"San Martino 2020”: il decalogo della Cassazione per l'applicazione delle “tabelle milanesi"

26 Gennaio 2021

La Suprema Corte, con la sentenza n. 25164/2020, ha dettato un vero e proprio decalogo per l'applicazione delle “tabelle milanesi”, ribadendo la sua adesione alle stesse. Questo decalogo muove dal presupposto che nei casi di danni alla persona una quota base di danno morale, proporzionata in via immediata all'entità della menomazione, possa ritenersi presuntivamente provata, come per l'appunto previsto dalle stesse tabelle. L'unica divergenza tra il decalogo e le tabelle riguarda l'ultima colonna di queste (quella della personalizzazione onnicomprensiva) in relazione alla quale la Cassazione sottolinea la distinzione tra liquidazione del danno morale ed aumento personalizzato del danno biologico. Il decalogo, invece, risulta censurabile laddove relega la personalizzazione a situazioni del tutto eccezionali.
Premessa: una sentenza importante

Con la pronuncia Cass. civ., Sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164 la Suprema corte ha confezionato un precedente di sicura importanza per almeno tre motivi:

  • chiarisce, dettando un vero e proprio decalogo per la loro applicazione, la posizione della Cassazione in merito alle “tabelle milanesi” per la liquidazione del danno non patrimoniale da menomazioni psicofisiche, nuovamente condivise fatta eccezione per l'ultima colonna (quella della personalizzazione onnicomprensiva);
  • sancisce a chiare lettere che nei casi di danni alla persona la quota standard di danno morale, di cui alle “tabelle milanesi” proporzionata in via immediata all'entità del danno biologico, può ritenersi presuntivamente provata (questa pronuncia, quindi, non comporta una sistematica sottrazione della quota-base attribuita da tali tabelle al “danno da sofferenza interiore”);
  • rimarca la distinzione tra liquidazione del danno morale e personalizzazione del danno biologico.

Senz'altro, diversamente da quanto paventato da taluni interpreti che hanno ipotizzato in capo alla sentenza in disamina l'obiettivo di “disarticolare” il modello ambrosiano, la Cassazione non ha buttato a mare le “tabelle milanesi”, bensì le ha confermate in relazione al loro impianto portante: esse non sono state poste sotto attacco; ad esse non viene contrapposta la “tabella romana”; le “tavole ambrosiane” rimangono saldamente al loro posto (salve future sorprese da parte del legislatore).

Al contempo, però, occorre confrontarsi con il decalogo che la Cassazione ha dettato per l'applicazione delle stesse: l'occasione di suggellare il nuovo successo delle “tabelle milanesi” potrebbe andare sprecata in assenza dell'unica reale modifica richiesta dalla Suprema corte (la soppressione dell'ultima colonna introdotta nel 2009).

Il decalogo, tuttavia, non va esente da censure: mentre essa è indubbiamente apprezzabile sul piano della prova presuntiva del danno morale di base (in linea con le stesse “tabelle milanesi”), gli approdi relativi alla personalizzazione del danno biologico non convincono affatto; la sentenza, inoltre, risulta incompleta sul fronte della personalizzazione del danno morale, operazione purtroppo lasciata in ombra anche nel neo decalogo.

La presunzione del danno morale «standard» da lesioni personali

Nella direzione auspicata proprio su Ridare.it (cfr. M. Bona, La corretta presunzione del danno morale «standard» da menomazione biologica: la cassazione ultima è in errore, 13 luglio 2020) la sentenza n. 25164/2020 argina il rischio di un sistematico azzeramento della quota base del danno morale per ragioni legate alla sua prova, così confermando un tassello portante delle “tabelle milanesi”.

Nel caso approdato alla Cassazione l'impresa assicuratrice ricorrente aveva lamentato che erroneamente la Corte di Appello triestina aveva accordato al danneggiato, in aggiunta a quanto liquidato sulla base dei parametri tabellari di base, l'importo di 20.000,00 Euro a titolo di danno morale. A questo proposito l'assicuratore osservava come le “tabelle milanesi” fossero fondate su un sistema tale da incorporare nel valore monetario del singolo punto di invalidità anche il pregiudizio morale, sicché la Corte territoriale aveva finito per liquidare quest'ultimo due volte. Inoltre, la ricorrente aveva censurato la sentenza anche in relazione al danno morale “standard”, sostenendo che si trattasse di un “automatismo risarcitorio”.

