Diffusione delle riprese della deposizione di un soggetto indagato. Rispetto della vita privata e libertà di espressione nella giurisprudenza europea

Wanda Nocerino
05 Giugno 2019

La registrazione, all'interno di un commissariato, di funzionari di polizia nell'espletamento delle loro funzioni e la pubblicazione del relativo video sulla rete Internet devono considerarsi, rispettivamente, dato personale e trattamento di dato personale...
Massima

La registrazione, all'interno di un commissariato, di funzionari di polizia nell'espletamento delle loro funzioni e la pubblicazione del relativo video sulla rete Internet devono considerarsi, rispettivamente, dato personale e trattamento di dato personale, ai sensi dell'art. 3 della direttiva 95/46 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995. Tuttavia, al giudice del rinvio compete la valutazione circa l'applicabilità delle esenzioni e deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 95/46, ovvero se la pubblicazione di detto video abbia quale unica finalità la divulgazione al pubblico di informazioni, opinioni o idee, rientrando, tout court, nella nozione di “scopo giornalistico”.

Il caso

La questione che qui si commenta trae origine dal comportamento del sig. Buivids che procede alla registrazione delle operazioni di raccolta delle sue deposizioni in un commissariato di polizia e alla pubblicazione del relativo video sulla rete Internet.

In seguito a tale pubblicazione, l'Agenzia nazionale per la protezione dei dati dichiara che il sig. Buivids avrebbe violato l'articolo 8, paragrafo 1, della legge lettone sulla protezione dei dati personali delle persone fisiche, del 23 marzo 2000, n. 123/124, non avendo comunicato agli agenti di polizia, nella loro qualità di interessati, le informazioni previste in detta disposizione relative alla finalità del trattamento dei dati personali che li riguardano e dispone la rimozione di tale video dalla rete.

Dopo diversi ricorsi interni – sia di natura amministrativa che penale – della questione viene investita la Corte suprema di Lettonia (giudice di terza istanza) affinché si pronunci sulla possibilità di applicare gli artt. 2, 5 e 8 della legge lettone di protezione dei dati personali, lamentando che la registrazione isolata di funzionari pubblici nell'esercizio delle loro funzioni in un luogo aperto al pubblico non possa essere considerata un “trattamento di dati personali”, e, dunque, non debba trovare applicazione la normativa in esame.

Il giudice nazionale, nutrendo perplessità circa la possibilità di applicare la normativa comunitaria in materia di protezione e trattamento dei dati personali (direttiva 95/46 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995) al caso di specie e, sollevando dubbi interpretativi sulle deroghe di cui all'art. 9 della medesima direttiva, sottopone alla CGUE le seguenti questioni pregiudiziali:

  1. se le attività di registrazione e pubblicazione descritte possano o meno rientrare nell'ambito di applicazione della direttiva 95/46;
  2. se le stesse possano essere considerate quali trattamento di dati personali a scopi giornalistici, ai sensi dell'art. 9 della direttiva 95/46.

In relazione alla prima richiesta, la Corte dichiara che «l'articolo 3 della direttiva 95/46 deve essere interpretato nel senso che la registrazione video di taluni agenti di polizia all'interno di un commissariato, durante la raccolta di una deposizione, e la pubblicazione del video così registrato su un sito Internet dove gli utenti possono inviare, visionare e condividere contenuti video, rientrano nell'ambito di applicazione di detta direttiva».

In relazione alla seconda questione, la Corte, non potendo decidere nel merito circa la soluzione da applicare al caso concreto (essendo di competenza esclusiva degli Stati membri), fornisce dei dicta per una interpretazione teleologicamente orientata del disposto dell'art. 9 della direttiva 95/46, sancendo che «l'articolo 9 della direttiva 95/46 deve essere interpretato nel senso che circostanze di fatto come quelle oggetto del procedimento principale possono costituire un trattamento di dati personali esclusivamente a scopi giornalistici, ai sensi di tale disposizione, sempre che da tale video risulti che detta registrazione e detta pubblicazione abbiano quale unica finalità la divulgazione al pubblico di informazioni, opinioni o idee, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».

La questione

Le quaestiones affrontate nel caso di specie, seppur legate da un rapporto di genere a specie, attengono alla corretta interpretazione della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, e in particolare, degli artt. 2, 3 e 9 della stessa.

