Ergastolo ostativo. La Corte Edu condanna l'Italia e richiede una riforma che elimini presunzioni assolute e automatismi

08 Luglio 2019

Il 12 dicembre 2016, il detenuto ergastolano Marcello Viola proponeva ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo contro l'Italia, ai sensi dell'art. 34 della Convenzione, sostenendo di essere sottoposto a una pena detentiva a vita incomprimibile, inumana e degradante...
Premessa

Il 12 dicembre 2016, il detenuto ergastolano Marcello Viola proponeva ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo contro l'Italia, ai sensi dell'art. 34 della Convenzione, sostenendo di essere sottoposto a una pena detentiva a vita incomprimibile, inumana e degradante.

Il ricorso rappresentava l'ulteriore segmento di un lungo percorso che il condannato aveva intrapreso per il riconoscimento dei suoi diritti, ma che non aveva trovato risposte positive, pur dopo la revoca del regime di detenzione previsto dall'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario.

Vale la pena, seppur brevemente, riassumere quello che è stato e continuerà ad essere un vero e proprio “viaggio della speranza”. È bene chiarire, infatti, così come ha precisato la stessa Corte Europea che la sentenza emessa, pur accertando la violazione, non deve essere intesa come possibilità per il ricorrente di un'immediata liberazione.

Richieste e rigetti in Italia

Il Viola, sottoposto al regime previsto dall'art. 41-bis, secondo comma, dell'ordinamento penitenziario dal giugno 2000, aveva visto accogliere la sua richiesta di revoca della detenzione speciale dal Tribunale di Sorveglianza dell'Aquila, con ordinanza del 14 marzo 2006. In particolare il Tribunale riteneva che non spettava al detenuto provare la rottura dei legami con l'associazione mafiosa, ma incombeva all'amministrazione fornire una motivazione basata su elementi fattuali precisi, concreti ed attuali, che indicassero il mantenimento dei contatti del detenuto con l'organizzazione criminale.

Sulla base di tale pronuncia, l'interessato chiedeva la concessione di un permesso premio, ai sensi dell'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario, in quanto vi erano stati anche risultati positivi del percorso rieducativo e riteneva di non costituire più un pericolo per la società. Il Magistrato di Sorveglianza de L'Aquila, il 13 luglio 2011, rigettava la richiesta, in quanto il beneficio del permesso premio era da escludersi per le persone condannate all'ergastolo per uno dei delitti previsti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, in mancanza della collaborazione con la giustizia prevista dall'articolo 58-ter del medesimo ordinamento. Il ricorso avverso tale provvedimento al Tribunale di Sorveglianza de l'Aquila non veniva accolto. I magistrati, con ordinanza del 29 novembre 2011 (depositata il 9 gennaio 2012) non solo ribadivano la mancanza della collaborazione con la giustizia, ma precisavano che l'ordinanza del 14 marzo 2006, con la quale era stato revocato al Viola il regime previsto dall'art. 41-bis, non aveva alcuna conseguenza giuridica sul procedimento in esame, in quanto la valutazione del giudice verteva su due situazioni diverse: l'ordinanza del 2006 doveva determinare se il ricorrente avesse la capacità di mantenere o meno, dal carcere, dei contatti con l'organizzazione mafiosa, mentre, nel procedimento in corso, si doveva verificare l'esistenza di elementi suscettibili di provare con certezza che il ricorrente non avesse più legami con l'organizzazione criminale.Il Tribunale riteneva, da un lato che non si fosse raggiunta la prova positiva della rottura di questi legami, dall'altro che l'associazione criminale era ancora attiva e che il Viola ne era il capo riconosciuto, né aveva compiuto una valutazione critica del suo passato criminale.

Una seconda istanza di permesso premio veniva respinta dal Magistrato di Sorveglianza de L'Aquila il 4 giugno 2015 e successivamente, in sede di ricorso, dal Tribunale di Sorveglianza il 13 ottobre 2015, sempre sulla base della mancata collaborazione.