In merito a tali censure la Suprema corte, traendo spunto dal “nuovo” art. 138 Cod. Ass. Priv., ha innanzitutto operato alcune pregevoli puntualizzazioni sulla «diversa (e non più discutibile) ontologia del danno morale» rispetto al danno biologico, così ribadendo la distinzione tra le due sotto-categorie di danno non patrimoniale (cfr. amplius M. Bona, Importanti precisazioni per lo statuto del danno non patrimoniale: sfera morale, personalizzazioni, rischi di recidive e congiunti del sopravvissuto, I Parte, 2019, n. 5, 1716-1731).

Che «la voce di danno morale mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi» (così la pronuncia in disamina) costituisce ormai un dato consolidato tra la giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, che ha così archiviato la reductio ad unum di cui alle sentenze del “San Martino 2008”.

Tuttavia, la Cassazione ha fatto bene a riprendere tali concetti, atteso che taluni interpreti sospingono per inglobare – non condivisibilmente – nella nozione di “sofferenza soggettiva interiore” tanto la “sofferenza fisica”, costituita dal dolore nocicettivo (voce che, invece, è a tutti gli effetti un danno biologico), quanto la “sofferenza morale” (inclusiva sia del turbamento interno, che discende dal tipo di menomazione subita e dai dolori fisici a questa associati, sia della tristezza, del dolore dell'animo, della paura e delle altre emozioni negative, tra l'altro, diversamente dal primo turbamento, non necessariamente commisurabili in via proporzionale all'entità/gravità della menomazione), per l'appunto pregiudizi separati sul piano delle sotto-categorie giuridiche e delle declinazioni normative del danno non patrimoniale.

Al riguardo, peraltro, risulta del tutto decettiva l'introduzione, supportata da taluna dottrina, di una terza sotto-categoria della “sofferenza”, quella della c.d. “sofferenza menomazione-correlata”, presentata anch'essa, alla stessa stregua della “sofferenza fisica”, quale conseguenza immediata e diretta del danno biologico. Infatti, o si rientra nella prima prospettiva (sofferenze biologicamente rilevanti) oppure si ricade nel secondo scenario (sofferenza morale). Anche all'interno di quest'ultimo scenario sofferenziale vi sono profili morali correlati alla menomazione (per esempio, il senso di offesa e di turbamento che il danneggiato prova per il vulnus arrecato alla sua sfera biologica); al contempo, però, possono annoverarsi vari aspetti interiori determinati da altri fattori (per esempio, la frustrazione dipendente dalle particolari modalità della condotta offensiva, oppure la paura sperimenta in occasione dell'evento per la propria incolumità). D'altro canto, a conferma dell'assenza di fondamento del “trittico sofferenziale” qui censurato, si ha come in seno all'art. 138 Cod. Ass. Priv. lo stesso legislatore distingua unicamente fra due sotto-categorie del danno non patrimoniale, per l'appunto il «danno biologico» ed il «danno morale».

Premesso, dunque, che la quota “standard” del danno morale da lesione psicofisica, così come concepita anche dalla Cassazione nella sentenza n. 25164/2020, sussume tutte le sofferenze ed emozioni interne che si associano normalmente ad una menomazione, questa pronuncia è davvero importante in relazione alla prova richiesta per la liquidazione di tale componente base del danno morale, ciò anche in considerazione dell'opposto trend che da ultimo si stava stagliando (cfr., per esempio, Cass. civ., Sez. III, 4 febbraio 2020, n. 2461, superata dal precedente in disamina).

Sul punto, riprendendo il suo precedente del “San Martino 2008” (Cass. Civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972) nell'unico passaggio condivisibile, la sentenza n. 25164/2020 ha innanzitutto ribadito che il pregiudizio non patrimoniale de quo attiene ad un bene immateriale e, pertanto, «il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo e può costituire anche l'unica fonte di convincimento del giudice».

Muovendo da tale posizione, la Cassazione ha quindi ricordato che, con riferimento al campo dei danni alla persona, legittimamente opera, quale «attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all'accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute», il paradigma della «corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all'insorgere di una sofferenza soggettiva», proporzionalità ritenuta dalla sentenza n. 25164/2020 fondata su una massima di esperienza idonea a reggere anche da sola il convincimento dell'organo giudicante ed al contempo imprescindibile e sufficiente ai fini motivazionali. In particolare, per la Cassazione è senz'altro fondato sul piano sistematico il ragionamento probatorio di tipo presuntivo in forza del quale «tanto più grave […] sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall'aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa».

