di ricorso, quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo solo quando sia impossibile, in fatto, il sequestro diretto del profitto del reato. A tal fine, peraltro, assumono rilievo anche situazioni di impossibilità transitoria e reversibile, purché sussistenti al momento della richiesta e dell'adozione della misura (v. Cass.pen., Sez. un., n. 10561 del 2014, v., da ultimo, Cass.pen., Sez. III, n. 49199 del 2018).

Occorre precisare inoltre che, per la giurisprudenza della Suprema Corte, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in virtù della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Cass.pen., Sez. un., n. 31617 del 2015); in merito, poi, alla situazione di impossibilità di reperire beni pertinenti al reato nei termini chiariti, la verifica di tale circostanza non deve comportare la preventiva infruttuosa "escussione" del patrimonio della società. In particolare, «si ritiene sufficiente l'esistenza di indicazioni logicamente contrarie alla affermazione della disponibilità di beni in capo alla persona giuridica, non essendo tenuta la pubblica accusa a una preventiva ricerca di liquidità ovvero di altri cespiti riferibili alla persona giuridica ove, dagli atti, emerga, sia pure in termini deduttivi e non materialmente accertati, una situazione di incapienza del patrimonio sociale» (v. Cass. pen.,Sez. III, n. 3591 del 2018).

Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale grava, dunque, sull'indagato l'onere di fornire la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta, sicché deve ritenersi legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell'indagato sul presupposto dell'impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita tale prova (Cass. pen.,Sez. III, n. 41259 del 2018).

Ciò premesso, facendo applicazione dei principi statuiti dalla giurisprudenza di legittimità, tenuto conto dello stato di liquidazione della società, da cui emerge l'incapienza del patrimonio sociale, deve escludersi che nel caso di specie il GIP abbia disposto il sequestro preventivo per equivalente nei confronti degli indagati senza nessuna analisi della possibilità concreta del sequestro diretto del profitto del reato.

Il GIP ha, invero, innanzitutto disposto il sequestro diretto del denaro costituente il profitto del reato, da considerarsi come il vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell'illecito contestato all'odierno indagato. Peraltro, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile è costituito da qualunque vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario (Cass.pen., Sez. un., n. 18374 del 2013). Con riguardo al caso di specie il GIP, disponeva il sequestro per equivalente di quote di beni mobili e immobili nella titolarità degli indagati fino al valore corrispondente al profitto realizzato mediante la condotta loro contestata solo per l'ipotesi di mancanza, e dunque di impossibilità, di reperire sui saldi attivi riconducibili agli indagati il denaro da considerarsi profitto diretto del reato.

Né, in sede di impugnazione cautelare, il ricorrente assolveva l'onere di provare la sussistenza di beni pertinenti al reato sui quali disporre la confisca diretta.

Con riguardo, infine, al terzo motivo di ricorso, inerente all'insussistenza del fumus commissi delicti occorre evidenziare che, nella valutazione di tale requisito quale presupposto di una misura cautelare reale, il giudice deve valutare l'astratta configurabilità del reato, intesa come congruità degli elementi rappresentati dall'accusa rispetto alla fattispecie contestata (cfr. Cass.pen., Sez. I, n. 18491 del 2018). Ciò non significa che il giudice non debba sindacare la rispondenza degli elementi rappresentati dall'accusa alle risultanze investigative (così, Cass.pen., Sez. VI, n. 18183 del 2017), dovendo semmai applicarsi una diversa regola di giudizio improntata alla “plausibilità” piuttosto che alla “probabilità”, e un diverso ambito di cognizione relativo alla “sussistenza del reato” piuttosto che alla “commissione del reato da parte dell'indagato” (cfr. Cass.pen., Sez. III, n. 41282 del 2018). Questo perché tali provvedimenti vengono adottati ad indagini in corso e incidono su beni patrimoniali, quindi non richiedono che gli elementi raccolti dall'accusa raggiungano la soglia della gravità indiziaria a carico dell'indagato (intesa come prognosi di probabile colpevolezza dello stesso), ma esclusivamente che essi rendano plausibile l'ipotesi accusatoria, intesa come sussistenza del reato (Cass.pen., Sez. III, n. 41104 del 2018), sulla base dei fatti risultanti dagli atti, anche alla luce degli elementi forniti dalla difesa, capaci di incidere sulla configurabilità e sussistenza del fumus commissi delicti.

