Fiat iustitia, et pereat mundus. La tutela del diritto alla riservatezza nella giurisprudenza della Corte Europea

Donatella Perna
01 Settembre 2017

L'art. 8, comma 1, della Convenzione Edu, stabilisce che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza, e il comma 2, a sua volta, precisa che non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che ....
Massima

L'art. 8, comma 1, della Convenzione Edu, stabilisce che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza, e il comma 2, a sua volta, precisa che non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Pertanto, in mancanza di un'urgente necessità, costituiscono violazione dell'art. 8 il sequestro e l'accesso ai dati di un personal computer da parte della polizia, senza la preventiva autorizzazione del giudice.

Il caso

Il ricorrente, un quarantenne di Siviglia, il 17 dicembre 2007 aveva portato il proprio computer presso un negozio di informatica per una riparazione. All'atto della consegna, il tecnico gli aveva chiesto espressamente se l'accesso al P.C. era protetto da passworde l'uomo aveva risposto di no. Una volta riparato il guasto, il tecnico – come da prassi – aveva proceduto ad un test di verifica aprendo una serie di filecontenuti nella cartella documenti, così scoprendo che conteneva elementi pedopornografici. A questo punto aveva denunciato il fatto alla polizia, cui aveva anche consegnato il P.C.; i poliziotti, senza attendere l'autorizzazione del magistrato, avevano ispezionato di propria iniziativa il P.C., aprendo non solo la cartella documenti ma anche quella denominata Incoming, relativa al programma di scambio e condivisione eMule, dopodiché avevano rimesso il computer ad altri colleghi esperti informatici, per un esame più approfondito.

In seguito avevano informato l'autorità giudiziaria dell'indagine in corso, cosicché il 20 dicembre 2007, all'atto di ritirare il P.C. presso il negozio di informatica, il ricorrente era stato tratto in arresto e condotto davanti al giudice istruttore.

All'esito del processo di primo grado, il ricorrente era stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione (pena in realtà mai eseguita e finita in prescrizione, essendosi reso l'imputato latitante) ma fin dall'inizio egli si era difeso eccependo l'inutilizzabilità delle prove a suo carico, in quanto raccolte dalla polizia in violazione del suo diritto alla riservatezza, e cioè attraverso un sequestro ed un accesso al proprio P.C. del tutto abusivi.

Tuttavia sia il tribunale (l'Audiencia provincial di Siviglia), sia la Corte di cassazione, sia, infine, la Corte costituzionale spagnola (c.d. Tribunal Constitucional), investiti del caso, avevano ritenuto il processo di acquisizione della prova del tutto regolare: il tribunale e la Corte di cassazione avevano infatti osservato che al momento della consegna per la riparazione il tecnico aveva richiesto espressamente se il P.C. fosse protetto da una password, ottenendo risposta negativa, senza che in quella sede fossero formulate riserve, il che significava che l'imputato aveva dato il proprio consenso all'accesso ai contenuti informatici; ciò tanto più ove si consideri che egli stesso aveva configurato il programma eMule in modo che la totalità dei suoifile fossero accessibili agli utilizzatori di tale applicazione, così dimostrando di non avere alcuna intenzione di conservare nella propria sfera intima, personale ed esclusiva, i file del proprio P.C.

La Corte costituzionale a sua volta – prosegue la Corte Edu – considerando il giudice garante dei diritti fondamentali, esige in via generale – per le ingerenze nella vita privata dei cittadini – l'autorizzazione giudiziaria preventiva, sebbene tale autorizzazione non sia espressamente richiesta dall'art. 18, comma 1 della Costituzione spagnola; essa ammette una sola eccezione a tale regola, ovvero «quando vi siano motivi che esigono un intervento immediato e necessario della polizia per la prevenzione e la constatazione di un delitto, la scoperta dei delinquenti, e la ricerca delle prove».

In tal caso, l'intervento della polizia senza previa autorizzazione giudiziaria, sarà giustificato a condizione che il principio di proporzionalità sia rispettato, fermo restando che l'apprezzamento dell'urgenza e della necessità dell'intervento stesso, così come quello della proporzionalità del mezzo usato, vanno fatti a priori, e sono sottoposti ad un controllo giudiziario a posteriori: la constatazione, ex post, della mancanza dell'urgenza o della necessità, così come del rispetto del principio di proporzionalità, comporta la violazione di un diritto fondamentale, e conduce alla illegalità delle prove così ottenute.