In primis, la Corte di Lussemburgo è chiamata a definire l'ambito di applicazione della direttiva in esame in relazione alla registrazione della deposizione dell'indagato in un commissariato di polizia e la conseguente diffusione del video su internet, ovvero se le attività in esame possano o meno rientrare nella nozione di dato personale e di trattamento di dato personale che, ai sensi dell'art. 2, lett. a) e b) della predetta direttiva, risultano oggetto di tutela del diritto dell'Unione.

Contestualmente, i giudici sono tenuti a verificare che non sussista alcuna condizione che giustifichi l'inapplicabilità del diritto dell'Unione, ossia constatare che il trattamento di dati personali non sia effettuato per l'esercizio di attività che non rientrano nel campo di applicazione del diritto comunitario, non abbia carattere esclusivamente domestico e non abbia ad oggetto la pubblica sicurezza, la difesa, la sicurezza dello Stato e le attività dello Stato in materia penale (ai sensi dell'art. 3, comma 2 della direttiva 95/46).

In secondo luogo, la Corte deve fornire la corretta interpretazione del disposto di cui all'art. 9 della direttiva 95/46 che, in assenza delle condizioni che ex se escludono l'applicabilità della stessa, prevede esenzioni e deroghe alle disposizioni in esame qualora in trattamento dei dati personali sia effettuato esclusivamente a scopi giornalistici.

Le soluzioni giuridiche

In relazione alla prima questione pregiudiziale, la Corte di Lussemburgo, senza discostarsi dai consolidati orientamenti della giurisprudenza unitaria, ribadisce il principio per cui la videoripresa di un soggetto – a prescindere dalla sua qualificazione (CGUE, 16 luglio 2015, ClientEarth e PAN Europe/EFSA, C-615/13 P, punto 30; Österreichischer Rundfunk e a., C‑465/00, C‑138/01 e C‑139/01, punto 64; Commissione/Bavarian Lager, C‑28/08 P, punto da 66 a 70, nonché Worten, C‑342/12, punto 19 e 22) – costituisce un dato personale, ex art. 2, lett. a), direttiva 95/46 (CGUE, 11 dicembre 2014, Ryneš, C-212/13, Ryneš, C-212/13, punto, 22).

Inoltre, la registrazione del video di persone immagazzinata in un dispositivo a registrazione continua, quale la memoria della fotocamera utilizzata per la ripresa, costituisce trattamento di dati personali, ai sensi dell'art. 2, lett. b), direttiva 95/46, per cui si considera tale «qualsiasi operazione o [qualsiasi] insieme di operazioni […] applicate a dati personali, come la raccolta, la registrazione, la conservazione […] diffusione o qualunque altra forma di messa a disposizione […]» (CGUE, 11 dicembre 2014, Ryneš, cit., punto 23 e 25).

A conferma dell'applicabilità dell'art. 2, lett. b) della direttiva in esame al caso di specie, i giudici precisano che il soggetto, a seguito della registrazione, procede alla diffusione del video in rete, rendendolo disponibile per chiunque acceda al sito (CGUE, 10 luglio 2018, Jehovan todistajat, C-25/171, punto 42; CGUE, sentenza del 13 maggio 2014, Google Spain e Google, C-131/12, punto 26; CGUE, 11 dicembre 2014, Ryneš, cit., punto 31 e 33; CGUE, 16 dicembre 2008, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, C‑73/07, punto 44; CGUE, 6 novembre 2003, Lindqvist, C-101/01, punto 25).

Dunque, senza particolari sforzi ermeneutici, la Corte propende per l'applicabilità della direttiva al caso di specie, sostenendo che non possono nemmeno operare le “esimenti” di cui all'art. 3, comma 2, direttiva 95/46, che «devono essere oggetto di interpretazione restrittiva» (CGUE, 10 luglio 2018, Jehovan todistajat, cit., punto 37; CGUE, 27 settembre 2017, Puskar, C-73/16, punto 38).

Sulla seconda questione, invece, la Corte appare assai più cauta nel fornire una soluzione che possa considerarsi come “definitiva”, dotando il giudice del rinvio degli elementi necessari ai fini della valutazione nel merito.

A parere dei giudici di Lussemburgo, pur non rilevando la qualifica del soggetto che effettua la registrazione e la conseguente diffusione e nemmeno il supporto mediante cui vengono trasmessi i dati oggetto di trattamento, al fine di attribuire alle attività de quibus uno scopo esclusivamente giornalistico, è necessario che il giudice del rinvio verifichi che le stesse abbiano quale unica finalità la divulgazione al pubblico di informazioni, opinioni e idee, operando un bilanciamento tra due istanze contrapposte, ossia diritto alla protezione della vita privata e libertà di espressione, potendo le deroghe e le esenzioni di cui all'art. 9 della direttiva 95/46 «operare solo nella misura in cui siano necessarie per conciliare due diritti fondamentali» (CGUE, 16 dicembre 2008, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, Oy c. Finlandia, punto 60).

