Il gestore del sito non è responsabile per i commenti diffamatori scritti da terzi in caso di tempestiva rimozione

13 Aprile 2017

Il gestore di un blog che rimuove tempestivamente un commento offensivo di terzi anonimi, a seguito della segnalazione della persona offesa, non può essere ritenuto responsabile per il periodo in cui tale pubblicazione è rimasta in rete.
Massima

Il gestore di un blog che rimuove tempestivamente un commento offensivo di terzi anonimi, a seguito della segnalazione della persona offesa, non può essere ritenuto responsabile per il periodo in cui tale pubblicazione è rimasta in rete.

Il caso

Nel caso in commento (ricorso n. 74742/14) la terza sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo è tornata a pronunciarsi sulla vexata quaestio della responsabilità del gestore di un sito internet per i commenti offensivi pubblicati da terzi anonimi. La decisione in questione involge, oltre al tema della responsabilità del blogger, anche l'attuale e delicata problematica dei mezzi di contrasto alle c.d. fake news e alle post-verità.

Prima di soffermarsi sul tema in argomento, giova riassumere brevemente la vicenda che ha dato la stura al recente arrêt dei giudici di Strasburgo.

Il 30 settembre 2011 un soggetto anonimo inseriva, su un blog gestito da una piccola associazione senza scopo di lucro, una frase, a commento di un post in cui si attribuiva al giovane svedese Rolf Pihl l'appartenenza a un partito nazista, in cui si accusava il medesimo soggetto di essere dedito al consumo di droghe (a real hash-junkie).

Poco tempo dopo – il giorno 8 ottobre 2011 – il Pihl chiedeva all'associazione no profit l'eliminazione di entrambi i contenuti, sottolineando come fossero del tutto falsi. L'ente in questione provvedeva tempestivamente alla loro cancellazione, inserendo inoltre sul proprio sito – circostanza di non secondaria importanza – le proprie scuse.

Ciononostante, ad avviso del giovane svedese, il commento era ancora rinvenibile tra i vecchi post del sito e attraverso alcune ricerche effettuate tramite motori di ricerca.

La persona asseritamente diffamata decideva così di citare in giudizio il gestore del sito, chiedendo al tribunale un risarcimento simbolico di una corona.

La domanda in questione veniva respinta in primis dai giudici domestici di primo grado i quali, pur ritenendo le frasi comparse sul sito effettivamente diffamatorie, valorizzavano la circostanza che l'associazione avesse cancellato le frasi offensive in modo repentino. Il giovane svedese presentava successivamente gravame di fronte alla Corte d'appello che, tuttavia, respingeva il gravame, confermando in toto le motivazioni dei giudici di prima istanza. Il Pihl proponeva quindi ricorso innanzi alla suprema Corte svedese (Högsta domstolen), che però confermava il percorso argomentativo delineato dai primi due gradi di giudizio.

Il nostro ricorrente non si dava per vinto e decideva di appellarsi anche al Chancellor of Justice, figura di garanzia presente all'interno dell'ordinamento svedese, il quale tuttavia respingeva l'istanza presentata, osservando come nel caso di specie l'art. 8 della Cedu – che, com'è noto, tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare – fosse stato correttamente bilanciato con il successivo articolo 10 – che si riferisce alla libertà di espressione.

La questione

Esaurite tutte le possibili vie legali interne, il ricorrente decideva di rivolgersi alla Corte dei diritti di Strasburgo lamentandosi, in particolare, del fatto che la legislazione domestica – proprio nel non prevedere una qualche forma di responsabilità in capo al gestore del blog in un caso come il suo – avesse determinato una violazione dell'articolo 8 della Convenzione, ovvero il suo diritto a vedere tutelata la sua vita privata e, in senso lato, la sua reputazione.

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia della terza sezione della Corte Edu, in primis, ricorda la natura poliedrica dell'art. 8 Cedu, disposizione che comprende al suo interno una serie di aspetti relativi all'identità personale che spaziano dal diritto al nome e all'immagine sino al diritto all'integrità fisica. Nell'alveo di tale disposizione va collocato anche il diritto al rispetto della propria reputazione.