Infine, occorre ricordare come in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al "fumus" del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata (Cass.pen., Sez. II, n. 18331 del 2016).

Ciò detto, occorre inoltre rilevare che, ai fini dell'astratta configurabilità del reato contestato, pur non essendo sufficiente un mero comportamento omissivo (vale a dire l'omessa tenuta delle scritture contabili), la prova del quid pluris a contenuto commissivo, consistente nell'occultamento o distruzione della documentazione la cui istituzione e tenuta è obbligatoria, può essere desunta anche dal rinvenimento presso terzi delle fatture, in quanto «risponde a canoni di logica desumere da (tale) rinvenimento che di quel documento esista fisicamente una copia presso chi l'ha emessa», con la conseguenza che «non è manifestamente illogico desumere dal mancato rinvenimento di detta copia la conseguenza della sua distruzione ovvero del suo occultamento» (Cass.pen., Sez. III, n. 41683 del 2018).

Con riguardo al caso in esame, la ricostruzione accusatoria appare, per il Tribunale del riesame, meritevole di conferma, in quanto dagli atti di indagine emergeva che con riguardo agli anni di imposta oggetto di verifica fiscale la società non presentava le dichiarazioni dei redditi ai fini delle imposte dirette e dell'iva; che durante i controlli presso la sede della società non veniva esibita la documentazione contabile di cui è obbligatoria la tenuta, né la P.G. la rinveniva presso la abitazione privata del legale rappresentante o lo studio del ragioniere depositario delle scritture. Tale ragioniere, peraltro, a fronte della richiesta di esibire la documentazione relativa alla società sottoposta a controllo per il periodo dall'1 gennaio 2012, rappresentava di essere stato depositario delle predette scritture contabili solo fino al 2009; nessuna giustificazione veniva addotta in merito alla mancata esibizione di tali scritture contabili, né tantomeno risultavano, alle forze di polizia, denunce di smarrimento o furto delle stesse.

Infine, dai controlli di coerenza esterni effettuati dalla Guardia di finanza emergeva la discrasia tra i dati comunicati dall'impresa soggetta a controllo e i quelli comunicati da clienti e fornitori della stessa azienda. In particolare, mediante tali controlli presso clienti e fornitori venivano acquisite fatture mai esibite dagli amministratori della società.

Con riguardo, invece, alla serietà degli indizi in ordine allo status di amministratore di fatto del ricorrente B., occorre precisare che, ai fini della sussistenza della qualifica contestata, per costante orientamento giurisprudenziale, si richiede l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Ma, a ben vedere, "significatività" e "continuità" non comportano necessariamente l'esercizio di "tutti" i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di una apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (così, Cass.pen., Sez. V, n. 35346 del 2013, e Cass. pen., Sez. III, n. 22108 del 2014).

Ciò posto, nel caso di specie, dagli atti di indagine, emergevano significativi indici sintomatici dell'esercizio di poteri di amministrazione sotto il profilo del monopolio della gestione dei rapporti con clienti e fornitori e del controllo delle operazioni commerciali, tutt'altro che occasionale ed episodico, da parte del B. Nella specie, questo si evinceva dalle dichiarazioni rilasciate da alcuni clienti e fornitori, che intrattenevano rapporti commerciali con la società interessata con riguardo agli anni di imposta oggetto di controllo.

Tale contesto indiziario non veniva inficiato dalla documentazione difensiva, diretta a provare l'insussistenza di un formale procura ad negotia e di una delega ad operare sul conto corrente intestato alla società sottoposta a verifica fiscale, trattandosi di dati di carattere formale, non dotati di univoco significato alla luce delle emergenze investigative. Queste ultime, invero, rendono plausibile la prospettazione accusatoria sotto il profilo dell'esercizio, su un piano sostanziale, di poteri gestori da parte del ricorrente B., e non del semplice espletamento di mansioni di ausilio, come prospettato dalla difesa.

Analoghe considerazioni possono essere svolte con riferimento alla circostanza del conferimento dell'incarico di tenuta delle scritture contabili al ragioniere da parte della coindagata R.F., legale rappresentante della società sottoposta a controllo. Si tratta, anche in questo caso, a parere della Corte, di un dato di non univoca connotazione, afferente peraltro ad un solo elemento probatorio, da leggersi alla luce del complessivo quadro indiziario.

