Affermazioni razziali. La limitazione della libertà di espressione deve parametrarsi al contesto storico-sociale

07 Aprile 2016

La sentenza della Corte riguarda il caso di un politico Turco che ha espresso, nel corso di eventi pubblici tenutisi in Svizzera nel 2005, l'opinione secondo cui le deportazioni di massa e i massacri subiti dagli Armeni nel 1915 nell'Impero Ottomano non sarebbero state un “genocidio”.

La sentenza della Corte riguarda il caso di un politico Turco che ha espresso, nel corso di eventi pubblici tenutisi in Svizzera nel 2005, l'opinione secondo cui le deportazioni di massa e i massacri subiti dagli Armeni nel 1915 nell'Impero Ottomano non sarebbero state un “genocidio”. Per tali dichiarazioni viene condannato per il reato di cui all'art. 261 bis § 4 del codice penale svizzero (Discriminazione razziale). La sentenza della Corte afferma che tale condanna costituisce una violazione della libertà di espressione di cui all'art. 10 Cedu in quanto considerando che le dichiarazioni del ricorrente vertono su una materia di pubblico interesse e non assurgono ad istigazioni all'odio o all'intolleranza, che il contesto in cui sono state rese (Svizzera) non è contrassegnato da elevate tensioni o speciali implicazioni storiche, che le frasi non posso essere considerate offensive della dignità dei membri della comunità armena al punto da richiedere una risposta penale in Svizzera, che non ci sono obblighi internazionali di tutela penale che vincolino la Svizzera a sanzionare penalmente tali dichiarazioni, che appare che le autorità giurisdizionali svizzere abbiano censurato il ricorrente per aver espresso un'opinione divergente da quelle consolidate in Svizzera e che l'interferenza ha assunto la grave forma della condanna penale, la Corte ritiene che non sia necessario, in una società democratica, assoggettare il ricorrente ad una sanzione penale al fine di proteggere i diritti della comunità armena coinvolti nel caso.

1. «I principi generali per valutare se un'interferenza con l'esercizio della libertà di espressione sia necessaria in una società democratica, ricavati dalla giurisprudenza della Corte, possono essere così riassunti»:

  • «La libertà di espressione è uno dei fondamenti di una società democratica e una delle condizioni essenziali per il suo progresso e per la realizzazione di ciascun individuo. Assoggettata all'art. 10 § 2 della Convenzione, si applica non solo alle informazioni o idee che siano accolte favorevolmente o ritenute inoffensive o indifferenti, ma anche a quelle che offendono, scuotono o disturbano. Tali sono le esigenze del pluralismo, della tolleranza e della apertura mentale senza le quali non vi è società democratica. Come stabilito dall'art. 10, questa libertà è soggetta ad eccezioni, ma queste devono essere costruite restrittivamente e la necessità di qualsivoglia restrizione deve essere stabilita in maniera convincente».
  • «L'aggettivo necessarie di cui all'art. 10 § 2 implica l'esistenza di una pressante necessità sociale. Gli Stati membri hanno un margine di apprezzamento nel valutare se tale necessità sussista, ma la Corte è legittimata ad esprimere il giudizio finale sulla compatibilità di una “restrizione” con la libertà di espressione».
  • «Il compito della Corte non è quello di prendere il posto delle competenti Autorità nazionali, ma solo di valutare le decisioni che queste hanno adottato nell'ambito di applicazione dell'art. 10 Cedu. La Corte dovrà esaminare l'interferenza alla luce del caso concreto nella sua interezza e determinare se essa sia stata proporzionata allo scopo legittimo perseguito e se le ragioni addotte dalle Autorità nazionali per giustificare la restrizione siano rilevanti e sufficienti. Nel fare ciò la Corte deve considerare sufficiente che le Autorità abbiano applicato standard conformi ai principi sanciti dall'art. 10 e si siano fondate su un'accettabile valutazione dei fatti rilevanti».
  • «Un ulteriore principio costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte è quello per cui vi è una ridotta possibilità di applicare l'art. 10 § 2 al fine di legittimare restrizioni di manifestazioni di idee politiche o dibattiti su questioni di pubblico interesse».

2. «L'etichettamento negativo mediante stereotipi di un gruppo etnico è idoneo, quando raggiunge determinati livelli, a produrre un effetto negativo sul senso di identità del gruppo stesso e sui sentimenti di autostima e sicurezza in sé stessi dei suoi membri. Ciò può dunque ledere la vita privata di tali soggetti, secondo il significato proprio dell'art. 8 § 1 della Convenzione».

3. «La Corte è stata chiamata a valutare l'applicazione dell'art. 10 della Convenzione in numerosi casi concernenti affermazioni, verbali o non verbali, ritenute dirette ad fomentare o giustificare la violenza l'odio o l'intolleranza. Nel valutare se le interferenze con l'esercizio della libertà di espressione degli autori, o talvolta degli editori, di tali espressioni fossero “necessarie in una società democratica” la Corte, nell'applicazione dei principi generali elaborati dalla sua giurisprudenza, ha preso in considerazione diversi fattori».