Dopo questa premessa assiologica, i giudici di Strasburgo sottolineano che, perché possa dirsi integrata una lesione del diritto all'onore e alla reputazione, occorre che l'offesa arrecata superi una certa soglia di tollerabilità (must attain a certain level of seriousness). Sul punto il giurista nostrano non avrà difficoltà a scorgere alcune analogie con gli insegnamenti dettati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno non patrimoniale (Cass. civ, Sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26972).

La sentenza – entrando così in medias res – osserva come, a differenza di altre recenti vicende analizzate in sede europea (con il pensiero che va agli arresti Delfi AS v. Estonia, ric. 64569/09, e MTE/Index.hu Zrt v. Ungheria, ric. 22947/13), nel caso di specie il soggetto ricorrente non sia il gestore di un sito internet (che lamenta una lesione alla propria libertà di espressione), bensì un privato che ritiene di aver subito un vulnus al proprio onore.

I giudici della Corte Edu evidenziano che i commenti comparsi sul sito della piccola O.N.G. svedese vanno ritenuti obiettivamente diffamatori ma non possono essere qualificati come un caso di hate speech (letteralmente discorso dell'odio) o di incitamento alla violenza (sul punto si rinvia, ex multis, al noto affaire Dieudonné M'Bala M'Bala c. Francia, ric. 25239/13), eventualità che consente – come da tradizionale giurisprudenza convenzionale – una compressione maggiore della libertà di espressione.

Il diritto che viene in giuoco nel caso di specie, come sottolineato in precedenza, è quello tutelato dall'art. 8 Cedu, che occorre però sottoporre ad adeguato bilanciamento (a fair balance) con l'altrettanto rilevante diritto alla libertà di espressione di cui all'art. 10 Cedu.

Ciò premesso, i giudici europei – riprendendo gli insegnamenti della nota sentenza della Grande Chambre della Corte Edu Delfi AS v. Estonia in subiecta materia – precisano che, qualora gli Stati operino un bilanciamento rispettoso dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza convenzionale tra privacy e onore da un lato e libertà espressione dall'altro, la Corte stessa può superare le decisioni dei giudici nazionali solo in presenza di ragioni solide e concrete (sul punto si veda Von Hannover v. Germania, ric. 40660/08).

Orbene, dopo aver messo in luce tali elementi, i giudici europei – riprendendo le loro statuizioni contenute nell'arresto MTE/Index.hu Zrt v. Ungheria del febbraio 2016 – sottolineano una serie di elementi che nella vicenda in argomento devono essere tenuti in considerazione per effettuare tale operazione di bilanciamento.

Nel caso Pihl c. Svezia, gli aspetti che devono essere tenuti in debita considerazione sono: il contesto nel quale sono stati pubblicati i contributi, le misure applicate dal gestore del sito al fine di prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei diritti altrui, la responsabilità degli autori degli scritti come alternativa alla responsabilità dell'intermediario. Una circostanza ulteriore, che viene valorizzata dai giudici, è il fatto che il gestore abbia provveduto alla rimozione dello scritto ritenuto offensivo il giorno dopo la richiesta di rimozione di questo. Viene inoltre evidenziato il fatto che nel blog fosse disponibile un sistema che consentiva agli utenti di segnalare i contributi offensivi e di richiederne l'eliminazione, nonché un avviso da parte del blogger circa l'assenza di un controllo preventivo degli scritti introdotti da terzi.

Sembra, infine, che abbia altresì ricoperto una certa importanza nella soluzione del caso di specie, il fatto che l'operatore interessato fosse una piccola associazione di volontariato, per lo più sconosciuta al grande pubblico (e con un blog, di conseguenza, visitato fondamentalmente da un pubblico di “nicchia”).

