Obbligo di vaccinazione e licenziabilità del lavoratore che rifiuti di sottoporsi all'immunizzazione

18 Febbraio 2021

L'avvio della campagna vaccinale anti-Covid ha scatenato un acceso dibattito sulla possibilità che i datori di lavoro possano pretendere che tutti i loro dipendenti si sottopongano alla vaccinazione, come misura di sicurezza necessaria per combattere le conseguenze della pandemia.In pratica, si tratta di permettere a questi ultimi di licenziare coloro che rifiutino di vaccinarsi, perché gli stessi potrebbero mettere in pericolo la sicurezza degli altri dipendenti e degli eventuali clienti con cui dovessero venire in contatto.
Introduzione

L'avvio della campagna vaccinale anti-Covid ha scatenato un acceso dibattito sulla possibilità che i datori di lavoro possano pretendere che tutti i loro dipendenti si sottopongano alla vaccinazione, come misura di sicurezza necessaria per combattere le conseguenze della pandemia.

In pratica, si tratta di permettere a questi ultimi di licenziare coloro che rifiutino di vaccinarsi, perché gli stessi potrebbero mettere in pericolo la sicurezza degli altri dipendenti e degli eventuali clienti con cui dovessero venire in contatto.

La questione è certamente complessa ed insidiosa, perché implica il coinvolgimento dei diritti fondamentali della persona, a partire da quello alla salute.

Riferimenti normativi

L'art. 32 Cost. prescrive che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Ma al momento tale condizione manca e ci troviamo perciò di fronte ad una sorta di ossimoro giuridico: per rispettare la libertà di non sottoporsi al vaccino di alcuni soggetti, rischiamo di ledere i principi che guidano la disciplina sulla sicurezza sul lavoro da un lato e di porre in pericolo l'integrità fisica degli altri lavoratori e dei cittadini che dovessero accostarsi fisicamente ad essi.

La norma delineata dall'art. 2087 c.c. e dal Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 81/2008) obbliga il datore ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, fossero necessarie per tutelare l'integrità fisica dei lavoratori. L'art. 279 del Testo Unico, inoltre, prevede anche l'adozione di misure particolari (tra cui la messa a disposizione dei vaccini) che il datore dovrebbe applicare, per prevenire il rischio di infezione derivante da un agente biologico sul luogo di lavoro.

L'art. 18 comma 1 lett. g) e bb) dello stesso provvedimento, infine, determina l'obbligo di adibire i lavoratori alla mansione cui sono destinati, solo qualora superino uno specifico giudizio di idoneità.

Ci troveremmo quindi di fronte alla possibilità di subordinare tale giudizio all'avvenuta vaccinazione? E in mancanza di questo, sarebbe lecito licenziare il lavoratore che si rifiutasse di sottoporsi all'inoculazione del vaccino?

Un licenziamento a carattere disciplinare come questo, in ogni caso, dovrebbe comunque essere rapportato alle esigenze contingenti dei diversi ambienti lavorativi, perché l'inadempimento del lavoratore assume un peso diverso a seconda del contesto: una cosa è lavorare in un ospedale, un'altra è svolgere le proprie mansioni ove si possa garantire un certo distanziamento, o magari lavorare in modalità di smart working.

Prima di licenziare il lavoratore che non volesse vaccinarsi, quindi, potrebbe essere necessario collocarlo in aspettativa non retribuita per impossibilità di rendere la prestazione in sicurezza e solo in extrema ratio si potrebbe valutarne l'allontanamento. D'altro canto, un caso come questo rientrerebbe nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che, ad oggi e fino al 31 marzo 2021 (salvo proroghe), sarebbe vietato per i provvedimenti adottati dal governo con la Legge di Bilancio 2021.

Contratto di lavoro e autonomia negoziale della persona

L'ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da specifiche norme di legge: è successo per la campagna vaccinale contro la difterite nel 1939 e poi contro il tetano, a partire dal 1963, contro la poliomielite nel 1966, fino a quella contro la tubercolosi nel 2000 e ancora contro pertosse, poliomielite, epatite B, morbillo, parotite, rosolia, varicella etc. nel 2017.

Per il Covid, però, non abbiamo una norma che renda obbligatoria la vaccinazione, anche perché il farmaco necessario ha cominciato ad essere disponibile solo alla fine del 2020, cioè da un paio di mesi. A questo punto, il problema che tutti si pongono è se, pur in assenza di una legge che la renda obbligatoria e finché duri la pandemia, un imprenditore possa pretendere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza per tutti i dipendenti che abbiano l'effettiva possibilità di sottoporvisi.