Trattasi di una massima di esperienza che non solo trova conferma nella convenzione risarcitoria sviluppatasi sia a livello giurisprudenziale, quale vera e propria espressione del “diritto vivente” degli artt. 1226 e 2056 c.c., sin dagli anni ottanta del secolo scorso e poi confluita nelle “tabelle milanesi”, sia a livello legislativo, avendosi come il c.d. “criterio della proporzionalità” sia stato per l'appunto avvallato dal legislatore (cfr. art. 138, comma 2, lett. e), Cod. Ass. Priv.; art. 5, comma 1, lett. c), d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37). Quindi, la Suprema corte ha confermato massime di esperienza non solo razionalmente ineccepibili e giurisprudenzialmente consolidate, ma altresì normativamente suggellate.

Per questa via la Suprema corte, in definitiva, ha avvallato il criterio milanese identificativo di una “quota standard” presunta di danno morale associata alle menomazioni psicofisiche e sempre presuntivamente proporzionata alla gravità della menomazione (il che non significa che tale proporzionalità non possa poi venire rettificata, in via incrementale o decrementale, caso per caso).

Sulla scorta di tali premesse, infatti, la Cassazione ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente applicato tale ragionamento probatorio, laddove, rilevando «tanto le imponenti e penose conseguenze temporanee, quanto le condizioni soggettive del danneggiato, quanto - infine - la percentuale complessiva dell'invalidità permanente», aveva riconosciuto la «quota base» del danno morale (quota «già ricompresa nel valore monetario complessivamente indicato nella tabella applicata»).

Ciò illustrato, alla luce delle perplessità sollevate da taluna medicina legale pare opportuno rimarcare quanto segue: è del tutto evidente come anche la medicina legale, eventualmente insieme ad altri specialisti, possa e pure debba contribuire, a livello descrittivo delle conseguenze della menomazione (tanto quelle inerenti la sofferenza nocicettiva che quelle incidenti in peius sulle attività dinamico-relazionali), a fare emergere profili utili anche all'allegazione ed alla prova presuntiva del pregiudizio immateriale in questione. Il fatto è che eventuali indicazioni peritali (del tutto auspicabili), che possono contribuire alla determinazione, sia in punto an che quantum, del danno morale, non si traducono e non potrebbero tradursi in stime, di competenza medico-legale, di tale danno; anche le valutazioni medico-legali della “sofferenza fisica”, che dovrebbero confluire – secondo criteri ancora da chiarire da parte della medicina legale – nella valutazione del danno biologico, non sono “stime”, per così dire, dirette del danno morale; in altri termini, i contributi tecnici tali da illuminare anche il “danno da sofferenza interiore” non lo misurano, giacché le valutazioni medico-legali (percentuali di i.p., numeri di giorni) non hanno né per oggetto né per fine il rilevamento dei pregiudizi morali, bensì dell'impatto della menomazione sulla funzionalità del danneggiato.

E', invero, esattamente in questi ultimi termini che va intesa la puntualizzazione da parte della Cassazione per la quale il “danno da sofferenza interiore” si sottrae all'accertamento medico-legale.

Il decalogo: nessun attacco alle “tabelle milanesi” (conformate all'art. 138 Cod. Ass. Priv.)

Venendo nello specifico al decalogo dettato dalla Cassazione, che così ha assunto la “direzione” delle “tabelle milanesi” (passaggio chiaramente dirompente), in base ad esso il giudice di merito deve: 1) «accertare l'esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale»; 2) «in caso di positivo accertamento dell'esistenza (anche) di quest'ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto 3) all'indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno)»; 3) «in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno […], considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale»; 4) «in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno, procedere all'aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, punto 3, del novellato codice delle assicurazioni».

Questo decalogo non può essere letto disgiuntamente dalle statuizioni rese dalla Cassazione sul versante del danno morale (cfr. supra). In particolare, scorrendo il decalogo unitamente alle considerazioni svolte dalla sentenza n. 25164/2020 sul fronte del “danno da sofferenza interna”, risulta evidente quanto segue:

  • la Cassazione ha confermato la correttezza dell'impiego dei parametri monetari di cui alle “tabelle milanesi”, del resto richiamando esplicitamente il leading case Cass. 12408/2011, che, come noto, aveva nazionalizzato tali tabelle;
  • la Suprema corte ha avvallato in tutto e per tutto il ragionamento presuntivo della quota-base del danno morale (confermandone la liquidazione nel caso di specie secondo il criterio di proporzionalità); vero è che al punto 4 del decalogo si rinviene affermato che l'inserimento della componente del danno morale in seno alla terza colonna delle tabelle sarebbe erroneo, ma in realtà, proprio a fronte di quanto osservato sia in generale sulla prova presuntiva del danno in questione sia in relazione al caso concreto, con ciò la Cassazione ha semplicemente inteso rilevare che tale collocazione automatica non può elidere del tutto la verifica, caso per caso, sia della sua effettiva ricorrenza (si pensi, per esempio, al caso dello stato di coma), sia della correttezza del rapporto proporzionale al danno biologico individuato presuntivamente dalle tabelle (con possibilità, dunque, di personalizzazioni in decremento od incremento dinanzi a particolari circostanze).