  • «Uno di questi riguarda la circostanza che l'opinione sia stata espressa in un contesto di tensione politica o sociale; la presenza di tale contesto ha generalmente condotto la Corto a giustificare alcune forme di interferenza con tali opinioni».
  • «Un altro fattore riguarda la circostanza che l'espressione, correttamente ricostruita e inserita nel suo contesto immediato o in un contesto più ampio, possa essere considerata come una diretta o indiretta esortazione alla violenza, all'odio o all'intolleranza».
  • «La Corte ha altresì preso in considerazione il modo in cui l'opinione è stata formulata e la sua capacità – diretta o indiretta – di produrre conseguenze dannose».

4. «La Commissione ha affrontato numerosi ricorsi per violazione dell'art. 10 Cedu concernenti la negazione dell'olocausto e altre affermazioni relative ai crimini nazisti. La Commissione, spesso riferendosi alla esperienza storica degli Stati interessati, ha valutato tali affermazioni come attacchi alla comunità ebraica e intrinsecamente connessi all'ideologia nazista che fu anti-democratica e contraria ai diritti umani. Ha qualificato tali affermazioni quali istigazioni all'odio razziale, all'antisemitismo e alla xenofobia e su tale basi ha ritenuto che le condanne penali per gli Autori delle stesse fossero necessarie in una società democratica».

5. «Nei casi concernenti affermazioni in relazione all'olocausto la Commissione e la Corte, hanno invariabilmente presunto, per ragioni storiche e ambientali, che le stesse costituissero forme di istigazione all'odio e all'intolleranza».

6. «Per la Corte la giustificazione della incriminazione del negazionismo dell'olocausto non risiede tanto nel fatto che questo sia un fatto storico pacificamente accertato ma nel fatto che, in virtù del contesto storico degli Stati coinvolti, la sua negazione, seppure presentata come imparziale ricerca storica, sia invariabilmente vista come espressiva di un'ideologia anti-democratica e antisemitica. La negazione dell'olocausto è dunque doppiamente pericolosa, specialmente negli Stati che hanno provato gli orrori nazisti e che potrebbero essere visti come portatori di una speciale responsabilità morale di prendere le distanze dalle atrocità di massa che hanno perpetrato o agevolato, proibendo la negazione delle stesse».

7. «Nella giurisprudenza della Corte le espressioni del pensiero in materie di pubblico interesse sono meritevoli di una forte tutela, mentre le espressioni che promuovono o giustificano la violenza, l'odio, la xenofobia o altre forme di intolleranza normalmente non godono di protezione. Le opinioni su questioni storiche, sia se espresse in dibattiti pubblici o su altri mezzi di comunicazione quali libri, giornali, programmi radiofonici o televisivi sono di regola considerati vertenti su materie di pubblico interesse».

8. «È nella natura del discorso politico l'essere controverso e spesso vigoroso. Ciò non toglie l'interesse pubblico di tale discorso, sempre che non oltrepassi il limite e si trasformi in un'istigazione alla violenza, all'odio o all'intolleranza».

9. «Il più ampio concetto di proporzionalità implicito nella locuzione necessaria in una società democratica richiede una connessione razionale tra le misure adottate e gli scopi perseguiti mediante tali misure, nel senso che tali misure siano ragionevolmente idonee a produrre i risultati sperati».

10. «Mentre eventi di epoche relativamente recenti possono risultare così traumatici da giustificare, per un periodo di tempo, un maggiore livello di disciplina delle espressioni concernenti gli stessi, la necessità di tale disciplina deve venire meno con il passare del tempo».

11. «Non ci sono trattati internazionali in vigore in Svizzera che richiedano in modo chiaro ed esplicito l'applicazione di sanzioni penali per la negazione del genocidio in quanto tale. Ciò non sembra essere richiesto nemmeno dal diritto internazionale consuetudinario».

12. «Un'interferenza con la libertà di espressione che assuma le forme di una condanna penale inevitabilmente richiede una valutazione dettagliata del giudice sulla specifica condotta che si intende punire. In questo tipo di casi, non è normalmente sufficiente che l'interferenza sia imposta perché il suo oggetto rientra in una particolare categoria ovvero sia prevista da una norma di legge formulata in termini generali; è invece richiesto che tale interferenza sia necessaria nelle specifiche circostanze del caso».

13. Considerando tutti gli elementi esaminati — che le dichiarazioni del ricorrente vertono su una materia di pubblico interesse e non assurgono ad istigazioni all'odio o all'intolleranza, che il contesto in cui sono state rese (Svizzera) non è contrassegnato da elevate tensioni o speciali implicazioni storiche, che le frasi non posso essere considerate offensive della dignità dei membri della comunità armena al punto da richiedere una risposta penale in Svizzera, che non ci sono obblighi internazionali di tutela penale che vincolino la Svizzera a sanzionare penalmente tali dichiarazioni, che appare che le autorità giurisdizionali svizzere abbiano censurato il ricorrente per aver espresso un'opinione divergente da quelle consolidate in Svizzera e che l'interferenza ha assunto la grave forma della condanna penale — la Corte ritiene che non sia necessario, in una società democratica, assoggettare il ricorrente ad una sanzione penale al fine di proteggere i diritti della comunità armena coinvolti nel caso».

Vi è stata dunque una violazione dell'art. 10 della Convenzione.

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