Un corso d'acqua pubblico, ancora attivo nel sottosuolo, è parificabile alla “via pubblica” ai fini del rispetto delle distanze legali

Adriana Nicoletti
17 Febbraio 2021

La Corte di Cassazione ha ribadito, indirettamente, la nozione di condominio parziale rispetto ad un'entità che, pur se inserita in un contesto condominiale, sia indipendente ed autosufficiente rispetto alle strutture che compongono il condominio. La questione di merito, concernente l'applicabilità o meno dell'esonero sancito dalla norma che disciplina l'apertura vedute dirette e balconi sul fondo finitimo, rappresenta un ulteriore caso concreto che arricchisce la casistica che definisce i confini della nozione di “via pubblica”.
Massima

Il cavedio costituito dalla “tombinatura” di un sottostante corso d'acqua, inserito nell'elenco dei beni appartenenti ad un Comune, che corre tra due diverse entità immobiliari ha, al pari del medesimo corso d'acqua natura pubblica e, come tale, integra la previsione di cui all'art. 905, comma 3, c.c. La necessità di lasciare fra le due costruzioni finitime lo spazio libero costituito dal cavedio, infatti, è dovuta alla possibilità di ispezionare e compiere interventi sul sottostante corso d'acqua in caso di necessità [1].

In materia di rispetto delle distanze legali, la legittimazione ad esperire la relativa azione spetta unicamente ai comproprietari delle unità immobiliari che, costituenti un corpo unico rispetto al condominio, assumono di avere subito la violazione [2].

Il caso

Il giudizio portato all'esame della Corte d'Appello di Brescia, nato tra i proprietari di due fabbricati confinanti, era stato promosso da un condominio nei confronti di una società proprietaria di un immobile limitrofo nel quale sarebbero state aperte nuove luci e vedute, con asserita violazione delle distanze legali.

La convenuta si era costituita eccependo che tra il corpo delle autorimesse (immobile effettivamente interessato dai presunti interventi) e la sua proprietà era interposto un cavedio sotto il quale scorreva un corso di acqua pubblica, negando la sussistenza del mancato rispetto delle distanze legali. La stessa lamentava, altresì, un difetto di legittimazione dell'ente condominiale, poiché la domanda non era stata proposta dai comproprietari del manufatto composto da una serie di autorimesse appartenenti tutte a diversi soggetti.

Le domande attrici venivano accolte dal Tribunale nella misura in cui la società convenuta veniva condannata al ripristino dello stato dei luoghi, con conseguente chiusura delle vedute e condanna al pagamento di una somma a titolo di risarcimento danni.

Avverso la sentenza di primo grado, la società soccombente proponeva appello che veniva integralmente accolto, con l'assorbimento delle domande formulate in via subordinata ed in via incidentale.

La questione

Dalla sentenza emerge che la domanda dell'attore si fondava, tra l'altro, sulla violazione dell'art.905c.c., rispetto al quale andava accertato se la norma richiamata fosse o meno applicabile alla fattispecie concreta. A lato, la società convenuta aveva sollevato un secondo problema: ovvero quello della carenza di legittimazione attiva in capo al condominio attore, estraneo alle autorimesse appartenenti a soggetti differenti.

Le soluzioni giuridiche

La prima questione è stata risolta dalla Corte territoriale alla luce delle risultanze della CTU, svolta nel giudizio di primo grado, che aveva constatato che il corso d'acqua, di natura pubblica, richiamato dalla società continuava a scorrere al di sotto del piano delle autorimesse talché la relativa c.d. tombinatura, posta al confine tra le due proprietà, aveva anch'essa natura pubblica e come tale rientrava nell'eccezione di cui all'art. 905, comma 3, c.c. Per quanto concerne, invece, l'eccepito difetto di legittimazione attiva in capo al condominio il giudice del gravame aveva accolto il motivo di appello, affermando che la titolarità dell'azione spettava ai comproprietari delle singole unità che componevano l'autorimessa.