Insomma, la sentenza n. 25164/2020 della Suprema corte è lungi dal pretendere uno scorporo sistematico della quota attribuita al danno morale “standard” in seno alle “tabelle milanesi”: operazioni di depurazione o ridimensionamento del danno morale “standard” potrebbero risultare giustificate soltanto nelle ipotesi – rarissime – di dimostrazione dell'insussistenza di ripercussioni morali in capo alla parte danneggiata.

Questa esatta portata della sentenza n. 25164/2020 è stata già colta dalla giurisprudenza di merito intervenuta subito dopo (cfr., per esempio, Trib. Torino, Sez. IV, 10 dicembre 2020, n. 4423, in ridare.it).

Ciò chiarito, non è, dunque, vero che la Cassazione abbia attaccato le “tabelle milanesi” per detronizzarle.

Semmai possono cogliersi due sole indicazioni contrapposte all'impostazione ambrosiana, entrambe aventi per oggetto un unico punto (la ultima colonna relativa all'«aumento personalizzato»). Il riferimento, in particolare, è al richiamo, da parte della sentenza in disamina, all'aumento del 30% per la personalizzazione del danno biologico in relazione agli aspetti dinamico-relazionali ed alla delimitazione dell'operatività di tale scenario incrementativo esclusivamente a questi ultimi profili (dunque, con sottrazione della liquidazione dei pregiudizi morali a tale “cap”).

In effetti, tali indicazioni per l'applicazione delle “tabelle milanesi” contrastano con l'ultima colonna di queste. Esse, tuttavia, non le sconquassano: levare di torno l'ultima colonna non mina le altre parti (invero quelle più collaudate nella prassi). Del resto, le percentuali attribuite alla quota di danno morale (modellate sul criterio tradizionale della liquidazione del danno morale tra la metà ed un quarto del danno biologico) sono lungi dall'essere state fissate in dipendenza della variabilità delle percentuali di personalizzazione, queste ultime semplicemente individuate a posteriori dai redattori della versione del 2009 delle tabelle secondo un criterio inverso, peraltro inspiegabile sul piano fenomenologico e, quindi, impossibile da condividere. In breve, eliminandosi l'ultima colonna, non viene infranto alcun equilibrio interno alle “tabelle milanesi”.

Il che vale anche per la precisazione per cui personalizzazione relativa ai profili dinamico-relazionali e liquidazione del danno morale richiedono considerazioni e, pertanto, operazioni distinte.

Ciò posto, deve altresì sottolinearsi quanto segue: la sentenza n. 25164/2020 non è incorsa in un “refuso”, laddove ha fatto riferimento al valore massimo del 30%, né ha inteso dare luogo ad un'applicazione anticipata del parametro in questione (in tal senso, invece, v. D. Spera, “I 10 punti del danno biologico: commento a Cass. n. 25164/2020 su danno morale, personalizzazione e tabella milanese); semmai, assolvendo al suo ruolo nomofilattico, ha mirato a risolvere il punto più critico delle “tabelle milanesi”, disegnando un orizzonte meramente indicativo coincidente – e questo può risultare comprensibile – con lo stesso limite prefigurato dal legislatore (percentuale, peraltro, già suggerito dallo stesso Tribunale di Milano nel 2004).

Ovviamente tale limite, una volta emanata la tabella unica nazionale, sarà da verificarsi nella sua correttezza e conformità a Costituzione in relazione ai contenuti, anche monetari, di tale tabella. Per il momento tale presa di posizione della Cassazione ammonta ad una mera indicazione (non vincolante) finalizzata a scongiurare trattamenti discriminatori.

Non può neppure affermarsi che la restrizione, da parte della Cassazione, dell'incremento del 30% al solo danno dinamico-relazionale sia errata nella prospettiva dell'art. 138, comma 3, Cod. Ass. Priv. così come novellato nel 2017: infatti, la lettera di questa norma, in perfetta linea con la sua origine (limitata al danno biologico), inequivocabilmente raccorda l'incremento ivi previsto in via esclusiva alla rilevante incidenza della menomazione su «specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati». Il limite del 30%, pertanto, riguarda soltanto la personalizzazione del danno biologico. Ciò risulta, altresì, confermato dalla pur bislacca disposizione di chiusura di cui al comma 4, che per l'appunto conferma la possibilità di ulteriori personalizzazioni (aggiuntivi rispetto al limite del 30%) relativamente ai profili pregiudizievoli non strettamente fisici (i pregiudizi morali, dunque, sono senz'altro esclusi dal detto “cap”).