Fatte queste premesse, la Corte costituzionale spagnola, pur ammettendo che nel caso concreto vi era stata effettivamente un'ingerenza non consentita nel diritto alla riservatezza del ricorrente (l'autorizzazione all'accesso al P.C. era stata data al solo tecnico informatico e ai soli fini della riparazione del guasto, sicché non poteva legittimare l'intervento successivo di soggetti terzi e per scopi diversi; la condivisione in rete dei propri fileattraverso il programma eMule, non poteva considerarsi un'autorizzazione generalizzata ad ingerenze ulteriori nella propria vita privata), aveva però concluso che si era di fronte ad una deroga alla regola della preventiva autorizzazione del giudice, essendo il modo di procedere della polizia proporzionato allo scopo, e l'azione stessa necessaria per accertare se i fatti denunciati erano veri e se vi erano gli elementi per l'arresto dell'imputato; se vi fossero complici, atteso che l'imputato aveva usato un programma informatico di condivisione in rete che permetteva di scambiare filecon altri soggetti; infine, se il materiale pornografico condiviso nascondesse ulteriori abusi su minori, ancora da verificare. Il tutto da portare a termine con la massima rapidità, potendo l'imputato connettersi al proprio P.C. custodito in commissariato da un altro computer, e così sopprimere i file illeciti.

Divenuta definitiva la sentenza, l'imputato si era reso latitante all'ordine di carcerazione, ma aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia, lamentando la violazione dell'art. 8 della Convenzione Edu.

La questione

La questione proposta è quella delle condizioni in presenza delle quali è consentita l'ingerenza della pubblica autorità nel diritto alla riservatezza di un cittadino di uno Stato membro dell'Unione, e la Corte fin dall'incipit della motivazione, chiarisce che tale ingerenza infrangerebbe senz'altro la Convenzione ove non rispondesse alle esigenze del comma secondo dell'art. 8, ovvero non fosse:

  • prevista dalla legge;
  • ispirata da uno o più dei legittimi scopi previsti da tale norma;
  • necessaria, in una società democratica.
Le soluzioni giuridiche

Muovendo, dunque, da tale premessa, la Corte innanzitutto chiarisce che nello speciale contesto delle misure segrete di sorveglianza o di intercettazione delle comunicazioni da parte delle pubbliche autorità, l'assenza di controllo pubblico e il rischio di abuso di potere implicano che il diritto interno debba offrire all'individuo una sicura protezione contro le ingerenze arbitrarie nei diritti garantiti dall'art. 8 della Convenzione, sicché deve essere ben chiaro in quali circostanze e a quali condizioni il potere pubblico è abilitato a prendere le suddette misure: una norma di diritto interno risponde a tale esigenza quando è redatta con precisione tale da permettere a ciascuno, che abbia bisogno di un consiglio chiarificatore, di regolare la propria condotta.

Passando, dunque, a verificare il primo dei requisiti di conformità all'art. 8 della Convenzione, ovvero che l'ingerenza della pubblica autorità sia prevista dalla legge, la Corte osserva che, pur non essendo espressamente regolato né dalla Costituzione, né da leggi ordinarie, l'accesso al contenuto di un P.C. è consentito da disposizioni contenute in leggi speciali, che permettono alla polizia giudiziaria di indagare su delitti pubblici, di adottare le misure necessarie per smascherare e catturare i loro presunti autori, e raccogliere le prove pertinenti. Inoltre la Corte costituzionale spagnola – le cui decisioni debbono essere considerate come facenti parte del diritto interno, ai sensi dell'art. 8 della Convenzione – svolgendo un'importante funzione integratrice, ha stabilito la regola della preventiva autorizzazione giudiziaria, condizione che è richiesta dall'art. 8 quando è in gioco l'attentato alla vita privata di un individuo, e che può essere bypassata, in via del tutto eccezionale, solo nelle situazioni d'urgenza, che possono però costituire oggetto di controllo giudiziario successivo.