Osservazioni

La logica vuole di invertire l'ordine dei punti della decisione in commento, trattando in primis la questione concernente l'eccezione di carenza di legittimazione attiva del condominio. Tale eccezione, già sollevata nel giudizio di primo grado, non sembra essere stata presa in considerazione dal primo giudice (o, per lo meno questo è quanto si ricava dal frammento della sentenza richiamata nella decisione della Corte Suprema) ed è stata riproposta in via preliminare in sede di appello. Si ritiene che una pronuncia in tema di rito avrebbe dovuto indurre il giudice del gravame ad un esame preventivo della questione che, una volta risolta - come in effetti è stato - nel senso di negare la legittimazione del condominio all'azione avrebbe portato a decidere la controversia in un ben differente lasso di tempo.

La perizia tecnica d'ufficio si è rivelata fondamentale per definire la controversia, avendo accertato che il muro perimetrale del condominio/attore si trova ad una più che regolare distanza da quella dell'edificio dell'appellante, mentre l'asserita violazione delle distanze legali doveva interessare il corpo unitario nel quale si trovavano le singole autorimesse di proprietà individuale. Da tale ultima circostanza, non contestata dal condominio, era conseguito che l'ente condominiale era pacificamente privo della legittimazione ad agire.

Ora, se come è dato di capire, il manufatto costituito dalle autorimesse costituisce un corpo separato ed indipendente rispetto al condominio (ma la descrizione dei luoghi appare nebulosa) è evidente che il primo rappresenta un condominio parziale rispetto al secondo, come confermato dalla stessa CTU, ove è stato affermato che tutte le parti comuni di tale edificio (muri perimetrali, tetto ed altro) sono di proprietà dei comproprietari delle singole unità immobiliari. Gli stessi, quindi, erano i soggetti legittimati a far valere in giudizio il rispetto delle distanze legali dall'immobile dell'odierno appellante.

La sussistenza del c.d. condominio parziale comporta implicazioni indirette ed inerenti non solo alla sua gestione ed alla imputazione delle relative spese, ma anche alla convocazione delle conseguenti assemblee fino - come nel caso che ci riguarda - alla legittimazione, attiva o passiva, in sede processuale.

Ai fini della configurazione del condominio parziale è stato ancora, di recente, affermato (Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2020, n. 791) che il fondamento normativo va individuato nell'art. 1123, comma 3, c.c., e che la parziarietà è automaticamente configurabile ex lege tutte le volte in cui un bene risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato oggettivamente al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell'edificio in condominio, rimanendo, per l'effetto, oggetto di un autonomo diritto di proprietà e venendo meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene. Da ciò, quindi, consegue che i partecipanti al gruppo non hanno il diritto di partecipare all'assemblea relativamente alle cose di cui non hanno la titolarità e la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle specifiche parti oggetto della concreta delibera da adottare. Si tratta, in buona sostanza, di una particolare figura che risponde alla ratio di semplificare i rapporti gestori interni alla collettività condominiale, sicché il quorum, costitutivo e deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, va calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2016, n. 4127).

Tale definizione meramente sostanziale non può che avere effetti anche sul piano processuale, talché i diritti e le rivendicazioni dei componenti del condominio parziale non possono essere fatti valere da altri soggetti che non siano essi stessi. Diversamente si verificherebbe la c.d. sostituzione processuale disciplinata dall'art. 81 c.p.c., secondo il quale, “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”. E nella fattispecie in esame era emerso, in corso di causa, che non solo il condominio non poteva lamentare alcuna violazione delle distanze legali nei suoi confronti, ma non poteva neppure rivendicare il rispetto delle stesse in favore di altro immobile che esulava dal suo stretto contesto.

Passando al merito della contestazione la norma che è stata richiamata dall'odierno appellante a propria difesa è l'art. 905, comma 3, c.c., che rappresentaun'eccezione nell'ambito del rispetto delle distanze per l'apertura, verso il fondo vicino, di vedute dirette e di balconi. Il divieto, fissato nella distanza minima di un metro e mezzo, tuttavia, cessa allorquando tra i due plessi vi sia una via pubblica.

