Lottizzazione abusiva. La Corte Edu sulla natura della confisca del T.U. edilizia

08 Ottobre 2018

La sentenza in commento, resa all'esito di un'estenuante camera di consiglio protrattasi dal 2 settembre 2015 al 28 giugno 2018, si pone in linea di sostanziale continuità con i principi già espressi nei più volte citati casi Sud Fondi S.R.L. e Varvara.
Massima

La confisca da lottizzazione abusiva prevista dall'art. 44 d.P.R. 380/2001, T.U. edilizia ha natura sostanzialmente penale; l'applicazione della misura ablativa, pertanto, non può prescindere dall'accertamento di un nesso soggettivo – colpa o dolo – tra condotta contestata e destinatario della sanzione.

Tale accertamento, tuttavia, può essere legittimamente effettuato anche in una sentenza di proscioglimento, purché al soggetto siano garantiti tutti i diritti derivanti dall'art. 7 e dall'art. 6 Cedu.

Il caso

La sentenza in commento, nella scia dei precedenti Sud Fondi S.R.L. c. Italia e Varvara c. Italia, rappresenta l'approdo della giurisprudenza EDU in tema di confisca da lottizzazione abusiva.

La Corte, ai sensi dell'art. 42 § 5 del regolamento di procedura, ha riunito tre ricorsi presentati da diversi soggetti tra il 2006 ed il 2011, tutti afferenti la tematica in oggetto ma con alcuni tratti distintivi in punto di ricostruzione fattuale.

In estrema sintesi, i fatti. La prima ricorrente – ric. 1828/06 – in ordine cronologico, fu G.I.E.M. S.R.L., proprietaria di un terreno a Bari in località Punta Perotti prima che questa venisse lottizzata a vantaggio della Sud Fondi S.R.L.: accertata l'abusività della citata lottizzazione, la Corte di Cassazione aveva disposto la confisca di tutti i terreni della zona, con pregiudizio dei diritti della G.I.E.M., rimasta estranea alla vicenda processuale e tuttavia spossessata del proprio terreno. Ciononostante, le Corti interne non avevano ravvisato alcuna violazione da parte dello Stato, ritenendo legittima l'estensione de facto della sanzione alla ricorrente e, comunque, la prevalenza dell'interesse pubblico (segnatamente, la salvaguardia del territorio) su quello privato.

Diversa la posizione – ric. n. 34163/07 - di Hotel Promotion Bureau S.R.L. e R.I.T.A. Sarda S.R.L.: concesso dalle autorità locali il permesso di edificare in Golfo Aranci (Sassari) a scopo turistico-alberghiero, le licenze ottenute dalle ricorrenti vennero dichiarate illegittime e comunque inefficaci in quanto incompatibili con la legge regionale. Pertanto, il complesso edilizio veniva confiscato e trasferito al Comune; il tutto nonostante il proscioglimento dei legali rappresentanti delle società.

Da ultimo, ricorsero alla Corte di Strasburgo – ric. 19029/11 - la Falgest S.R.L. e il Sig. F. G., comproprietari di un fondo situato tra Testa Di Cane e Fiumarella (Reggio Calabria). Anche nel loro caso, pur essendovi proscioglimento per intervenuta prescrizione dall'accusa di lottizzazione abusiva relativa alla destinazione d'uso degli immobili, i beni vennero confiscati a seguito di pronuncia della Cassazione.

La questione

Ciascuno dei ricorrenti ha sostenuto, sotto diverse prospettive, l'incompatibilità della confisca prevista dall'art. 44, comma 2,d.P.R.380/2001T.U. edilizia – con le disposizioni della Convenzione europea.

Le soluzioni giuridiche

Le eccezioni preliminari del Governo Italiano e la valutazione della Corte

G.I.E.M. S.R.L. Il Governo evidenzia che, in pendenza del procedimento dinanzi alla Camera, la società ricorrente aveva incardinato – senza informare la Corte - un giudizio dinanzi al Tribunale Civile di Bari, finalizzato ad ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta tenuta dal Comune di Bari nella vicenda de qua;

Nella prospettazione governativa, stante la coincidenza tra l'oggetto di tale giudizio e quello del ricorso pendente a Strasburgo, il silenzio serbato dalla ricorrente su tale circostanza renderebbe il ricorso abusivo ai sensi dell'art. 35 § 3 Cedu.