Insomma, il vincolo non previsto da una legge può – senza che sia violato l'art. 32 Cost. – essere attivato a carico di alcuni cittadini, per effetto di un contratto di lavoro, o di trasporto, o di altro genere?

Coloro che pensano che ciò non sia possibile, ritengono che i diritti assoluti previsti dalla Costituzione, per effetto della loro specifica natura di inviolabilità, debbano essere sottratti all'autonomia negoziale della persona. Eppure vi sarebbero molti casi in cui la possibilità per un cittadino di compiere atti di disposizione di un proprio diritto assoluto farebbe parte dell'essenza stessa di quel diritto, che altrimenti rischierebbe di diventare troppo soffocante per il suo titolare.

Tra questi, anche il contratto di lavoro costituirebbe un esempio tipico della disponibilità di diritti personalissimi. Con esso, chi vive del proprio lavoro accetta la limitazione della propria libertà che deriva dal contatto contrattuale. In questo caso, la persona accetta una limitazione della propria libertà di movimento ed anche la possibilità che l'imprenditore possa indagare sulle sue attitudini, i suoi precedenti professionali, l'essere sottoposto a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via.

Allo stesso modo, chi vive del proprio lavoro dovrebbe quindi accettare la possibilità che – pur in assenza di una specifica norma legislativa dalla quale derivi l'obbligo di vaccinazione – gli venga richiesto di vaccinarsi, perché il contratto di lavoro gli impone di rispettare le direttive impartite dal datore per rispettare le necessarie misure di protezione, purché rispondenti al requisito fondamentale della ragionevolezza.

Ciò riguarda non solo l'ambito lavorativo, ma qualsiasi situazione che implichi uno stretto contatto tra le parti o con persone terze: come accade per il contratto di trasporto, nel quale il vettore, obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori, condizioni l'accesso al mezzo utilizzato all'esibizione di un certificato di buona salute o di vaccinazione.

Obbligo generale di sicurezza ex art. 2087 c.c.

L'obbligo generale di sicurezza che l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore, prevede l'adozione di tutte le misure che l'esperienza e la tecnica suggeriscano per tutelare l'integrità fisica e morale di tutti i prestatori di lavoro impiegati. Occorre dunque chiedersi se una fabbrica o un ufficio in cui tutti siano stati vaccinati contro il Covid realizzino condizioni di sicurezza maggiori, per quanto concerne la prevenzione dell'infezione, rispetto agli stessi ambienti, ove una parte dei dipendenti non sia stata vaccinata.

Se le indicazioni della scienza medica suggerissero una risposta positiva, l'imprenditore dovrebbe avere il diritto, in ottemperanza all'articolo 2087 ed in seguito ad un'attenta valutazione del rischio specifico rappresentato dalla propria azienda, di richiedere a tutti i suoi dipendenti di sottoporsi alla vaccinazione, laddove ciò sia concretamente possibile, ben inteso.

Un comportamento siffatto non sarebbe ammissibile solo se risultasse in contrasto con norme di ordine pubblico, o esprimesse interessi non meritevoli di tutela nel nostro ordinamento. Tuttavia – nelle attuali circostanze di lotta alla pandemia – esso parrebbe in linea con le direttive generali di sanità pubblica condivise dalla comunità scientifica, dal Governo e dalle autorità sanitarie competenti.

Gli esperti di diritto del lavoro, inoltre, interpretano l'art. 2087 c.c. come una norma aperta, che si arricchisce di contenuti concreti man mano che la scienza e la tecnica forniscono nuove misure efficaci e l'articolo 20 del Testo Unico sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (d. lgs. n. 81/2008) prevede che ogni lavoratore debba prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.

Questo argomento dovrebbe confermare che le direttive impartite dal datore in materia di sicurezza e igiene dell'ambiente di lavoro, se conformi alle indicazioni che si traggono da scienza ed esperienza, determinino un'obbligazione contrattuale del dipendente, anche quando non specificamente indicata dalla legge.

Infine, come già accennato, l'art. 279 dello stesso Testo Unico prevede l'obbligo per l'imprenditore di richiedere la vaccinazione del dipendente, quando vi sia il rischio di infezione derivante da un agente biologico presente nella lavorazione ed è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo si estenda alla prevenzione del rischio di infezione, causata da un virus altamente contagioso come il Covid, del quale può essere portatore un dipendente, all'interno dello spazio in cui l'attività lavorativa si svolge.