In via preliminare, giova ricordare quale sia la ratio dell'art. 905 c.c.: esigenza della salvaguardia della riservatezza del fondo del vicino, che deve essere tutelata da qualsivoglia intervento che modifichi lo stato dei luoghi in modo stabile e tale da creare un comodo affaccio sulla proprietà confinante. Tale mutamento può dare luogo, in concorso con le altre condizioni di legge, alla creazione di una servitù di veduta, a nulla rilevando che il fondo su cui l'intervento è stato realizzato sia sopraelevato rispetto all'altro ovvero che le opere eseguite non siano destinate in via esclusiva all'esercizio della veduta, laddove comunque le stesse, per ubicazione, consistenza e struttura, in luogo di una vista precaria e fugace, consentano il comodo affaccio, permettendo ad una persona di media costituzione fisica la sosta e l'osservazione, in modo normale ed in condizioni di assoluta sicurezza, verso la proprietà sottostante (v., in questo senso, Cass. civ., sez. I, 14 ottobre 2011, n. 21238; Cass. civ., sez. II, 28 luglio 2005, n. 15885).

Detto questo, l'attenzione si deve concentrare proprio sul concetto di “via pubblica” che, con evidenza, nella sentenza di appello è stato applicato al “cavedio costituito dalla tombinatura del sottostante corso d'acqua”, facendo rientrare esso stesso nell'ambito applicativo dell'art. 905, comma 3, c.c.

La qualificazione di via pubblica, ai fini dell'esonero dal rispetto delle distanze legali, esige che tale destinazione risulti da un titolo legale, che può essere un provvedimento dell'autorità, una convenzione con il privato, oppure l'usucapione da parte della collettività a seguito dell'uso protratto del bene privato per il tempo necessario all'acquisto del relativo diritto (Cass. civ., sez. IV/II, 26 giugno 2013, n. 16200). L'esonero, tuttavia, è stato esteso dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 10 ottobre 2000, n. 13485) anche al caso in cui tra le due proprietà frontali esista una strada privata soggetta a servitù di pubblico passaggio.

Venendo ad ipotesi che più si possono equiparare alla fattispecie oggetto di giudizio si trovano, tuttavia, alcune pronunce giurisprudenziali che escludono dall'applicabilità dell'art. 905, comma 3, c.c. situazioni ben lontane dalla nozione di “via pubblica”. Questo vale, ad esempio, per un canale non transitabile né utilizzabile dal pubblico considerato non assimilabile alla interposizione della via pubblica, fatta eccezione al caso in cui lo stesso appartenga in comunione ai proprietari dei due fondi. In tal caso, infatti, la distanza sarebbe calcolata dalla linea mediana dello stesso (Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 1987, n. 1575). Allo stesso modo una fognatura interrata non può essere equiparata alla via pubblica (Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 1963, n. 426), né lo può essere un torrente demaniale quando si tratti di spazio inaccessibile ed inidoneo a consentire la sosta permanente di persone e cose (Cass. civ., sez. II, 10 aprile 1980, n. 2297).

Alla luce di quanto rilevato l'orientamento assunto dalla giurisprudenza sul punto, comprensibile e condividibile, pone dei dubbi in merito al fatto che anche il corso d'acqua, per quanto pubblico e testualmente definito in sentenza “ancora esistente e che continua a correre al di sotto del piano delle autorimesse”, possa essere considerato alla stregua di una “via pubblica”, al fine di integrare la previsione del richiamato comma 3 dell'art. 905 c.c. al punto da attrarre nella sua sfera giuridica anche la “tombinatura” necessaria per la sua ispezione.

Ed a questo proposito va da ultimo osservato che la decisione della Corte d'Appello di Brescia, troppo sintetica nella descrizione dello stato dei luoghi, non aiuta nella comprensione di un quadro esaustivo degli stessi per sciogliere tutte le perplessità che restano.

Riferimenti

Fontana, L'apertura di vedute nel muro comune costituisce modificazione o innovazione?, in Arch. loc. e cond., 2018, 652;

Del Chicca, Ancora a proposito del condominio parziale, in Arch. loc. e cond., 2017, 657;

Palombella, Il computo delle distanze tra edifici è determinato dall'esistenza delle strade, in dirittoegiustizia.it, 2012;

Chiavarello, Luci e vedute. Fondi vicini e pubblica via. Estinzione diritto, in iussist.com, 14 ottobre 2009.

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