La società ricorrente, pur ammettendo di aver effettivamente adito i tribunali interni nel senso descritto dal Governo, contesta la tesi secondo cui il procedimento civile interno pendente e quello dinanzi alla Corte avrebbero il medesimo oggetto.

La Corte, dal canto suo, rileva che il Tribunale di Bari è stato adito al fine di riparare i danni conseguenti alla condotta serbata dal Comune di Bari, che aveva indotto in errore la società ricorrente in ordine alla edificabilità dei terreni in contrasto con la rilevante legislazione urbanistica; il ricorso n. 1828/06, invece, ha ad oggetto l'accertamento della violazione degli artt. 7 e 1 prot. 1 in ragione di una confisca priva di base legale.

Per tali ragioni, non essendovi prova dell'intento fraudolento della ricorrente, la Corte non considera il ricorso abusivo.

Secondo il Governo, stante la perdurante pendenza del giudizio interno, il ricorso sarebbe comunque prematuro ai sensi dell'art. 35 § 1.

La Corte, rilevato ancora una volta che l'oggetto del giudizio interno diverge da quello sottoposto al proprio vaglio, respinge anche tale eccezione.

Il Governo, da ultimo, evidenzia che il terreno oggetto di confisca è già stato restituito alla ricorrente in forza del disposto di cui all'art. 4-ter della legge 102/2009 – conversione del d.l. 78/2009.

La Corte, sul punto, si limita ad evidenziare che il procedimento in questione venne attivato dal Comune di Bari nell'ottobre 2012 e che, in ogni caso, i Tribunali nazionali non hanno accertato alcuna violazione dei diritti dell'interessata nell'ambito di tale giudizio.

Falgest S.R.L. Con riferimento all'eccezione sollevata dal Governo, anche in questo caso, in relazione alla l. 102/2009, la Corte rinvia espressamente alla motivazione offerta sul punto a proposito del ricorso G.I.E.M.

Il Governo, inoltre, ha sostenuto che la società ricorrente non avesse correttamente esaurito le vie di ricorso interne non avendo impugnato la sentenza ai sensi dell'art. 579, comma 3, c.p.p.

La Corte, sul punto, si limita ad osservare che la disposizione in questione consente all'imputato prosciolto di impugnare la sentenza che abbia disposto la confisca come misura di sicurezza; nel caso di specie, invece, è pacifico che la confisca di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 non rientri nel novero delle misure di sicurezza.

Ancora, il Governo contesta, sempre in punto di previo esaurimento, che la società avrebbe potuto e dovuto proporre, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 665 e 676 c.p.p., incidente di esecuzione.

In relazione a tale argomento, la Corte osserva che l'incidente di esecuzione non era da ritenersi efficace ed effettivo prima del deposito della sentenza sul caso Sud Fondi S.R.L. e altri c. Italia, avvenuto il 20 gennaio 2009; la società ricorrente, in effetti, aveva intrapreso tale via di ricorso in data 31 maggio 2001 ma, la Corte di xassazione, respinse definitamente le istanze restitutorie nel giugno 2005.

Da ultimo, ancora eccependo il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, il Governo sostiene che i ricorrenti avrebbero dovuto, illo tempore, azionare un giudizio civile nei confronti dello Stato italiano al fine di ottenere un risarcimento per la confisca illegittimamente disposta a loro carico.

La Corte osserva, laconicamente, che all'epoca dei fatti la confisca da lottizzazione abusiva era ritenute perfettamente lecita e legittima e, pertanto, non vede in che modo la strada indicata dal Governo avrebbe potuto essere considerata effettiva.

Hotel Promotion Bureau S.R.L. e R.I.TA. Sarda S.R.L. Le eccezioni sollevate dal Governo rispetto a questo caso sono le medesime, mutatis mutandis, già vagliate dalla Corte in relazione alla posizione delle altre ricorrenti; per tale ragione, la Corte rinvia alla motivazione già resa in proposito.

Sulla violazione dell'art. 7 Cedu

Nessuno dei ricorrenti, come descritto innanzi, è stato formalmente condannato dall'autorità giudiziaria penale italiana per il reato di lottizzazione abusiva.

Su tale presupposto, hanno paventato la violazione dell'art. 7 Cedu.

