Ricette “al buio”: la condotta del medico integra il reato di falso ideologico ex art. 481 c.p.

Vittorio Nizza
20 Gennaio 2021

La questione rimessa alla Corte riguardava la configurabilità del reato di falsità ideologica commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità ex art. 481 c.p. della condotta del medico che rilasci una ricetta bianca...
Massima

Integra il reato di falsità ideologica in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, la condotta del medico che prescriva sul proprio ricettario personale (cd. "ricetta bianca") un farmaco senza accertare la sussistenza della specifica condizione patologica che ne giustifichi la somministrazione, in quanto, pur non essendo necessaria la esplicitazione della anamnesi e della diagnosi correlata alla prescrizione, tale ricetta ha natura attestativa del diritto dell'interessato alla prestazione farmacologica a cagione del suo stato di malattia.

Il caso

Un medico veniva condannato in primo grado e secondo grado per il reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità ex art. 481 c.p. (imputazione così riformulata in grado di appello a fronte dell'originaria contestazione del reato di falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale di cui all'art. 480 c.p.).

Nel corso dell'istruttoria era emerso che il medico aveva rilasciato due prescrizioni di Andriol, farmaco a base di testosterone, su richiesta del farmacista che aveva venduto degli anabolizzanti in assenza di prescrizione medica ed aveva pertanto necessità di due prescrizioni di comodo per giustificare tali vendite. Si trattava di due prescrizioni farmacologiche redatte su ricettari liberi, c.d. ricette “bianche”, quindi nello svolgimento della propria attività quale libero professionista al di fuori dell'attività in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale.

Secondo la Corte d'Appello il medico aveva agito nel suo ruolo di libero professionista. Quindi non come pubblico ufficiale, ma come esercente una professione sanitaria, pertanto la sua condotta non poteva integrare il reato di cui all'art. 480 c.p. Tuttavia, precisa la Corte d'Appello, il contenuto della prescrizione anche se emessa fuori dall'esercizio in convenzione con il SSN, ha comunque natura certificativa, in quanto attesta il diritto dell'interessato all'erogazione del medicinale in conseguenza del riscontrato stato patologico. La prescrizione farmacologica presuppone l'accertamento da parte del medico della sussistenza di una condizione patologica che giustifichi la somministrazione del farmaco a prescindere dall'esplicazione sulla ricetta stessa della diagnosi correlata alla prescrizione. La sentenza di secondo grado, pertanto, conclude ritenendo che la condotta del medico che rilasci una ricetta rilasciata senza alcun tipo di accertamento, come accaduto nel caso di specie, integri il reato di cui all'art. 481 c.p.

Avverso la sentenza d'appello proponeva ricorso l'imputato evidenziando, in un unico motivo, come nel caso di specie si trattasse di ricette “bianche”, non riferibili al SSN, che non costituiscono “certificati” bensì solo scritture private aventi natura autorizzativa, in quanto non contengono alcuna attestazione di fatti di cui l'atto stesso è destinato a provare la verità, con cui il medico autorizza al cittadino l'acquisto del farmaco indicato altrimenti non liberamente vendibile. Si tratterebbe, pertanto di ricette su carta bianca con cui il medico si limita a prescrivere un farmaco senza dare atto di uno stato patologico.

La questione

La questione rimessa alla Corte riguardava la configurabilità del reato di falsità ideologica commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità ex art. 481 c.p. della condotta del medico che rilasci una ricetta bianca, ossia emessa al di fuori del SSN, al buio, senza alcun tipo di contatto con il paziente. In particolare la Corte si sofferma a valutare il carattere della ricetta bianca, ossia se la stessa possa essere ritenuta un certificato contenetene un'attestazione di fatti di cui è destinato a provare la verità.

Le soluzioni giuridiche

La Corte, in primo luogo, confermando quanto affermato nella sentenza di appello, ribadisce come, secondo la giurisprudenza ormai costante, il medico che eserciti la propria attività in regime di libera professione, al di fuori del SSN non riveste la qualifica di pubblico ufficiale, bensì quella di esercente un servizio di pubblica necessità.