In quest'ottica, parimenti, la plausibilità dell'impostazione accusatoria sotto il profilo dell'esercizio di poteri gestori da parte del ricorrente non viene meno in ragione delle ulteriori argomentazioni difensive, non potendosi escludere il fumus dello status di amministratore di fatto in ragione del lavoro di pubblico dipendente esercitato dal ricorrente, trattandosi di una circostanza neutra e in contrasto con le evidenziate emergenze investigative in ordine al ruolo attivo svolto dal ricorrente in seno all'azienda.

Alla luce di quanto esposto, la Corte, conferma, pertanto, il decreto impugnato.

La conferma da parte della corte di cassazione della soluzione avanzata dal tribunale del riesame di Agrigento. Gli imputati, tramite i loro difensori, presentavano ricorso per cassazione avverso le ordinanze (di identico contenuto) adottate dal Tribunale del riesame di Agrigento.

Con il primo motivo di ricorso, lamentavano l'inesistenza del fumus commissi delicti, sul rilievo che le fatture altrimenti reperite dalla Guardia di Finanza, i documenti esibiti nel corso della verifica fiscale e la disponibilità a fornire l'elenco nominativo dei clienti e dei fornitori della società avevano consentito la ricostruzione del reddito d'impresa.

Con un secondo motivo, invece, si deduceva la violazione della legge penale per la carenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine alla posizione soggettiva di amministratore di fatto della società riconosciuta in capo al ricorrente B.A. senza che fosse possibile ravvisare quella significatività e continuità della gestione d'impresa richiesta dalla legge (art. 2639 c.c.).

Con il terzo motivo si deduceva, infine, il vizio di motivazione exart. 606, co. 1, lett. e), c.p.p. per essere stato ritenuto, con motivazione apparente o insufficiente, il monopolio del B. nella gestione dei rapporti clienti/fornitori, benché solo due dei clienti escussi a s.i.t. avessero dichiarato di aver intrattenuto con lui i contatti relativi all'attività della società e senza che fossero stati individuati gli atti tipici attraverso i quali si sarebbe estrinsecata la attività gestoria.

Ciò premesso, la Suprema Corte rigetta il ricorso degli imputati, confermando il provvedimento del Tribunale del riesame di Agrigento.

In primo luogo, la Corte di Cassazione ritiene inammissibile il primo motivo addotto - relativo alla insussistenza del fumus commissi delicti - per manifesta infondatezza.

Le ordinanze impugnate attestano che la società non esibiva nel corso della verifica, senza fornire nessuna giustificazione, la documentazione contabile di cui è obbligatoria la tenuta e la conservazione, ad eccezione di alcune fatture, e che emergeva una discrasia tra i dati comunicati e quelli reperiti altrove da controlli incrociati, effettuati presso clienti e fornitori.

Nel ravvisare il fumus commissi delicti, il Tribunale del riesame si atteneva quindi al principio giurisprudenziale consolidato, secondo cui, in tema di reati tributari, l'impossibilità di ricostruire il reddito o il volume d'affari derivante dalla distruzione o dall'occultamento di documenti contabili, elemento costitutivo del reato di cui all'art. 10 citato, non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando è necessario procedere all'acquisizione della documentazione mancante presso terzi o aliunde (Cass. pen., Sez. III, n. 41683 del 2018).

Quanto al fatto che non sia stato escluso l'elemento soggettivo, va ricordato che, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata; ne consegue che lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell'elemento soggettivo del reato, purché esso emerga "ictu ocuti" (Cass. pen., Sez. II, n. 18331 del 2016). Inoltre, la doglianza circa il mancato rilievo dell'assenza di elemento soggettivo è infondata anche a fronte del fatto che la società non aveva presentato, negli anni sottoposti a verifica, la dichiarazione sui redditi, e del rilievo secondo cui le informazioni fornite in sede di verifica presentavano discrasie con quanto poi accertato.

Secondo la Suprema Corte manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione della legge penale per la carenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine alla posizione soggettiva di amministratore di fatto della società del ricorrente B.A., senza che fosse possibile ravvisare quella significatività e continuità della gestione d'impresa richiesta dalla legge.

L'ordinanza impugnata dal ricorrente B. attesta che dagli atti di indagine emergevano significati indici sintomatici dell'esercizio, da parte dello stesso, di poteri di amministratore di fatto della società, sotto il profilo del monopolio della gestione dei rapporti con clienti e fornitori e del controllo delle operazioni commerciali. Nell'ordinanza, in particolare, si citano i verbali di s.i.t. resi dai clienti che tali circostanze evidenziano, osservandosi come non rilevi in contrario l'assenza di formali procure o il fatto che il medesimo avesse un altro impiego come dipendente comunale.