Il primo punto da valutare, ovviamente, consiste nella compatibilità ratione materiae della doglianza con le disposizioni della Convenzione.

Nel far ciò, la Corte parte dall'ineludibile presupposto logico secondo cui il concetto di pena di cui all'art. 7 Cedu costituisce nozione autonoma; ciò implica, di conseguenza, che la qualificazione giuridica formale fornita a livello domestico non vincola il Giudice di Strasburgo nella propria valutazione, la quale, invece, deve essere condotta sulla base di criteri di natura sostanziale (Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 27, serie A n. 307-A, e Jamil c. Francia, 8 giugno 1995, § 30, serie A n. 317 B).

In primo luogo, pertanto, è necessario valutare se l'applicazione della confisca consegua a un accertamento di responsabilità penale.

Tale considerazione, tuttavia, non è affatto decisiva al fine di stabilire se una determinata misura rientri nella nozione – autonoma – di pena; in effetti, far dipendere la natura penale di una misura dal fatto che l'individuo abbia commesso un atto qualificato come reato dal diritto interno e sia stato condannato striderebbe, già da un punto di vista logico prima ancora che giuridico, con la stessa natura autonoma del concetto di pena in ottica convenzionale.

Ciò premesso, il fatto che nell'ordinamento italiano l'applicazione della confisca non sia formalmente subordinata ad una sentenza di condanna dell'A.G. penale non esclude, di per sé, l'applicabilità dell'art. 7 alla confisca di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001.

Come per il primo criterio, anche la qualificazione assegnata alla misura in questione dal diritto interno non è decisiva; se così fosse – questa la ratio fondante l'operatività delle c.d. nozioni autonome – ciascuno Stato sarebbe libero di evitare l'applicabilità di determinate norme convenzionali sol cambiando, anche arbitrariamente, le qualificazioni formali degli istituti vigenti.

Peraltro, la Corte osserva che la rubrica dell'art. 44 d.P.R. 380/2001 recita Sanzioni penali; non convince affatto, del resto, l'argomento portato dal Governo secondo cui tale dizione sarebbe frutto di «un errore dei redattori del testo legislativo al momento della codifica delle norme pertinenti in materia».

In relazione, invece, alla natura ed allo scopo della confisca in analisi, i Giudici di Strasburgo osservano che le statuizioni e le valutazioni operate in Sud Fondi SRL ed altri c. Italia e Varvara c. Italia sono state sostanzialmente recepite dalla giurisprudenza italiana.

Pur mantenendo fermo l'assunto secondo cui si tratterebbe, pur sempre, di una sanzione di carattere amministrativo, la Corte di cassazione ha esplicitamente confermato il carattere afflittivo della confisca:

«Essa ha invece natura di sanzione amministrativa al pari del provvedimento ablatorio ex art. 30, comma 8; però, proprio perché pronunciata in un contesto "penalistico", ha anche carattere afflittivo in riferimento all'art. 7 Cedu (per questo profilo v. infra), ma senza che ciò la trasformi in una misura di sicurezza»; in questi termini, Cass. pen., Sez. III, 6 ottobre 2010, n. 5857.

In precedenza, del resto, la medesima sezione della S.C. aveva già riconosciuto finalità deterrente alla misura in commento:

«Il fatto che, senza discrezionalità alcuna, la proprietà dei terreni e dei beni lottizzati venga trasferita dai privati al patrimonio del comune assomma in sé, a ben vedere, numerose conseguenze di grande interesse. La prima è quella di prospettare ai privati un rischio elevatissimo: la perdita della proprietà sui beni oggetto di lottizzazione, e quindi dovrebbe costituire un forte elemento di deterrenza» – così Cass. pen., Sez. III, 12 aprile 2007, n. 21125.

Altra conferma della finalità punitiva dell'ablazione prevista art. 44 del T.U. edilizia si rinviene nelle argomentazioni offerte dal Governo italiano in relazione alla paventata violazione di cui all'art. 1 prot. 1 Cedu.

Lo Stato convenuto, obbligato ad indicare lo scopo legittimo perseguito dall'ingerenza nel diritto di proprietà dei ricorrenti, ha difatti affermato che la confisca in questione è compatibile con la tutela approntata dall'art. 1 prot. 1 Cedu poiché persegue la finalità di «punire i responsabili delle trasformazioni illecite dei terreni»; trattasi, evidentemente, di un'involontaria ma chiarissima conferma della natura penale della misura al vaglio della Corte.