Non dimentichiamoci che l'infezione da Covid-19 è stata qualificata dalla legge e dall'INPS come infortunio sul lavoro (d.l. n. 18/2020, convertito con l. n. 27/2020), proprio in considerazione dell'elevatissima contagiosità e diffusione di questo virus e dell'alta probabilità che in un ambiente chiuso basti una sola persona portatrice a trasmetterlo. È ovvio, quindi, che il datore di lavoro debba prendersi pienamente carico di questo rischio e, salvi i casi nei quali vi fossero controindicazioni mediche precise, riferite alle condizioni di salute della persona interessata, possa non accogliere un rifiuto ingiustificato alla vaccinazione.

Rifiuto di sottoporsi a vaccinazione e obblighi contrattuali del lavoratore

Si può quindi ritenere che il rifiuto di aderire alla direttiva del datore di lavoro costituisca una violazione degli obblighi contrattuali in capo al lavoratore, tanto da giustificarne il licenziamento per giusta causa?

Bisognerà chiedersi se il comportamento di quest'ultimo abbia inciso sulla qualità della sua prestazione, al punto da interferire sull'interesse del datore a proseguire nel rapporto, per inadempimento ad una disposizione di sicurezza.

Sarà dunque necessario valutare l'inadempimento del lavoratore, operando le necessarie distinzioni tra rapporto e rapporto e tra ambiente ed ambiente.

I doveri di protezione richiesti ad un lavoratore possono essere assai diversi: un ospedale o una casa di cura possono pretendere che medici ed infermieri si vaccinino, anche perché sarebbero esposti a responsabilità risarcitoria nei confronti di chi dovesse contrarre il virus in conseguenza di un comportamento inadempiente da parte di questi. La protezione della salute degli assistiti è inoltre l'oggetto specifico della prestazione richiesta agli addetti del settore e rientra nella causa prima del contratto.

E non è detto che la più corretta reazione datoriale debba essere necessariamente il licenziamento. Sarebbe ad esempio possibile adibire il lavoratore che abbia scelto di non vaccinarsi a posizioni più compatibili con tale scelta, se ve ne fossero. In tal caso il datore-creditore avrebbe il potere di risolvere il contratto solo se non dovesse più sussistere un interesse all'adempimento, anche parziale, dell'altra parte.

Nel frattempo, il rapporto di lavoro verrebbe sospeso fino al momento in cui l'impedimento dovesse cessare o fosse esaurito l'interesse datoriale. Non di licenziamento, si tratterebbe dunque, ma di sospensione non retribuita.

Conclusioni

L'argomento, insomma, è assai controverso: molti esperti sostengono che in ogni caso non vi siano elementi validi per riconoscere al datore di lavoro un generico potere di licenziare il lavoratore che rifiuti il vaccino e l'ostacolo principale sarebbe rappresentato principalmente dall'art. 32 Cost..

Resteremo dunque costretti nel limbo delle discussioni tra i diversi giudizi, a meno che il Legislatore non intervenga a dirimere la questione con una norma specifica, risolvendo il divieto ivi previsto.

Intanto, con un'ordinanza del 21 gennaio 2021, il Tribunale di Trento sembra aver preso posizione sulle regole di condotta da seguire nel corrente periodo di emergenza sanitaria.

La vicenda riguarda una lavoratrice che, dopo un periodo di ferie concesso dal datore e svolto all'estero, non rientrava al lavoro per rispettare l'obbligo di quarantena fiduciaria, al rientro dal paese nel quale si era recata.

L'azienda contestava alla dipendente di aver viaggiato in un altro paese, pur sapendo dei divieti e delle restrizioni esistenti sulla circolazione delle persone a causa della pandemia, ed essendo consapevole che al rientro non avrebbe potuto riprendere immediatamente servizio.

Ne è seguito un licenziamento per giusta causa, ritenuto valido dal Tribunale, in quanto la dipendente si sarebbe messa coscientemente nell'impossibilità di riprendere il lavoro e la sua assenza sarebbe risultata ingiustificata.

Si è quindi trattato di condotta negligente, considerato in particolare che le esigenze di sanità pubblica hanno imposto a tutta la popolazione gravi sacrifici, come la limitazione temporanea della libertà di movimento personale e del godimento di alcuni diritti civili.

Il Tribunale ha rilevato pertanto la sussistenza della giusta causa nella prolungata assenza della lavoratrice e nella noncuranza con la quale la stessa avrebbe gestito la vicenda, anteponendo i propri interessi personali a quelli dell'azienda.

Pur non collimando perfettamente la situazione con la questione trattata, si tratta di una sentenza assai interessante, nella quale il Tribunale trentino ha rinunciato a giustificare un comportamento poco responsabile del lavoratore rispetto alla comunità, oltre che nei confronti del datore, ponendosi nel solco di chi vede il rifiuto di vaccinarsi come un pericolo per la sicurezza degli altri dipendenti (e di terzi), nell'ambiente di lavoro.

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