Questo giudizio è conforme all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, fondato sulla equiparazione della figura dell'amministratore di fatto a quella dell'amministratore di diritto ai fini della responsabilità penale, ricavabile dall'art. 2639, co. 1, c.c., disposizione ritenuta quale codificazione di un principio interpretativo applicabile a tutte le ipotesi di reato proprio riconducibili alla figura dell'amministratore di società (v. Cass. pen., Sez. V, n. 39535 del 2012, riferita ai reati fallimentari).

L'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive costituisce peraltro oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Cass. pen., Sez. V, n. 8479 del 2016) e i destinatari delle norme penali riferibili a chi amministri le società vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Cass. pen., Sez. V, n. 41793 del 2016). Questi principi, formulati con riguardo ai reati fallimentari, sono estensibili ai reati tributari, in relazione ai quali si è affermato che, ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore di fatto, non occorre l'esercizio di "tutti" i poteri tipici dell'organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Cass. pen., Sez. III, n. 22108 del 2014).

In ogni caso, essendo nella specie applicabile il disposto di cui all'art. 325 c.p.p., il ricorso per cassazione proposto contro l'ordinanza del Tribunale del riesame in materia di decreto di sequestro preventivo funzionale alla confisca è ammesso solo per violazione di legge (Cass. pen., Sez. III, n. 45343 del 2011). E con riguardo alle misure cautelari reali costituisce violazione di legge, deducibile mediante ricorso per cassazione, solo l'inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma non anche la sua illogicità manifesta, ai sensi dell'art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p. (Cass. pen., Sez. II, n. 5807 del 2017), sicché, per la Suprema Corte, anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile, perché proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge.

Osservazioni

In conclusione il Tribunale di Agrigento, dopo aver esposto i principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di presupposti del fumus commissi delicti, lo ritiene, in relazione al caso di specie, sussistente, con una decisione avallata anche dalla Corte di Cassazione, sia con riguardo alfumus della condotta commissiva consistente nell'occultamento o distruzione dei documenti contabili la cui istituzione e tenuta è obbligatoria per legge; sia al fumus dello status di amministratore di fatto della società pubblicitaria coinvolta nel caso di specie.

Il Tribunale motiva nel senso che, per la previsione di tale requisito, il giudice deve valutare l'astratta configurabilità del reato, intesa come congruità degli elementi rappresentati dall'accusa rispetto alla fattispecie contestata. Ciò comporta l'applicazione di una diversa regola di giudizio improntata alla “plausibilità”, e un diverso ambito di cognizione relativo alla “sussistenza del reato”. Questo perché tali provvedimenti vengono adottati ad indagini in corso e incidono su beni patrimoniali, quindi non richiedono che gli elementi raccolti dall'accusa raggiungano la soglia della gravità indiziaria a carico dell'indagato, ma che rendano plausibile l'ipotesi accusatoria, sulla base dei fatti risultanti dagli atti, anche alla luce degli elementi forniti dalla difesa. A ciò si aggiunga che in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata.

Con riguardo alla serietà degli indizi in ordine allo status di amministratore di fatto del ricorrente, poi, occorre precisare che, ai fini della sussistenza della qualifica contestata, la giurisprudenza costante richiede l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica, che postulano l'esercizio di una apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale. Anche questa circostanza è provata nel caso di specie.

Infine, in relazione all'ambito applicativo del sequestro preventivo, il Tribunale precisa che tale tipologia di ricorso, quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo solo quando sia impossibile, in fatto, il sequestro diretto del profitto del reato. A tal fine, assumono rilievo anche situazioni di impossibilità transitoria e reversibile, purché sussistenti al momento della richiesta e dell'adozione della misura. Nel caso di impossibilità di reperire beni pertinenti al reato, la verifica di tale circostanza non deve comportare la preventiva infruttuosa "escussione" del patrimonio della società, ritendendosi sufficiente l'esistenza di indicazioni logicamente contrarie alla affermazione della disponibilità di beni in capo alla persona giuridica.

Anche queste circostanze risultano soddisfatte dalla decisione in commento e la rendono legittima e condivisibile.

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