Inoltre neppure potrebbe essere sostenuta la finalità preventiva o ripristinatoria della confisca, atteso che la sua imposizione non richiede la prova di un danno effettivo o di un rischio concreto per l'ambiente, potendo essere applicata anche in totale assenza di qualsiasi concreta attività volta a modificare il territorio o il paesaggio.

In riferimento, poi, alla gravità della sanzione irrogata, la Corte ne sottolinea la particolare onerosità e pervasività.

Da ultimo, la Grande Camera si sofferma sulle procedure di adozione e di esecuzione della confisca rilevando, dapprima, che la misura in questione è disposta dall'A.G. penale italiana.

Non convince, del resto, l'argomento secondo cui, nell'applicazione della misura ablativa, il Tribunale Penale agisca, nella sostanza, in vece della pubblica amministrazione.

Tale impostazione, si osserva, è sconfessata dalla circostanza per cui, una volta passata in giudicato la sentenza di condanna per lottizzazione abusiva, la confisca non può essere revocata nemmeno in caso di sanatoria ex post operata proprio dalla pubblica amministrazione.

La frizione tra poteri e determinazioni della P.A. e decisum penale, del resto, è ancora più evidente nel caso della lottizzazione abusiva materiale e sostanziale: l'autorizzazione di una lottizzazione in contrasto con le norme urbanistiche, difatti, non impedisce affatto al Giudice penale di confiscare il terreno in questione.

L'autonomia ermeneutica e decisionale dell'A.G. penale, che ben può andare apertamente in contrasto con le determinazioni assunte in sede amministrativa dalla P.A., dimostra dunque l'infondatezza della tesi – sostenuta dal Governo italiano – secondo cui il giudice penale dispone la confisca de qua “in sostituzione” dell'autorità amministrativa.

Ciascuna delle suesposte considerazioni milita decisamente a favore della natura penale della confisca prevista dall'art. 44 T.U. edilizia; ciò induce la Corte a concludere per l'applicabilità dell'art. 7 Cedu nel caso concreto.

Ciò premesso, occorre valutare se nelle peculiari fattispecie descritte dalle società ricorrenti la disposizione convenzionale in questione sia stata rispettata o meno.

Per far ciò, la Corte ritiene necessario esaminare la questione sotto tre diverse prospettive: il necessario – o meno – accertamento circa la sussistenza di un elemento soggettivo in capo al destinatario della misura ablativa; la possibilità di applicare la misura in assenza di una formale sentenza di condanna; la possibilità di applicare detta misura in danno di soggetti che non hanno preso parte al processo penale.

Rispetto alla prima questione, la Grande Camera dichiara apertamente di aderire all'indirizzo ermeneutico inaugurato con la sentenza Sud Fondi S.R.L. ed altri c. Italia secondo cui, pur in assenza di esplicito riferimento testuale, l'art. 7 Cedu impone, quale elemento indefettibile per l'applicazione di una sanzione penale, l'accertamento di un “legame di natura intellettuale” tra soggetto destinatario della misura e condotta.

In altri termini, afferma la Corte, la nozione di guilty indica che l'applicazione “legale” di una pena non può prescindere dall'accertamento di un elemento di responsabilità personale – sotto forma di dolo o colpa – in capo all'agente autore del reato.

Ciò non significa, d'altro canto, che la Convenzione vieti in toto la previsione normativa di forme di responsabilità oggettiva; l'art. 7, anche letto in combinato disposto con l'art. 6 § 2 Cedu, non impedisce allo Stato, in effetti, di ritenere punibile un fatto materiale od oggettivo considerato in quanto tale.

Il rispetto della presunzione d'innocenza imposto dal secondo paragrafo dell'art. 6, tuttavia, implica che le presunzioni di fatto e di diritto in base alle quali normalmente opera la responsabilità oggettiva siano superabili, in concreto, dal soggetto che subisce la sanzione penale.

L'art. 7 e l'art. 6§2 rivelano, dunque, l'esistenza di un terreno comune di tutela: il diritto di ciascun individuo a non vedersi irrogata una pena senza che la sua responsabilità personale, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, sia stata debitamente accertata.