Dunque, giustamente la Cassazione, anche tenendo a mente l'attuale art. 138 Cod. Ass. Priv., ha superato l'idea, tutta milanese, di una personalizzazione unitaria sia dell'aspetto dinamico-relazionale sia della correlata maggiore sofferenza soggettiva interiore.

Questa conclusione non implica che il magistrato non possa e non debba coordinare la personalizzazione della componente “esistenziale” con la valutazione personalizzata del profilo morale del danno non patrimoniale, atteso che il non poter più svolgere una determinata attività risulta anche fonte di sofferenza interiore (sul punto si condivide F. Marozzi, Cassazione vs Tabelle di Milano. Il contributo della medicina-legale nella valutazione del danno a persona del bene salute nella componente non biologica, in ridare.it).

In altri termini, la Cassazione non ha inteso affermare l'assoluta indipendenza, sul piano fenomenologico, della personalizzazione dei profili dinamico-relazionali rispetto a quelli morali (nessun interprete serio si sognerebbe mai di sostenere che il non poter più svolgere una determinata attività, cara al danneggiato, al contempo non costituisca motivo di sofferenza morale; il conio rimane lo stesso); semplicemente ha affermato che, sul piano giuridico, la motivazione circa la liquidazione di tali profili non possa essere unica né tantomeno automaticamente indistinta, dovendo il giudice dare atto delle ragioni a supporto della personalizzazione degli aspetti dinamico-relazionali così come dei motivi a fondamento di incrementi del danno morale di base.

In pratica, le eventuali indicazioni peritali circa i riflessi dinamico-relazionali saranno da impiegarsi nella personalizzazione del danno biologico oppure nella liquidazione del danno morale, al riguardo ponendosi un problema esclusivamente giuridico di collocazione delle stime equitative in questa o quella sotto-categoria onde scongiurare duplicazioni, problema del tutto estraneo alle valutazioni medico-legali.

Così illustrato il decalogo, esso – lo si ribadisce – non mette affatto in discussione l'impianto delle “tabelle milanesi”, bensì un loro specifico ed isolabile aspetto (quello della colonna dedicata all'«aumento personalizzato»).

Discutibile è semmai l'idea stessa del limite del 30% o di qualsiasi altro “cap” alla personalizzazione del danno non patrimoniale. Peraltro, il limite del 30% - incostituzionalmente introdotto nel 2006 contro la legge delega - risulta pure affetto da una certa qual irrazionalità (con conseguente disparità tra danneggiati), considerandosi che, in seno al sottosistema della r.c.a., per le lesioni da 1% a 9% compreso il limite alla personalizzazione è fissato nella misura del 20%, mentre l'incremento al 30% riguarda lesioni che vanno dal 10% al 100% con la conseguenza di una significativa compressione della personalizzazione con riferimento alle menomazioni più gravi.

Tuttavia, è da segnalarsi quanto segue:

  • la Cassazione ha ritenuto superabile, dinanzi a circostanze particolari, i limiti “massimi” alla personalizzazione del danno recati dalle “tabelle milanesi” (cfr. per esempio: Cass. civ., Sez. III, 4 febbraio 2020, n. 2461; Cass. civ., Sez. III, 13 dicembre 2019, n. 32787; Cass. civ., Sez. III, Ord., 31 dicembre 2019, n. 2762); anche nella pronuncia n. 25164/2020 non si è escluso che in linea di principio la Corte territoriale potesse andare oltre le limitazioni tabellari;
  • i criteri orientativi delle “tabelle ambrosiane” precisano, non dissimilmente dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. III, 4 febbraio 2020, n. 2461), che, «laddove […] ricorrano tutti i presupposti per ravvisare la sussistenza di un reato doloso ovvero altri elementi eccezionali», s'impone al giudice di procedere ad un'ulteriore personalizzazione degli importi previsti in tabella, ciò per l'appunto «in considerazione delle peculiarità della fattispecie concreta»;
  • gli artt. 138, comma 4, e 139, comma 3, Cod. Ass. Priv., nelle loro ultime versioni, lasciano intendere che i valori tabellari “personalizzati” nei limiti ivi indicati non siano esaustivi, se non in relazione ai soli profili pregiudizievoli di carattere fisico (peraltro, in una concezione di valori monetari centrata sul danno biologico e non già anche sul versante del danno morale, quindi non vincolato dalle strettoie normative).