L'uso della parola urgenza – e dunque il riferimento a ciò che non può essere ritardato – dà ai cittadini un'indicazione sufficiente circa le situazioni e le condizioni in cui la polizia è abilitata ad ingerirsi nella vita privata altrui senza la previa autorizzazione del giudice: ovvero quando, durante un'indagine, l'attesa di tale autorizzazione potrebbe compromettere lo sviluppo e lo scopo dell'indagine stessa.

In definitiva, afferma la Corte, il controllo giudiziario successivo da parte del giudice penale e la possibilità di escludere gli elementi di prova ottenuti illegalmente, costituiscono una importante garanzia in grado di scoraggiare la polizia dal raccogliere prove con mezzi illegali, e offre una protezione sufficiente contro l'arbitrio.

Alla stregua di tali considerazioni, può ritenersi soddisfatto il primo requisito, nel senso che nell'ordinamento spagnolo l'ingerenza nell'esercizio del diritto al rispetto della propria vita privata può considerarsi come «prevista dalla legge» ai sensi dell'art. 8, comma 2 della Convenzione.

Passando a verificare il secondo dei requisiti di conformità all'art. 8 della Convenzione, ovvero che l'ingerenza della pubblica autorità persegua uno degli scopi legittimi previsti dal comma secondo di tale norma, è pacifico che le sevizie sessuali costituiscono un tipo odioso di reato che indebolisce le vittime, le quali hanno diritto alla protezione dello Stato sotto forma di una prevenzione efficace, che le metta al riparo da forme così gravi di ingerenza negli aspetti essenziali della loro vita privata.

Dunque anche il secondo requisito può dirsi soddisfatto.

Il terzo dei requisiti di conformità all'art. 8 della Convenzione, ovvero che l'ingerenza della pubblica autorità si presenti come necessaria in una società democratica, è per la Corte il vero banco di prova della normativa interna: la Corte afferma che tale condizione ricorre quando l'intervento di polizia risponde ad un «bisogno sociale imperioso e, in particolare, se è proporzionato allo scopo legittimo perseguito e se le ragioni invocate dalle autorità nazionali per giustificarlo appaianopertinenti e sufficienti».

Sul campo si contrappongono le due tesi che fin dall'inizio hanno segnato l'intera vicenda, rendendola per certi versi emblematica: da un lato la tesi del ricorrente, secondo cui la polizia avrebbe potuto ottenere un'autorizzazione dal giudice entro ventiquattro ore, e l'attesa non avrebbe certo nuociuto alle indagini; e quella dello Stato spagnolo, secondo cui accedendo al contenuto del personal computer, la polizia si è limitata a constatare la veridicità dei fatti denunciati, giustificando “l'urgenza” dell'intervento con il rischio di una scomparsa accidentale dei file.

Ma la Corte mostra di condividere la tesi del ricorrente: la polizia – lungi dal limitarsi a verificare la veridicità dei fatti denunciati – accedendo alla cartella documenti ha proceduto alla ispezione integrale del contenuto degli archivi del computer, aprendo ed esaminando ugualmente i file Incaming del programma eMule, il tutto senza la preventiva autorizzazione giudiziaria, il che sarebbe stato consentito solo in presenza di una «urgente necessità».

Ed è proprio l'urgente necessità a mancare secondo la Corte: non vi era alcun rischio di sparizione dei file, poiché si trattava di un computer trattenuto in commissariato e non connesso ad Internet, di talchè non si comprende come l'attesa della autorizzazione giudiziaria, che avrebbe potuto essere ottenuta in tempi rapidi, avrebbe compromesso le indagini condotte dalla polizia sui fatti denunciati.

Ne deriva che il sequestro e l'esame degli archivi del computer da parte della polizia, così come sono stati in concreto effettuati, non erano proporzionati agli scopi legittimi perseguiti, e dunque «necessari in una società democratica», comportando una violazione dell'art. 8 della Convenzione.