Ciò induce a ritenere la giurisprudenza formatasi sub art. 6 § 2 applicabile, mutatis mutandis, all'art. 7 Cedu.

Sulla base di tale ragionamento, dunque, è possibile affermare che l'art. 7 imponeva, nei casi sottoposti al vaglio della Corte, che l'applicazione della confisca fosse subordinata all'accertamento di un elemento soggettivo – dolo o colpa – in capo ai destinatari della misura.

Tale conclusione, in effetti, deve essere letta alla luce delle circostanze del caso concreto; la prima ad essere analizzata dalla Corte è l'assenza – per tutti i ricorrenti - di formale condanna per il reato di lottizzazione abusiva.

Nel caso di G.I.E.M. S.R.L., né la società stessa, né i suoi rappresentanti sono mai stati sottoposti a procedimento penale; le altre società ricorrenti, a differenza dei loro rappresentanti, non sono mai state parti in causa nei procedimenti in questione; infine, il procedimento penale a carico dell'unico ricorrente persona fisica si è concluso con un proscioglimento per intervenuta prescrizione.

Richiamati i principi espressi nel caso Varvara c. Italia, la Corte esordisce sostenendo che, in effetti, tale precedente non deve essere letto nel senso di collegare indissolubilmente l'applicabilità della confisca in esame ad una formale sentenza di condanna ai sensi del diritto interno.

La sostanza dell'art. 7 Cedu, in altri termini, non impone che la sanzione penale debba essere sempre e comunque derivare da un procedimento penale in senso stretto; non esiste, dunque, un obbligo di “penalizzazione” di ogni procedimento finalizzato all'applicazione di una pena.

Esclusa la necessità di anteporre un processo penale vero e proprio alla disposizione della misura ablativa, è tuttavia doveroso verificare se l'imposizione delle sanzioni in parola richiedesse almeno una formale dichiarazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti.

Sul punto, il Governo evidenzia che, eccezion fatta per la G.I.E.M. S.R.L., le società ricorrenti e i loro rappresentanti, tra cui il sig. Gironda, siano stati sostanzialmente riconosciuti colpevoli di violazione delle norme urbanistiche.

Atteso che nessuna delle società ricorrenti, come descritto in premessa, è stata parte dei procedimenti penali esitati con confisca, la questione di stabilire se vi fosse o meno formale condanna ai sensi dell'art. 7 si pone unicamente in relazione alla posizione del Sig. Gironda.

Ebbene, in quest'ottica, occorre valutare se, nonostante l'intervenuta prescrizione, nella sentenza emessa all'esito del procedimento che vedeva imputato quest'ultimo ricorrente sia possibile rinvenire elementi indicativi, nella sostanza, di un accertamento di responsabilità penale.

Richiamando costante giurisprudenza, la Corte sottolinea l'esigenza di utilizzare un approccio sostanziale quando si tratta di valutare il contenuto di un provvedimento emesso da un'autorità giudiziaria nazionale, anche prescindendo dalla formula utilizzata in dispositivo; da questo punto di vista, è la motivazione ad esprimere la vera essenza dell'accertamento effettuato in sede penale.

Ciò premesso, la Corte ritiene che, qualora i tribunali interni abbiano constatato la sussistenza di tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva, il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione non impedisce di considerare la decisione come una condanna in senso sostanziale ai sensi dell'art. 7 Cedu.

Ne consegue che, nel caso del Sig. G., la disposizione convenzionale invocata non può ritenersi violata.

Con riferimento, invece, alle società ricorrenti, la questione centrale ruota attorno alla possibilità di applicare la confisca in parola a soggetti che non abbiano assunto la qualità di parte nei procedimenti penali per il reato di lottizzazione abusiva.

La valutazione della Corte sul punto parte da due principi pacificamente vigenti nell'ordinamento italiano; l'affermazione dell'autonoma personalità giuridica delle società di capitali e l'assunto secondo cui societas delinquere non potest.

Tali principi, tuttavia, vanno confrontati con quanto già affermato nel caso Varvara c. Italia: «una conseguenza di fondamentale importanza deriva dal principio di legalità nel diritto penale: il divieto di punire una persona se il reato è stato commesso da un'altra».