Al fine di verificare se la registrazione e la conseguente divulgazione del video registrato possano o meno rientrare nella nozione di attività giornalistiche e, conseguentemente, far operare le esenzioni e le deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 95/46, il remittente dovrà:

  1. operare un complesso bilanciamento tra il diritto alla protezione della vita privata e la libertà di espressione, al fine di giustificare la compressione del primo solo per tutelare l'effettiva realizzazione della seconda prerogativa, parimenti meritevole di tutela per l'ordinamento costituito;
  2. riscontrare che l'unico fine della pubblicazione del video sia la divulgazione al pubblico di opinioni, informazioni o idee, considerando i criteri elaborati dalla Corte EDU per attribuire a quel comportamento un fine giornalistico, ossia che il contributo a un dibattito di interesse generale, la notorietà dell'interessato, l'oggetto del reportage, la condotta anteriore dell'interessato, il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione, le modalità e le circostanze in cui le informazioni sono state ottenute nonché la loro veridicità (v., in tal senso, CGUE, 27 giugno 2017, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia, cit., punto 165).
Osservazioni

Ancora una volta la Corte di Lussemburgo si confronta su temi assai “caldi” per il diritto unitario che ineriscono al complesso bilanciamento tra due interessi contrapposti, ossia tra il diritto alla riservatezza (in senso specifico) e la libertà di espressione, da ritenersi fondamentale in ogni società democratica.

Preliminarmente, occorre affrontare una questione di diritto intertemporale, funzionale ad evidenziare, in prospettiva de jure condendo, le tendenze che potranno essere seguite nel prossimo futuro.

Come noto, la direttiva 95/46 è stata recentemente abrogata dal regolamento europeo 2016/679 (GDPR, General Data Protection Regulation), relativo alla Protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE, entrato in vigore il 24 maggio 2016 e divenuto definitivamente applicabile in via diretta in tutti i Paesi UE a partire dal 25 maggio 2018. Si ritiene che questa rappresenti la più ingente modifica normativa della disciplina del trattamento dei dati personali, mossa dalla duplice necessità di adeguare la protezione dei dati all'evoluzione tecnologica e, al contempo, garantire l'uniforme circolazione degli stessi nell'ambito dell'Unione.

In ragione del principio del tempus regit actum, la normativa or ora citata non ha potuto trovare applicazione concreta al caso di specie, risalendo il rinvio pregiudiziale al 1 giugno 2017, ovvero ad un tempo assai anteriore rispetto alla deadline prevista per rendere applicabile il Regolamento nei Paesi europei.

Tornando all'analisi del disposto, va immediatamente chiarito che, quanto meno in relazione alla prima quaestio affrontata dalla Corte di Lussemburgo, la ricostruzione dell'iter motivazionale prescelto a suffragio delle proprie ragioni appare assolutamente logica e, in relazione alle conclusioni cui giunge, assolutamente condivisibile.

È ormai innegabile che il progresso scientifico e tecnico ha travolto ogni settore della vita umana, realizzando quella che può essere definita una vera e propria “rivoluzione tecnologica”, determinando l'evoluzione e il potenziamento dei mezzi di comunicazione e diffusione delle informazioni. Ciò, inevitabilmente, comporta un ampliamento della sfera operativa del “giuridico” anche a fatti e comportamenti non considerati “tradizionali”, tipizzando nuovi diritti che possono essere annoverati, senza alcuna riserva, nell'ambito delle prerogative fondamentali individuali.

Rebus sic stantibus, la scelta di ricomprendere anche la ripresa di immagini nel genus dei dati personali e la pubblicazione del relativo video in rete quale tecnica di trattamento – e, dunque, nel campo di applicazione del dictum normativo – risulta assolutamente idonea e rispondente al nuovo modo di concepire la società, al fine di tutelare le nuove prerogative individuali.

Ben più complessa risulta la quaestio relativa all'uniforme interpretazione del disposto di cui all'art. 9 direttiva 95/46, potendosi intravedere nel ragionamento dei giudici un'argomentazione euristica basata più sull'analisi dei principi generali che sorreggono il diritto dell'Unione che sulla determinazione di criteri che fungano da ausilio al giudice del rinvio per decidere nel merito.