Osservazioni

La sentenza in commento è stata adottata con sei voti favorevoli ed uno contrario, quello del giudice russo Dimitry Dedov, il quale ha ritenuto di non aderire alla decisione della maggioranza, allegando al provvedimento una nota scritta nella quale dà conto del proprio dissenso, affermando che in una società democratica il diritto alla riservatezza non è compatibile con la violazione della legge. Nel caso di specie, precisa il giudice dissenziente, vi erano certamente sia la necessità che l'urgenza di procedere al sequestro, perché il ricorrente avrebbe potuto cancellare le prove della sua attività criminale dal computer con un semplice clic, sicchè la polizia era obbligata a raccogliere gli elementi di prova il più presto possibile.

In definitiva, secondo il giudice Dedov, l'apprezzamento e le conclusioni della Corte sono entrati in conflitto con la politica penale dello Stato in ciò che concerne i sequestri e la confisca dei beni appartenenti ad un criminale, e da questi utilizzati per la sua attività illecita; e la Corte, sentenziando come ha fatto, ha preferito proteggere il diritto alla vita privata, anche se si tratta di una vita privata di natura criminale.

Da qui il brocardo conclusivo utilizzato per stigmatizzare la decisione, ovvero Fiat iustitia, et pereat mundus!, sia fatta giustizia, e che il mondo vada in malora, frase che in Svetonio esclamano i congiurati al momento di uccidere Cesare: come dire che un certo modo di intendere e di fare giustizia si trasforma, a volte, in mancanza di giustizia.

Ed in effetti la sentenza in commento solleva qualche perplessità, ove si pensi che anche nel nostro ordinamento esistono diversi istituti simili a quello spagnolo che ben potrebbero, a questo punto, cadere sotto la scure della Corte europea.

Si allude in primo luogo a quanto previsto dall'art. 354 c.p.p. secondo cui gli ufficiali e gli agenti di P.G. curano che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell'intervento del P.M.

Se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi suddetti si alterino o si disperdano o comunque si modifichino, e il P.M. non può intervenire tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di P.G. compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose. In relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici, gli ufficiali di P.G. adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l'alterazione, e provvedono, ove possibile, alla loro immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all'originale e la sua immodificabilità. Se del caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti.

Va da sé che la immediata duplicazione su adeguati supporti dei contenuti informatici prescritta dalla norma, implica necessariamente l'accesso al dispositivo informatico da parte della P.G., dunque anche prima che il P.M. abbia assunto la direzione delle indagini.

Per altro verso, secondo il combinato disposto degli artt. 247, 352, commi 1-bis e 4, c.p.p., nella flagranza del reato (nel caso di specie trattasi dell'art. 600-quater, detenzione di materiale pedopornografico, reato permanente la cui consumazione inizia nel momento in cui il reo si procura il materiale e cessa nel momento in cui ne perde la disponibilità, cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 15719/2016) gli ufficiali di P.G. (che normalmente possono agire solo su delega del P.M.), possono procedere essi stessi alla perquisizione di sistemi informatici e telematici, quando abbiano fondato motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato, che possano essere cancellati o dispersi (la P.G. poi trasmette senza ritardo, e comunque entro quarantotto ore dalla perquisizione, il verbale delle operazioni compiute al P.M. del luogo ove la perquisizione è stata eseguita, per la convalida).

Dunque, anche per tale via è espressamente prevista la possibilità della P.G. di procedere d'iniziativa all'accesso ad un dispositivo informatico, senza attendere la preventiva autorizzazione del P.M.

In entrambi i casi, presupposto legittimante è che vi sia il pericolo di dispersione delle cose e/o delle tracce pertinenti al reato, in altre parole l'urgenza di procedere, condizione palesemente sussistente anche nel caso analizzato dalla Corte Edu, nonostante il contrario avviso dei giudici, ben potendo l'indagato in ogni momento decidere di presentarsi in negozio e pretendere la restituzione del proprio P.C., anche se non ancora riparato.

Se può essere di conforto, val la pena di segnalare che la Corte, che in genere quando accoglie un ricorso accoglie anche la richiesta di ristoro economico con esso avanzata, nel caso di specie ha rigettato la richiesta di risarcimento del ricorrente, sia per il danno materiale (ritenuto insussistente) che per quello morale, ritenendo che il riconoscimento della violazione dell'art. 8 della Convenzione rappresenti in sé una soddisfazione sufficiente in via equitativa per ogni pregiudizio morale subìto dal ricorrente medesimo.

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