L'affermazione appena riportata, pur resa in relazione all'art. 6 § 2, costituisce tuttavia anche un elemento fondante del principio di legalità di cui all'art. 7 Cedu: infatti, se è vero che ogni persona deve poter sempre stabilire cosa è permesso e cosa è vietato attraverso leggi precise e chiare, non è conforme a Convenzione un sistema che punisca un soggetto per fatti commessi da terzi.

Nel caso di specie, le società G.I.E.M. S.R.L., Hotel Promotion Bureau S.R.L., R.I.T.A. Sarda S.R.L. e Falgest S.R.L., non sono state parti in alcun procedimento.

Ne consegue che, essendo stata loro applicata una confisca di natura sostanzialmente penale per condotte di terzi, c'è stata violazione dell'art. 7 Cedu.

Sulla violazione dell'art. 1 prot. 1 Cedu

Tutti i ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 1 prot. 1 Cedu lamentando che, stante l'illegalità convenzionale della “pena” loro comminata, l'ingerenza nel diritto di proprietà fosse priva di base legale.

In punto di applicabilità della disposizione invocata, la Corte non vede ragioni per discostarsi da quanto già affermato in Sud Fondi S.R.L. c. Italia: il caso di specie rientra nel perimetro applicativo del § 2 dell'art. 1 prot. 1 Cedu, non essendo dirimente – con riferimento a tale doglianza – stabilire se la misura in questione rientri nella categoria di pena o nel novero delle misure finalizzate a “regolamentare l'uso dei beni”.

Nel merito, la Corte disattende parzialmente la prospettazione dei ricorrenti, sostenendo come, al fine di valutare la paventata violazione del diritto di proprietà, sia piuttosto necessario valutare lo scopo legittimo perseguito dallo Stato italiano e la proporzionalità delle misure adottate a tal fine.

Il Governo italiano ha da sempre sostenuto che la confisca da lottizzazione abusiva persegua lo scopo di tutelare l'ambiente e il paesaggio; sul punto, tuttavia, la Corte non evita di sottolineare come, rilevato lo stato di totale abbandono in cui versano tutt'ora i beni confiscati, non pochi dubbi sorgano rispetto all'effettività della tutela approntata in tal senso dallo Stato convenuto.

Ciò premesso, la Corte ritiene di dover valutare la confisca in parola in termini di proporzionalità dell'ingerenza, richiamando a tal fine una serie di criteri enucleabili dalla propria giurisprudenza: la possibilità di adottare misure meno restrittive, la natura totalizzante della misura, il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione.

Da ultimo, la Grande Camera pone l'accento sugli obblighi procedurali derivanti – sia pur implicitamente – dall'art. 1 prot. 1, in forza dei quali il procedimento giudiziario che si concluda con una misura ablativa deve garantire all'interessato un'adeguata possibilità di esporre le proprie ragioni all'A.G. nel rispetto dei principi del contraddittorio e della parità delle armi.

Ebbene, l'applicazione automatica ed obbligatoria della confisca di cui all'art. 44 T.U. edilizia non consente al giudice, in tutta evidenza, di valutare quali siano gli strumenti più adeguati alle circostanze del caso concreto né, d'altronde, offre possibilità alcuna di bilanciare lo scopo legittimo indicato con i diritti dei destinatari della sanzione.

Inoltre, non essendo state parte nei procedimenti penali celebratisi a livello nazionale, le società ricorrenti non hanno beneficiato in alcun modo della tutela procedurale pure approntata dalla disposizione convenzionale.

La conseguenza, ovvia, consiste nella constatazione della violazione dell'art. 1 prot. 1 Cedu nei confronti di tutti i ricorrenti.

Sulla violazione degli artt. 6 § 1 e 13 della Convenzione

La Corte ritiene che la valutazione di tali doglianze sia assorbita dall'analisi della violazione accertata sub art. 7 Cedu.

Sulla violazione dell'art. 6 § 2 della Convenzione

Il solo sig. G. ha invocato, rispetto alle specifiche circostanze del proprio caso, la violazione della presunzione d'innocenza garantita dal secondo paragrafo dell'art. 6.

Come esposto in apertura, il Sig. Gironda era stato assolto nel merito in primo ed in secondo grado; la Corte di cassazione, tuttavia, rilevata la sussistenza degli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi del reato di lottizzazione abusiva, aveva dichiarato il reato estinto per intervenuta prescrizione applicando la misura ablativa a carico dell'imputato.