D'altro canto, memori degli insegnamenti migliori della Corte costituzionale (Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184), l'unica interpretazione costituzionalmente corretta di un qualsivoglia limite al risarcimento del danno non patrimoniale è quella per cui la soglia eventualmente prevista costituisca un parametro di riferimento meramente indicativo, sempre valicabile dinanzi a comprovate specifiche ragioni.

Critica al limite dell'eccezionalità esistenziale

Il punto negativo del decalogo delineato dalla Suprema corte nella sentenza n. 25164/2020 per l'applicazione delle “tabelle milanesi” riguarda la personalizzazione del danno biologico per quanto concerne gli aspetti dinamico-relazionali.

La Cassazione, riprendendo il suo percorso ultimo confluito anche nel pacchetto di sentenze del “San Martino 2019” (cfr., nello specifico, Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28988), ha ribadito che ai fini della personalizzazione del danno biologico occorrerebbe la prova di «circostanze eccezionali e specifiche»; in particolare, la personalizzazione del danno dovrebbe trovare giustificazione nel positivo accertamento di siffatte circostanze, «ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione», non potendo, invece, essere accordata per tenere conto di «pregiudizi che qualunque vittima che abbia patito le medesime lesioni deve sopportare, secondo l'id quod plerumque accidit, trattandosi di conseguenze già considerate nella liquidazione tabellare del danno».

Muovendo da questi (non del tutto collimanti) assiomi, la Suprema corte ha ritenuto non condivisibile la personalizzazione operata dalla Corte territoriale, la quale aveva rilevato, nel giustificare l'incremento accordato nella misura del 25% del quantum di base per il danno biologico, la necessità di «valutare in termini economici la perdita di capacità di lavoro, sia generica che specifica» subita dal lavoratore a fronte del fatto che la vittima si trovava nella «indubbia impossibilità di cimentarsi in attività fisiche».

Ciò premesso, il criterio selettivo dell'eccezionalità suscita serie perplessità: per la Cassazione siamo tutti uguali, che si lavori oppure si abbia un reddito di cittadinanza, che si debba fare coesistere una famiglia con un'invalidità oppure non via sia impatto sulla vita domestica, che si abbia una passione oppure si sia apatici. Lo scenario è quello dell'appiattimento esistenziale del danno alla persona, un mondo risarcitorio opposto al modello ottocentesco, indubbiamente romantico, di Melchiorre Gioia, così come al modello di Paolo Cendon e di Patrizia Ziviz, mondo che fu pure condiviso dalla Consulta (Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233).

In particolare, avverso tale criterio si può osservare quanto segue (cfr. amplius M. Bona, Importanti precisazioni per lo statuto del danno non patrimoniale: sfera morale, personalizzazioni, rischi di recidive e congiunti del sopravvissuto, II Parte, 2019, n. 6, 2083-2093).

Innanzitutto, sul piano fenomenologico la categoria dei “casi eccezionali” sussume scenari di gran lunga più marginali e ristretti rispetto alle “situazioni peculiari” che si associano ad una determinata persona, cioè che non sono comuni a tutti: “peculiare” è anche avere un hobby, giocare a livello amatoriale a tennis, effettuare delle pur sporadiche sciate, andare a fare passeggiate nei boschi o nel centro cittadino (come non poche altre persone, ma senz'altro non tutte), accompagnare ai giardinetti un figlio od un nipotino, ascoltare musica e magari pure collezionare dischi/cd, assistere a rappresentazioni teatrali, far parte di un coro parrocchiale. Ciò è stato opportunamente rilevato anche a livello medico-legale proprio in critica alla sentenza n. 25164/2020 in disamina (cfr. F. Marozzi, Cassazione vs Tabelle di Milano. Il contributo della medicina-legale nella valutazione del danno a persona del bene salute nella componente non biologica, in ridare.it, 27 novembre 2020). Viceversa, “eccezionale” è correre in formula uno, arrivare in cima al Monte Rosa (se non all'Everest), tagliare il traguardo della maratona di New York, vincere un talent show.

Occorre pure considerare che i valori percentuali individuati dai consulenti medico-legali per le invalidità permanenti sono tendenzialmente lungi dall'essere esaustivi sul fronte della sfera dinamico-relazionale senz'altro non comprendendo non solo le “situazioni eccezionali”, bensì neppure tutte quelle “peculiari” a questo o quel danneggiato, magari assolutamente “ordinarie”, ma non già comuni a tutte le persone.