Inoltre, occorre distinguere tra ricette “rosse” e “bianche”. Le prime sono redatte su ricettario regionale e consentono l'erogazione di farmaci e prestazioni a carico del servizio sanitario regionale. Possono esse compilate solo da medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il SSN per prescrivere una terapia farmacologica, una visita specialistica o un esame diagnostico a carico del SSN. Pertanto esse devono indicare il nome e cognome dell'assistito, il codice fiscale, il codice dell'azienda sanitaria di riferimento, eventuali codici e motivi di esenzione. Tale tipologia di ricetta serve anche al farmacista per ottenere il rimborso dallo stato del costo dei medicinali forniti agli assistiti. Di conseguenza ha anche una finalità amministrativa e contabile. La ricetta “bianca”, invece, è quella che compila il medico sul suo ricettario personale e consente l'erogazione di prestazioni o formaci a completo carico del cittadino. Su tale tipo di ricetta devono essere indicati il nome e cognome del medico, la data, il luogo e la sua firma autografa; non è invece necessaria l'indicazione delle generalità dell'assistito né dell'anamnesi.

In ogni caso, specifica la suprema Corte, anche le ricette bianche hanno natura certificativa, in quanto attesta, attraverso la prescrizione, che l'assistito ha diritto a quella specifica prestazione o a quel determinato farmaco. La prescrizione medica infatti presuppone un'attività di accertamento diretto da parte del sanitario che la emette, che si pone in rapporto di funzionalità con il contenuto della certificazione stessa. L'attività di accertamento diretto, precisa la Corte, può assumere varie forme, a seconda dei casi, ma non può certamente basarsi sulla mera riproduzione di una semplice notizia, in quanto il sanitario attesta che il soggetto fruitore appartiene ad una di quelle categorie rispetto alle quali il farmaco è destinato a produrre i suoi effetti. Presupposto fondamentale, pertanto, perché il sanitario possa rilasciare una prescrizione di un farmaco anche su carta bianca è il previo accertamento delle condizioni del paziente. Secondo la Corte non rilevano le modalità con cui venga effettuato tale accertamento, specifica visita del paziente, colloqui personale con il medico, svolgimento di esami clinico-diagnostici, pregressa conoscenza del paziente, purché vi sia stata un'attività di ricognizione diretta. Lo stesso Codice Deontologico della professione medica prevede che il sanitario, nel redigere certificazioni, valuti ed attesti solo dati clinici che abbia direttamente constatato, ossia dati obiettivi di competenza tecnica che abbia personalmente accertato in totale aderenza alla realtà. Non possono mai essere rilasciate ricette “al buio”, senza che il medico sia sicuro della patologia o si basi soltanto su quanto gli viene riferito dal paziente senza provvedere a riscontrare oggettivamente la sussistenza della patologia.

La ricetta medica, anche quella “bianca” deve pertanto considerarsi un certificato in quanto il suo contenuto rappresenta una “certificazione”, attesta cioè fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità.

La Corte, richiamandosi a quanto affermato dalle Sezioni Unite, specifica che le ricette bianche rientrano tra i certificati ma non provengono dai pubblici ufficiali, ma da esercenti un servizio di pubblica necessità. Come tali, pertanto non sono né atti pubblici, tutelabili ai sensi degli articoli 476 o 479 c.p., né certificati amministrativi, tutelabili a norma degli articoli 477 o 480 c.p.

I certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità sono comunque attestazioni private qualificate con una particolare rilevanza pubblica, che ne giustifica la tutela contro le falsità ideologiche, punite a norma dell'art. 481 c.p.

La prescrizione medica compilata dal sanitario che opera in regime di libera professione ha comunque una duplice funzione. In primo luogo di atto certificativo, in quanto presuppone una condizione di malattia o comunque di sofferenza del soggetto che richiede la somministrazione della terapia prescritta e presuppone un'attività ricognitiva da parte del sanitario circa il diritto dell'assistito a quello specifico farmaco. In secondo luogo è un documento di natura autorizzativa, in quanto la prescrizione rende fruibile il servizio da parte dell'assistito consentendogli l'acquisto del medicinale stesso, altrimenti non vendibile, con rimozione di ogni ostacolo all'erogazione del servizio.

La Corte ribadisce come la prescrizione farmacologica redatta su ricettario personale del sanitario secondo la giurisprudenza ormai costante, quindi, rientra nel novero dei certificati tutelati ai sensi dell'art. 481 c.p. “Il reato di falsità ideologica in certificazioni amministrative, quindi, deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione.