Nella giurisprudenza della Corte può ritenersi ormai pacifico che tale modo di procedere si pone in contrasto con la garanzia approntata dall'art. 6 § 2 giacché, si afferma, in difetto di tutela finalizzata a far rispettare una decisione di assoluzione o di archiviazione in ogni grado successivo di giudizio, le garanzie di un processo equo enunciate dalla norma in questione rischierebbero di divenire teoriche e illusorie.

In un caso del tutto analogo – Didu c. Romania, n. 3418/02, 14 aprile 2009 -, ad esempio, la Corte ha concluso che vi era stata violazione dell'articolo 6 § 2 in ragione della decisione del giudice di ultimo grado di annullare le decisioni di proscioglimento emesse dai giudici di grado inferiore, e di constatare la colpevolezza dell'interessato pur chiudendo il procedimento per prescrizione della responsabilità penale, dal momento che i diritti della difesa non erano stati rispettati nel procedimento dinanzi a tale giurisdizione, anche se quest'ultima aveva per prima dichiarato il ricorrente colpevole.

Rebus sic stantibus, nel caso dell'unico ricorrente persona fisica, la Corte conclude anche per la violazione dell'art. 6 § 2.

Osservazioni

La sentenza in commento, resa all'esito di un'estenuante camera di consiglio protrattasi dal 2 settembre 2015 al 28 giugno 2018, si pone in linea di sostanziale continuità con i principi già espressi nei più volte citati casi Sud Fondi S.R.L. e Varvara.

In effetti, la novità di maggiore rilievo rispetto ai leading cases appena citati, è consistita nell'approvazione – nemmeno troppo tacita – dell'orientamento giurisprudenziale assunto dalla Corte di cassazione in seguito alla sentenza Sud Fondi: «per disporre la confisca prevista dal d.P.R. 380/2001, art. 44, comma 2, il soggetto proprietario della res non deve essere necessariamente condannato, in quanto detta sanzione ben può essere disposta allorquando sia comunque accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva in tutti i suoi elementi (oggettivo e soggettivo) anche se per una causa diversa, qual è, ad esempio, l'intervenuto decorso della prescrizione, non si pervenga alla condanna del suo autore e all'inflizione della pena» – così Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2009,n. 21188 del.

La sentenza Varvara pareva lasciar intendere che per potersi procedere all'applicazione della misura ablativa prevista dall'art. 44 d.P.R. 380/2001 fosse necessaria una condanna “in senso formale”, con ciò escludendosi la possibilità di disporre la confisca in presenza di cause estintive del reato.

La Grande Camera, sul punto, vira – coerentemente con il proprio tipico modo di argomentare - verso un approccio sostanzialistico ai §§ 259 - 260 della sentenza qui annotata: «La Corte rammenta che, dalla sua giurisprudenza, risulta che può essere necessario impegnarsi, al di là delle apparenze e del vocabolario utilizzato, ad individuare la realtà di una situazione (Ezeh e Connors c. Regno Unito [GC], n. 39665/98 e n. 40086/98, § 123, Cedu 2003-X). Essa può pertanto andare oltre al dispositivo di una decisione interna e tener conto della sua sostanza, in quanto la motivazione costituisce parte integrante della decisione (si veda, mutatis mutandis, Allen c. Regno Unito [GC], n. 25424/09, § 127, 12 luglio 2013).

260. Secondo la Corte, si deve tener conto, da una parte, dell'importanza che ha, in una società democratica, il fatto di garantire lo Stato di diritto e la fiducia nella giustizia delle persone sottoposte a giudizio, e, dall'altra, dell'oggetto e dello scopo del regime applicato dai tribunali italiani. A questo proposito, sembra che l'obiettivo di questo regime sia la lotta contro l'impunità che deriva dal fatto che, per l'effetto combinato di reati complessi e di termini di prescrizione relativamente brevi, gli autori di questi reati sfuggirebbero sistematicamente all'azione penale e, soprattutto, alle conseguenze dei loro misfatti (si veda, mutatis mutandis, El-Masri c. l'ex Repubblica iugoslava di Macedonia [GC], n. 39630/09, § 192, Cedu 2012).”