Più nel dettaglio, per quanto concerne l'ordinamento europeo, il diritto al rispetto della vita familiare risulta consacrato nell'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (2000/C 364/01), per cui «[O]ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare», nonché nell'art. 8, per cui «[O]ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge […]».

Parimenti, le prerogative de quibus trovano espresso riconoscimento sia nel diritto dell'Unione, nell'art. 8 CEDU, che nel diritto internazionale, nell'art. 17 del Patto sui diritti civili e politici del 1948, ai sensi del quale «[N]nessuno può essere sottoposto […] a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione».

In sostanza, il diritto alla riservatezza, secondo le interpretazioni dottrinali più recenti, può essere inteso sia come rispetto all'intimità della vita privata, ossia all'inaccessibilità della sfera intima dell'individuo comprensiva delle sue proiezioni spaziali e comunicative (c.d. riservatezza in senso stretto), sia quale potere di controllare e gestire ogni informazione personale (c.d. privacy).

Da ciò si desume che, se da un lato il termine “riservatezza in senso stretto” contempla tutte le situazioni che prospettano un'esigenza di tutela dell'intimità personale, dall'altro, il termine “privacy” individua circostanze più complesse che finiscono per simboleggiare l'insieme delle libertà che sono implicate nel trattamento dei dati personali» (c.d. habeas data).

Pur se legate da un rapporto di genere a specie, può dirsi che tanto la riservatezza quanto la privacy, si stagliano quali «diritti dell'uomo a sé stanti» (MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1976, p. 1067), tutelati in quanto tali dal sistema giuridico «che li presuppone a se stesso» e che «entrambe le prerogative si ergono a paradigma della categoria dei c.d. diritti “liquidi”, ossia anamorfici o metamorfici in quanto privi di connotati durevoli e stabili […]». (BONETTI, Riservatezza e processo penale, Giuffrè, 2003, p. 59).

Come ampiamente sostenuto, qualunque trattamento dei dati personali effettuato da un soggetto diverso dall'interessato è idoneo a recare pregiudizio al diritto alla protezione dei dati personali (CGUE, 17 ottobre 2013, Schwarz, C-291/12, punti 21 ss.); di conseguenza anche solo lo scatto di una fotografia, che provoca una memorizzazione di un'immagine, costituisce interferenza nella vita privata altrui (Corte EDU, Reklos e Davourlis c. Grecia, 15 gennaio 2009, §§ 34-40).

Va evidenziato, tuttavia, che il godimento di tali diritti non è senza limiti, dovendo essere bilanciato con altri interessi meritevoli di tutela per l'ordinamento costituito: di conseguenza, non si tratta di riconoscere il valore che deve essere considerato “primario”, quanto di operare – in relazione al caso concreto – un bilanciamento che legittimi la soccombenza del più debole rispetto al più forte (Corte EDU, Axel Springer AG c. Germania, 7 febbraio 2012, §§ 83 e 84).

Più in particolare, il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta ma deve essere considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con il principio di proporzionalità – o, meglio, di ragionevolezza – della misura rispetto allo scopo perseguito, nel senso che qualunque restrizione dei diritti fondamentali non può risultare eccedente rispetto alla gravità dei motivi che la giustificano, nel completo rispetto del principio di “stretta necessità”.

Per quel che in questa sede rileva, il diritto alla protezione della sfera privata deve essere contemperato con il diritto alla libertà di espressione che trova espresso riconoscimento nel disposto di cui all'art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ai sensi del quale «[O]ogni persona ha diritto alla libertà di espressione […]», nonchè nell'art. 10 CEDU, a mente del quale «[O]ogni soggetto ha diritto di comunicare e diffondere liberamente idee e opinioni», e dall'art. 19 del Patto internazionale per i diritti civili e politici, per cui «[O]ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta» (art. 19, comma 2).

Ogni limitazione al suo godimento deve essere prevista per legge e giustificata da uno scopo ritenuto legittimo in una società democratica, quale la protezione della reputazione, della vita privata e dei diritti altrui.

Ciò non significa dover sempre sostenere il primato del diritto alla riservatezza rispetto alla libertà di espressione, dal momento che anche in questo caso è opportuno operare un bilanciamento tra i due precetti, tenendo a mente che il primo può soccombere allorquando l'informazione concerne fatti di rilievo pubblico in una società democratica (CEDU, Mamère c. Francia, 7 novembre 2006, §§ 20-30), ovvero si tratti di soggetti che ricoprono posizioni o ruoli pubblici (CEDU, Furst-Pfeifer c. Austria, 17 maggio 2016, §§ 35-49).