Nel marzo 2015, il Viola presentava al Tribunale di Sorveglianza de L'Aquila una richiesta di liberazione anticipata nella quale faceva riferimento alle relazioni emesse nei suoi confronti nel periodo di detenzione, tutte positive, e all'assenza di legami con la criminalità organizzata. Chiedeva altresì di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis ord. pen., in relazione all'art. 27 , terzo comma, della Costituzione e all'art. 117, primo comma, in combinato disposto con l'art. 3 della Convenzione. Il Tribunale, con ordinanza del 26 maggio 2015, non concedeva la liberazione condizionale in quanto il ricorrente, condannato per delitti previsti dall'art. 4-bis, non aveva collaborato con l'autorità giudiziaria e la collaborazione non appariva né impossibile né inesigibile. La questione di legittimità costituzionale veniva anch'essa rigettata, in quanto la disposizione contestata era compatibile con l'art. 27 della Costituzione. Principio che veniva ribadito dalla Corte di Cassazione che, pronunciandosi sul ricorso, lo rigettava, con sentenza del 22 marzo 2016, in quanto il subordinare la concessione della liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia non contrastava con la funzione rieducativa della pena, poiché la scelta di collaborare con la giustizia era lasciata alla libera valutazione del condannato, senza alcuna forma di costrizione.

Il ricorso alla Cedu. La sentenza

L'impenetrabile muro della giurisprudenza italiana, non lasciava spazio alla possibilità di ottenere il più volte invocato e sperato risultato. Il Viola, dunque, si rivolgeva alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

La Corte riteneva il ricorso ammissibile, in quanto non solo l'interessato aveva correttamente adito la magistratura di sorveglianza, cioè la giurisdizione competente per decidere sulla liberazione condizionale, ma l'atto proponeva importanti questioni in fatto e in diritto che richiedevano un esame di merito.

Esclusa la possibilità di qualificare l'eventuale collaborazione “impossibile” o “inesigibile”, in quanto la condanna include la circostanza aggravante del ruolo di capo all'interno dell'associazione criminale, la Corte evidenziava che il suo giudizio si sarebbe concentrato sulla sola opzione disponibile in capo al ricorrente: collaborare all'interno delle attività investigative e inquirenti condotte dalle autorità giudiziarie, al fine di avere una possibilità di domandare e ottenere la liberazione.

Su tale specifico punto, la Corte precisava che se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta di collaborare o meno con la giustizia, tale scelta non consente di stabilire un'equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato. Non vi è certezza che vi sia libertà di scelta in quanto la ragione del rifiuto potrebbe essere quella di non mettere in pericolo la propria vita o quella dei familiari. Inoltre la stessa collaborazione potrebbe non coincidere con una dissociazione dal passato criminale, ma derivare dall'esclusivo interesse di ottenere i vantaggi previsti dalla legge. Ancora, non si può escludere che l'allontanamento dall'ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia.

In merito a tale ultima circostanza, la Corte sottolineava l'importanza della valutazione dell'evoluzione della personalità del ricorrente che non resta congelata al momento del reato commesso ma può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità.

Nel caso di specie, l'intervenuta revoca del regime di detenzione speciale e l'aver accumulato circa cinque anni di liberazione anticipata per la partecipazione alle attività proposte dall'amministrazione penitenziaria – che non potranno essere detratti alla pena a causa dell'assenza della collaborazione - sono elementi che non vanno ignorati. Il ricorrente, altrimenti, non si potrà mai riscattare, in quanto qualsiasi sua azione positiva è priva di valore e la sua punizione rimane immutabile e insuscettibile di controllo.

La Corte evidenziava che l'impossibilità di dimostrare che non vi è più alcun motivo legittimo a giustificare il suo mantenimento in detenzione è contrario all'articolo 3 della Convenzione, in quanto l'equivalenza tra l'assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale è riferita al momento in cui i delitti sono stati commessi, non tenendo conto del percorso di reinserimento e dei progressi compiuti dopo la condanna.