Con riferimento alla responsabilità dell'autore del contributo, i giudici rilevano che il ricorrente, pur conoscendo l'indirizzo IP del computer dal quale il commento era stato inserito in rete, non aveva tentato in alcun modo di risalire all'identità di chi aveva scritto e pubblicato le affermazioni offensive. In altri termini, l'anonimato non era assoluto e dalla sentenza sembra emergere una sorta di onere per chi agisce di chiedere il risarcimento in primis all'autore del commento.

Alla luce di tutti questi elementi fattuali, la Corte Edu ha ritenuto – con voto unanime – il ricorso inammissibile, valutando corretto il bilanciamento effettuato dai giudici svedesi tra il diritto al rispetto della vita privata e quello alla libertà di espressione.

Osservazioni

La pronuncia in argomento si segnala per una serie di indicazioni di notevole importanza in materia di responsabilità del blogger per commenti anonimi scritti sul proprio sito.

Nella sentenza Pihl c. Svezia, a differenza dei recenti precedenti Delfi AS c. Estonia e MTE/Index.hu Zrt v. Ungheria, la Corte Edu non ha ritenuto necessaria la presenza, per mandare il blogger esente da responsabilità, di un controllo preventivo di tutti i contenuti immessi sul sito né di un effettivo sistema di notice and take-down (letteralmente notifica e rimozione). La circostanza che si trattasse di una piccola associazione senza scopo di lucro ha senza dubbio giocato una certa rilevanza nella soluzione adottata dai giudici di Strasburgo.

Un ruolo di non poco momento si ritiene abbia svolto altresì il fatto che non si trattasse di un'ipotesi di hate speech, caso che – come sottolineato in precedenza – viene trattato con particolare severità in sede europea.

Appare particolarmente importante il riferimento effettuato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo alla centralità della libertà di espressione e di informazione nelle società moderne. In uno dei passaggi motivazionali conclusivi, in particolare, l'arresto de quo sottolinea – ribadendo un insegnamento già contenuto in MTE/Index.hu Zrt v. Ungheria del febbraio 2016 –che attribuire automaticamente ai portali una responsabilità per i commenti di terzi possa determinare conseguenze negative sulla loro attività e provocare, dunque, quello che viene chiamato un chilling effect (ossia un timore di esercitare un proprio diritto per paura di incorrere in sanzioni legali).

Tale orientamento pare in linea con la dichiarazione congiunta firmata il 3 marzo scorso a Vienna dal relatore speciale delle nazioni unite per la libertà di opinione e espressione, dal responsabile per la libertà dei media dell'Osce – Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – il relatore speciale per la libertà di espressione dell'Organizzazione degli Stati americani e quello della Commissione africana per i diritti umani.

In tale sede è stato ribadito con forza come gli intermediari della comunicazione non dovrebbero mai essere considerati responsabili per i contenuti pubblicati dai loro utenti salvo che non intervengano specificamente su tali contenuti o si rifiutino di adempiere ad un ordine adottato all'esito di un giusto processo condotto da un'autorità indipendente e imparziale e sempre che dispongano della capacità tecnica di adempiervi. Le quattro organizzaziono internazionali hanno infine specificato come il blocco di interi siti web, indirizzi IP, porte e protocolli di comunicazione costituisca una misura estrema che può essere adottata solo quando espressamente prevista dalla legge e è indispensabile a proteggere un diritto umano o altri legittimi pubblici interessi […] in assenza di misure alternative meno intrusive e sempre che sia disposto nel rispetto delle garanzie minime del giusto processo.

Guida all'approfondimento

BUFFA, Responsabilità del gestore di sito Internet, in questionegiustizia.it;

MELZI D'ERIL – VIGEVANI, Diffamazione, il gestore del sito non risponde se elimina i commenti, in ilsole24ore.com, 10 marzo 2017

PICOTTI, Il diritto penale dell'informatica nell'epoca di internet, Padova, 2004

VOORHOOF, Pihl v. Sweden: non-profit blog operator is not liable for defamatory users' comments in case of prompt removal upon notice, in strasbourgobserver.com, 20 marzo 2017

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