La Grande Camera, inoltre, sceglie una via decisamente elegante per rispondere, sia pure in via mediata, alle osservazioni mosse da Corte cost. n. 49/2015 ove, come è ben noto, venne affermato che: «È, pertanto, solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. Del resto, tale asserzione non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte Edu sul senso da attribuire ai diritti dell'uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo. Esso infatti si articola per sezioni, ammette l'opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera».

Interrogandosi sulla necessità e opportunità di superare l'impostazione secondo cui solo una condanna formale può legittimare l'applicazione di una sanzione sostanzialmente penale, la Corte - § 252 - rammenta a sé stessa che: «le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e le loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate».

Sul versante critico, e con specifico riferimento alla posizione dell'unico ricorrente persona fisica nel caso di specie, parrebbe emergere una dicotomia tra la non violazione dell'art. 7 e l'accertata violazione dell'art. 6 § 2.

In effetti, è stata la Corte stessa a collegare a livello generale in maniera forte ed esplicita le due disposizioni convenzionali: «Tenuto conto del fatto che gli articoli 7 e 6 § 2 hanno in comune, nei loro rispettivi ambiti, la tutela del diritto di una persona di non essere sottoposta ad una pena senza che la sua responsabilità personale, compreso un nesso di natura intellettuale con il reato, sia stata debitamente accertata, la Corte ritiene che la giurisprudenza di cui sopra si applichi mutatis mutandis sul terreno dell'articolo 7» - così al § 244.

Posta tale premessa, ed entrando nel merito del caso del ricorrente persona fisica, la Corte rileva che quest'ultimo, pur prosciolto per intervenuta prescrizione, era stato ritenuto sostanzialmente colpevole dalla sentenza emessa dalla Corte di cassazione; tale considerazione ha portato a ritenere non violato l'art. 7 Cedu.

Sin qui, nulla quaestio, se non fosse che poi, tornando sul caso del ricorrente reggino ai §§ 314 – 318, la Corte constata la violazione dell'art. 6 § 2 proprio perché, pur in presenza di una causa estintiva del reato, la Corte di cassazione lo ha dichiarato penalmente responsabile delle condotte lui ascritte.

A parere di chi scrive, l'apparente dicotomia risulterebbe superabile soltanto distinguendo, in un certo senso, l'an dal quomodo della tutela approntata dal secondo paragrafo della norma che sancisce il diritto a un giusto processo.

In altri termini, l'art. 6 § 2, letto in combinato disposto con l'art. 7 non vieta che un accertamento sostanziale di responsabilità penale sia effettuato nell'ambito di una sentenza di proscioglimento; il diritto dell'imputato ad essere presunto innocente, tuttavia, impedisce che tale accertamento avvenga per la prima volta con una decisione che, di fatto, chiude il procedimento.

Tale lettura, in effetti, appare l'unica in grado di conciliare l'accertata violazione dell'art. 6 § 2 nel caso di specie con la legittima esigenza degli Stati di lottare «contro l'impunità che deriva dal fatto che, per l'effetto combinato di reati complessi e di termini di prescrizione relativamente brevi, gli autori di questi reati sfuggirebbero sistematicamente all'azione penale e, soprattutto, alle conseguenze dei loro misfatti» § 260.

Volendo offrire un suggerimento – postumo e non richiesto – alla Grande Camera, si potrebbe osservare che, probabilmente, sarebbe stato più agevole inquadrare la doglianza del ricorrente persona fisica sub art. 6 § 2, ancorando il relativo impianto motivazionale ai principi espressi in Dan c. Moldavia, n. 8999/07, sentenza del 5 luglio 2011.

A ben guardare, superata la netta distinzione tra condanna formale e condanna sostanziale, l'accertamento di colpevolezza operato dalla Corte di cassazione in ultima istanza è consistito, fondamentalmente, in un overturning cartolare dell'assoluzione pronunciata in primo grado e confermata in appello.

E ciò, evidentemente, contrasta con l'assunto secondo cui «those who have the responsibility for deciding the guilt or innocence of an accused ought, in principle, to be able to hear witnesses in person and assess their trustworthiness. The assessment of the trustworthiness of a witness is a complex task which usually cannot be achieved by a mere reading of his or her recorded words»- Dan c. Moldavia, §33.

Una soluzione siffatta, allora, avrebbe consentito alla Corte di giungere alle medesime conclusioni senza tuttavia esporsi a critiche di disorganicità in punto di raccordo tra art. 7 e art. 6 § 2.

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