La presunzione assoluta impedisce al Giudice di esaminare la domanda di liberazione anticipata e di valutare se, nel corso dell'esecuzione della pena, il ricorrente ha effettuato un percorso individuale che lo ha condotto verso la risocializzazione.

Nelle sue conclusioni, la Corte rimarcava che la dignità umana, situata al centro del sistema creato dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà, senza al tempo stesso favorire il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno la libertà. La pena perpetua alla quale è soggetto il ricorrente, in virtù dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario – il c.d. “ergastolo ostativo” – limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell'interessato e la possibilità di riesame della pena e non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell'art. 3 della Convenzione.

Infine la Corte imponeva allo Stato Italiano di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell'ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena. La riforma dovrà garantire la possibilità per il condannato di conoscere le azioni da compiere perché la sua liberazione sia possibile. Lo Stato potrà pretendere anche la dimostrazione della dissociazione dall'organizzazione criminale, ma tale circostanza sarà dimostrata anche con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia e dall'automatismo legislativo attualmente in vigore.

Aspettative

La sentenza evidenziava anche che presso la Corte sono pendenti numerosi ricorsi aventi la medesima problematica e che il giudizio emesso potrebbe dar luogo alla presentazione di numerosi altri ricorsi.

Il provvedimento, dunque, potrebbe intendersi quale “pilota”, cioè non solo di accertamento dell'inadempimento dello Stato la cui legislazione è causa di una violazione sistemica e continuativa della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, ma anche d'individuazione del rimedio per rimuovere le problematiche evidenziate dalla Corte, al fine di ridurre il carico giudiziario di quest'ultima.

Ma in Italia - già condannata con la nota sentenza “pilota” Torreggiani dell'8 gennaio 2013, per i trattamenti inumani e degradanti a cui erano sottoposte le persone detenute – il “pilota” è destinato a perdersi nella nebbia della politica.

In tema di detenzione, infatti, l'ordinamento penitenziario del 1975 costituisce un percorso già tracciato dal quale sarebbe bastato eliminare le strade buie e senza uscita create successivamente con articoli “bis”, “ter”, ecc. che, dovute all'emergenza del momento, sono poi divenute parte integrante di un sistema in contrasto non solo con le ragioni che indussero il Legislatore dell'epoca ad emanare il nuovo Ordinamento, ma soprattutto con la Costituzione e con i Trattati Internazionali sottoscritti dal nostro Paese. Si è voluto, invece, seguire una strada piena d'insidie, lunga e tortuosa – anni di lavoro tra Stati Generali e Commissioni Ministeriali – che ha portato ad una meta insignificante, dove il paesaggio non è diverso da quello di partenza e, per certi versi, se si guarda l'orizzonte, è certamente peggiore.

Immaginare che la sentenza del caso Viola c. Italia possa costituire il doveroso ripensamento del Legislatore italiano in merito al c.d. “ergastolo ostativo”, appare oggi pura fantasia, laddove la politica ha un indirizzo prettamente carcerogeno ed ha esplicitamente disconosciuto le direttive europee in tema di automatismi in favore di un maggior ricorso alle misure alternative.

Certamente il provvedimento costituisce e costituirà un importante precedente giurisprudenziale per i Magistrati che ne vorranno cogliere le profonde ragioni giuridiche, sociali e umanitarie, accettando il rischio del dissenso politico e, purtroppo, in parte popolare.

Di “ostativo”, in Italia, non vi è oggi solo l'ergastolo. S'impedisce, di fatto, una crescita culturale propedeutica all'insegnamento di valori che sono stati alla base della nostra civiltà e che si stanno sbriciolando e disperdendo. Sicché i trattamenti inumani e degradanti sono all'ordine del giorno anche per le nostre coscienze di uomini “liberi”.

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