Conclude pertanto la Corte rilevando come la ricetta farmacologica “bianca” certifica, previo accertamento, che il destinatario della stessa rientri nelle categorie di soggetti rispetto alla quale il farmaco richiesto svolge la propria finalità curativa. In tal modo, quindi, la funzione accertativa si pone in rapporto di causalità con la funzione autorizzatoria che, per altro aspetto, caratterizza il documento. In tal senso, sulla valenza certificativa, si può realizzare il reato di falso ideologico, nella misura in cui attesti i risultati di un accertamento in realtà mai avvenuto, come nel caso di specie, ove le due ricette erano state rilasciate “al buio” senza previa visita né conoscenza del paziente, ma per l'esigenza del farmacista che aveva già venduto il farmaco.

La Corte pertanto conferma l'impostazione della Corte d'Appello che aveva ritenuto configurabile nel caso di specie il reato di cui all'art. 481 c.p. in quanto entrambe le ricette “bianche” rilasciate dal sanitario risultavano ideologicamente false, sia in quanto all'identità dell'assistito a cui il farmaco era stato venduto sia, quindi, alla totale carenza dei presupposti per la prescrizione del farmaco.

Osservazioni

La questione sottoposta all'attenzione della suprema Corte riguardava la configurabilità del reato di falsità ideologica commessa da un'esercente un esercizio di pubblica necessità della condotta di un medico che aveva emesso due ricette bianche “al buio”, ossia senza aver mai avuto alcun tipo di contatto con il paziente a cui erano destinate.

Venivano pertanto in rilievo due tipi di problemi. In primo luogo, la qualifica del medico nel momento in cui svolge la propria attività privatamente e non per il servizio sanitario nazionale ed in secondo luogo la natura o meno certificativa delle c.d. ricette bianche.

Sotto il primo profilo, in realtà la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere che il medico nel momento in cui svolge l'attività quale libero professionista al di fuori del servizio sanitario nazionale non riveste la qualifica di pubblico ufficiale bensì di incaricato di pubblico servizio.

Sotto il secondo profilo, si pone il problema di qualificare come “certificati” le ricette farmacologiche emesse dal medico in regime di libera professione, al di fuori del servizio sanitario nazionale. Tale aspetto, infatti, risulta determinante per l'applicabilità dell'art. 481 c.p. L'oggetto materiale del reato infatti sono i “certificati” in cui il soggetto esercente un servizio di pubblica necessità attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità. Secondo la giurisprudenza (Cass. II, n. 46273/2011) per qualificare come certificato amministrativo un atto proveniente da un pubblico ufficiale devono concorrere due condizioni: l'atto non deve attestare risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riprodurre attestazioni già documentate. L'atto, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, non deve avere una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si deve limitare a riprodurre anche gli effetti di quello preesistente.

Il certificato disciplinato e tutelato dall'art. 481 c.p. si differenzia però dal certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale in quanto attestazione di fatti rilevanti nell'ambito del servizio di pubblica necessità esercitato dall'autore del fatto. Secondo le Sezioni Unite (Cass. SS.UU. 18056/2002) inoltre “i certificati di esercenti i servizi di pubblica necessità non sono certificati in senso proprio, in quanto possono anche richiedere accertamenti di fatti direttamente percepiti da parte dell'autore dell'atto.” In ogni caso sono riconosciuti come attestazioni private qualificate dotate di particolare rilevanza pubblica e pertanto tutelate anche contro le falsità ideologiche ex art. 481 c.p. oltre che per falsità materiale, contraffazione o alterazione ai sensi dell'art. 485 c.p.

La sentenza in commento, quindi, ribadisce l'orientamento consolidatosi in giurisprudenza che riconosce alla prescrizione medica anche un valore certificativo oltre che autorizzativo rispetto alla possibilità di acquisto del farmaco altrimenti precluso. La ricetta “bianca”, infatti, pur non riportando le indicazioni anagrafiche dell'assistito né l'anamnesi, prevede comunque un'attività ricognitiva da parte del sanitario in merito al diritto dell'assistito all'erogazione di quello specifico farmaco. Non rileva in questo caso la modalità con cui si stato effettuato l'accertamento medico – visita specifica, colloquio personale, pregressa conoscenza del paziente e della patologia – ma occorre comunque che il sanitario abbia visitato il paziente ed abbia verificato che lo stesso necessiti del farmaco prescritto. il medico, pertanto, non può mai rilasciare ricette “al buio”, come accaduto nel caso di specie ove il medico non aveva mai avuto alcun contatto con il paziente ma si era limitato ed emettere la ricetta su richiesta del farmacista.

Occorre concludere, quindi, che si configura il reato di cui all'art. 481 c.p. quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti, esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero e ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione.

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