Più in particolare, la sfera di tutela del diritto all'immagine è minore, rispetto alla persona “comune”, per personalità pubbliche o politiche ritratte in connessione con l'esercizio di attività di rilievo pubblico o istituzionale, stante il possibile contributo delle immagini al dibattito pubblico (CEDU, 13 ottobre 2010 Von Hannover c. Germania, n. 40660/08, §§ 45-50). In sostanza, la libertà di espressione dovrebbe prevalere sul diritto al rispetto della vita privata ove le immagini pubblicate non riguardino la vita privata di una persona ma servano per illustrare un tema di attualità di interesse pubblico (CEDU, 7 febbraio 2012, Springer c. Germania, n. 39954/08).

Nel caso di specie, prima facie, si potrebbe propendere per il primato della libertà di espressione del ricorrente rispetto al diritto alla riservatezza degli agenti di polizia giudiziaria, essendo i soggetti passivi funzionari pubblici ripresi nell'espletamento delle loro funzioni.

A ben guardare, però, la registrazione e la conseguente diffusione del video su larga scala rappresenta, tout court, una limitazione del diritto alla privacy non giustificata dalla necessità di divulgare al pubblico opinioni, informazioni o idee rilevanti in una società democratica, dal momento che lo scopo del ricorrente è quello di richiamare l'attenzione della collettività su condotte (a suo avviso) irregolari tenute dai pubblici ufficiali. Dunque, non si ritiene applicabile la scriminante del diritto all'informazione del giornalista atteso che manca un pubblico interesse alla divulgazione di tali informazioni.

Come precisato anche nelle conclusioni generali dell'avvocato di Stato, «l'accertamento di siffatte condotte irregolari non costituisce condizione di applicabilità dell'art. 9, direttiva 95/46».

Solo una norma interna dello Stato Membro, che deroghi la disciplina comunitaria, potrebbe consentire una tale invasione della privacy di chi svolge pubbliche funzioni nell'esercizio delle stesse; deroga che, allo stato dell'arte, risulta prevista solo per coloro che esercitano funzioni giornalistiche.

Inoltre, le informazioni sono state raccolte, trattate e divulgate in assenza del dovuto consenso informato dei soggetti coinvolti e l'autore non si è nemmeno premunito di rendere anonimi i dati personali degli agenti (oscurare i volti, camuffare le voci, etc.).

Da ciò si potrebbe dedurre che la registrazione di immagini concernenti pubblici funzionari nell'esercizio delle proprie funzioni e la conseguente pubblicazione risulti lecita solo ove ricorrano determinate condizioni, ossia che gli agenti abbiano prestato il loro consenso ad essere ripresi, o se, in assenza di consenso, ne sono stati oscurati i volti, le voci e i dati personali, ovvero se si è trattato di un abuso realmente grave da diventare di pubblico interesse per la collettività.

Volendo tentare di pronosticare la decisione che la Corte di giustizia avrebbe dovuto prendere se si fosse trovata ad applicare, in relazione al medesimo fatto storico, il Regolamento (UE) 2016/679, può ritenersi che la soluzione alla quaestio de qua non sarebbe stata poi così diversa rispetto all'approdo raggiunto dalla Corte applicando la direttiva 95/46.

Differente, tuttavia, sarebbe stato l'iter seguito dalla stessa per corroborare la soluzione offerta. A ben guardare, infatti, la necessità di offrire adeguata protezione alla sfera personale dell'individuo, ha spinto il legislatore europeo a rafforzare la disciplina del trattamento in relazione a specifiche tipologia di dati personali.

In relazione al perimetro applicativo del Regolamento si possono trasporre agevolmente le considerazioni già svolte in merito all'ambito di operatività della sopra indicata direttiva: in sostanza, pur avendo come nuovo punto di riferimento l'art. 4, comma 1, punti 1 e 2, Regolamento UE, ben può ritenersi che la registrazione di immagini memorizzate sul disco rigido di un sistema operativo costituisca “dato personale” e che la conseguente pubblicazione delle stesse sulla rete Internet rappresenti un “trattamento di dati personali”.

Con una precisazione. Il nuovo Regolamento disciplina il trattamento di una particolare tipologia di dati personali. Si tratta dei c.d. dati biometrici, ossia «dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l'identificazione univoca, quali l'immagine facciale o i dati dattiloscopici» (art. 4, comma 1, punto 14, Regolamento UE).