Di conseguenza, la limitazione della personalizzazione ai soli “casi eccezionali” si scontra innanzitutto con la realtà fenomenologica.

Ciò rilevato, sul piano giuridico gli artt. 1226 e 2056 c.c., costituzionalmente interpretati in primis alla luce degli artt. 2 e 3 Cost., non autorizzano il restringimento della personalizzazione unicamente alle “situazioni eccezionali”.

Una siffatta restrizione non risulta neppure fondata nell'ambito della disciplina speciale, ed a quest'ultimo proposito non appare condivisibile l'interpretazione degli artt. 138 e 139 Cod. Ass. Priv. fornita dalla sentenza n. 25164/2020, che ha inteso rinvenire in tali norme conferma dell'impostazione qui criticata.

Infatti, in seno ai novellati artt. 138, comma 3, e 139, comma 3, Cod. Ass. Priv. il legislatore ha cristallizzato per la personalizzazione un criterio selettivo diverso sul piano fenomenologico e probatorio, quello dell'incidenza della menomazione «in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati». Questa impostazione prescinde dal discrimine “ordinario”/“eccezionale”; il che non toglie come anche il paradigma individuato dal legislatore per la r.c.a. (la “specificità”) possa dare luogo ad autentiche ingiustizie innanzitutto in relazione a danneggiati in tenera età (nessuno nasce suonando il piano o con un paio di sci ai piedi) e, comunque, nei casi in cui un soggetto, rimasto vittima, non abbia ancora espresso tutte le sue potenzialità, atteso che un illecito può privare la persona lesa non solo di ciò che faceva e avrebbe continuato a fare, ma anche di ciò che, in assenza del torto subito, poteva aspirare a realizzare nella propria esistenza.

Inoltre, il rinvenire negli artt. 138 e 139 il richiamo al paradigma dell'eccezionalità non solo non è supportato dalla lettera della norma, ma risulta altresì del tutto arbitrario sul piano dell'interpretazione sistematica, ciò dinanzi ad un modello risarcitorio del danno biologico di base imperniato sulla valutazione percentuale medico-legale e, dunque, ad un impianto che conferma l'estraneità ai parametri monetari di base di tutte le circostanze “peculiari” ancorché non “eccezionali”.

In definitiva, a maggior ragione proprio in assenza di una norma che limiti la personalizzazione a casi del tutto eccezionali, tale operazione – imprescindibile per un risarcimento effettivamente integrale – dovrebbe estendersi, come suggerito da attenta medicina legale, a tutti i pregiudizi dinamico-relazionali che si manifestino «con caratteristiche “peculiari”, “personali” e “individuali”», ovviamente in relazione ad attività svolte, prima del sinistro, con una certa qual costanza, non necessariamente quotidiana, e non già in modo del tutto occasionale, ferma restando l'esigenza di considerazioni diverse per il caso di minori (necessariamente da affrontarsi alla luce delle loro aspettative e, quindi, anche attraverso personalizzazioni massime nell'ipotesi di soppressione di ogni aspirazione esistenziale).

La sentenza n. 25164/2020 lascia poi perplessi laddove ha operato i seguenti due rilievi avverso una qualsivoglia incidenza del profilo lavorativo sulla personalizzazione dei parametri tabellari: -) il vulnus alla capacità lavorativa generica è già ricompresa nelle conseguenze ordinarie e, quindi, nei parametri monetari di base per la liquidazione del danno biologico; -) la variazione in peius della capacità lavorativa specifica non sostanzia anche un danno biologico o, più in generale, un danno non patrimoniale, rilevando unicamente ai fini della liquidazione di un eventuale danno patrimoniale.

Questo approccio appare censurabile.

Innanzitutto, esso va ad equiparare situazioni fra loro diverse: non tutti hanno le medesime attitudini al lavoro; non tutti, purtroppo, hanno un lavoro; diversi sono i tipi di impiego. Dunque, affermare che la lesione alla capacità di lavoro generica è per intero ed automaticamente ricompresa nell'ambito delle conseguenze ordinarie del danno alla salute e, quindi, nei parametri monetari di base costituisce una generalizzazione davvero eccessiva; così come lo è, a fortiori, l'asserzione per cui la riduzione o la perdita della capacità lavorativa specifica sarebbero da valutarsi esclusivamente nell'ambito del danno patrimoniale, come se il lavoro, realmente presente nella vita del danneggiato, non costituisse una parte importante della personalità, della dignità e della vita quotidiana di una persona, rilevanza esistenziale confermata da ultimo anche dall'impatto, spesso devastante, che le misure imposte dall'emergenza Covid-19 a tutta una serie di attività lavorative stanno avendo sulla sfera non patrimoniale dei lavoratori interessati.