Più nel dettaglio, ai sensi dell'art. 9, Regolamento UE vige il divieto di trattare «dati biometrici intesi ad identificare in modo univoca una persona fisica», a meno che «l'interessato non presti il proprio consenso» (art. 9, comma 2, lett. a) e «il trattamento [è] risulti necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell'Unione o di altri Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l'essenza del diritto alla protezione dei dati […]» (art. 9, comma 2, lett. g)).

A questo punto, si tratta di capire se l'immagine della persona registrata dalla telecamera possano o meno rientrare nella categoria di dato biometrico e, conseguentemente, applicare la speciale disciplina di cui all'art. 9, Regolamento UE.

A parere di chi scrive, la ripresa di immagini mediante strumenti tecnici consente di acquisire informazioni inerenti alle caratteristiche fisiche e comportamentali dell'individuo filmato, consentendone l'identificazione, rispettando i dicta di cui all'art. 4, comma 1, punto 14, Regolamento UE.

Posta l'assoluta compatibilità dell'attività de qua nella species di dato personale biometrico, resta da chiedersi se il relativo trattamento rientri nell'ambito di tutela dell'art. 9, comma 1, Regolamento UE, ovvero sussistano le deroghe di cui al comma 2, previste qualora il trattamento sia stato oggetto di consenso da parte degli interessati oppure risulti necessario per motivi di interesse collettivo.

In relazione al primo aspetto, nel caso di specie gli agenti della polizia giudiziaria non avrebbero potuto prestare il consenso esplicito al trattamento dei dati – unica species funzionale a recidere il carattere antigiuridico all'attività de qua – dal momento che gli stessi non si sono accorti nemmeno della pregressa attività di ripresa video da parte del soggetto agente.

In relazione alla seconda condizione legittimante la deroga, le finalità di “rilevante interesse pubblico” (identificate dalla legge o, in difetto, ad opera dell'Autorità GPDP), vanno lette in base al combinato disposto dagli artt. 20, 21 e da 64 a 73 GDPR, nei quali non risulta affatto menzionato l'accertamento delle (presunte) condotte irregolari detenuti dai funzioni pubblici nell'espletamento delle loro funzioni.

Dunque, in ragione dell'assenza di un consenso esplicito al trattamento di tali dati da parte dei legittimi interessati, peraltro non giustificato da motivi di interesse pubblico rilevante per il diritto dell'Unione, può ritenersi applicabile il divieto di cui al comma 1 dell'art. 9 e, conseguentemente, prevalente il diritto alla protezione della sfera privata dei soggetti sottoposti ad un trattamento illecito dei dati che li riguardano.

D'altra parte non rileva nemmeno la deroga di cui all'art. 85, comma 2, Regolamento UE che, al fine di tutelare la libertà di espressione e di informazione, prevede che il godimento di tali prerogative possa essere limitato solo allorquando il trattamento dei dati sia effettuato «a scopi giornalistici».

Si tratta, in ultima analisi, di verificare se la pubblicazione del su menzionato video possa soddisfare il requisito de qua e, dunque, giustificare le deroghe in materia di trattamento dei dati personali.

Come noto, il criterio di discrimine tra attività che rientrano nell'ambito di applicazione della deroga e quelle che, per converso, rappresentano una mera divulgazione di informazioni, è rappresentato dall'essenzialità dell'informazione, così declinata: «[L]la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera personale quando l'informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell'originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualifica dei protagonisti» (ai sensi dell'art. 6, Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica).

Nel caso di specie, tuttavia, il requisito dell'essenzialità dell'informazione non sembra sussistere affatto, dal momento che l'unico scopo del soggetto agente risulta quello di divulgare al pubblico modalità – illecite – di espletamento di funzioni pubbliche. D'altra parte, pur volendo ritenere la notizia di rilevante interesse per la collettività, il soggetto interessato avrebbe dovuto diffondere l'informazione senza divulgare i dati personali dei funzionari, rendendo nota un'informazione scevra di quei connotati che determinano la sua inclusione nel genus dei dati personali.

In conclusione, si può affermare che il diritto alla riservatezza, secondo il modus concependi proprio della nuova normativa, tende a prevalere sul diritto alla libertà di espressione tutte le volte in cui, in assenza di un esplicito consenso del titolare della prerogativa meritevole di tutela per il diritto dell'Unione, l'esigenza di divulgare notizie non risulti giustificata da un interesse pubblico e collettivo a quell'informazione, sempre che la stessa sia proporzionata allo scopo perseguito e siano previste misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali dei soggetti passivi.

Guida all'approfondimento

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