Una personalizzazione automaticamente spogliata di rilievi relativi ai profili lavorativi del danneggiato si pone in insanabile contrasto con gli artt. 2, 35, 36 della Costituzione (laddove il lavoro è anche preordinato ad assicurare a sé ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa) così come, sul piano sovranazionale, per esempio con l'art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Del resto, la stessa Cassazione, proprio a livello di tutela risarcitoria del lavoratore, insegna che il «fondamentale diritto al lavoro» va «inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del [lavoratore]», sicché la sua violazione «comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa» (cfr. Cass. civ., Sez. lav., Ord., 13 dicembre 2019, n. 32982).

Vero è che in taluni casi il danno alla capacità lavorativa, soprattutto laddove del tutto generico, ipotetico e modesto, può rientrare nel “danno non patrimoniale base”, cioè nei parametri monetari standard; ma ciò non può estendersi in via automatica a tutta una serie di situazioni.

In breve, proprio la giusta critica mossa dalla Suprema corte avverso gli “automatismi risarcitori” pare condannare la sentenza in commento e, dunque, il suo decalogo in relazione alla preclusione alla valorizzazione del profilo non patrimoniale del vulnus alla capacità lavorativa, generica e specifica.

In conclusione: quali modifiche alle «tabelle milanesi»?

La pronuncia n. 25164/2020 non richiede all'Osservatorio della Giustizia Civile milanese di provvedere a drastiche rivisitazioni: l'intervento innovatore dovrebbe riguardare unicamente l'eliminazione dell'ultima colonna, sic et simpliciter.

Semmai si può accettare l'idea di un affinamento ulteriore della “veste grafica” delle tavole ambrosiane, al riguardo risultando condivisibile il suggerimento volto all'indicazione nella loro terza colonna dell'importo risultante dalla percentuale ivi indicata così come di aggiungere, in corrispondenza di ogni anno di età del danneggiato, all'indicazione del complessivo danno non patrimoniale, separatamente, anche l'ammontare monetario del danno biologico e di quello morale “standard” (cfr. in questa esatta direzione D. Spera, Le novità normative e la recente giurisprudenza suggeriscono un ritocco della Tabella milanese del danno non patrimoniale da lesione del bene salute?, 9 luglio 2019, in ridare.it). Per questa via, in effetti, dovrebbe risultare più esplicita la quota del danno non patrimoniale ascritta al danno morale “standard” (o presunto), il che permetterebbe al giudice del merito, in linea con la sentenza in commento, di motivare ed indicare più agevolmente il quantum di eventuali riduzioni od incrementi dei due valori-base (quello per il danno biologico e l'altro per il danno morale).

Non appaiono, invece, condivisibili le seguenti proposte di intervento: 1) ridenominazione della seconda colonna aggiungendo al lemma “danno biologico” gli aggettivi “dinamico relazionale”; infatti, come dimostrato inequivocabilmente anche dalla sentenza n. 25164/2020, i profili dinamico-relazionali sono lungi dallo sostanziare e dall'esaurire il valore percentuale del “punto di base”, ciò anche in seno all'art. 138 Cod. Ass. Priv.; 2) ridenominazione della terza colonna con l'impiego dell'espressione “punto danno da sofferenza soggettiva interiore media presunta”: l'aggettivo “soggettivo” - non solo non necessario (del resto, essendo posto accanto all'aggettivo “interiore”), ma pure privo di portata chiarificatrice - richiama un'espressione utilizzata dal legislatore con riferimento alla personalizzazione del danno biologico, dunque è improprio e unicamente fonte di confusione; l'aggettivo “media”, comunque scivoloso, è contraddetto dalle percentuali già attribuite al tradizionale danno morale dalla terza colonna introdotta dalla versione del 2009, percentuali che seguono una progressione da un ¼ ad ½ come da consolidata giurisprudenza di merito precedente il 2008, indicando, dunque, dei parametri/criteri presuntivi al minimo e non già delle medie aritmetiche; d'altro canto, nel passato, allorquando ricorrevano meno sofisticazioni sul piano teorico, si era soliti affermare per le micropermanenti che il danno morale era liquidato in via presuntiva “al minimo”, sicché questo “minimo” (¼) non può trasformarsi ora in un valore “medio”; sarebbe una rappresentazione lungi dall'essere veritiera, ed anzi suscettibile di strumentalizzazioni al ribasso.

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