La Corte Edu sulla pubblicazione di intercettazioni relative a fatti di interesse pubblico

13 Aprile 2018

La pubblicazione di atti di indagine ufficiali e non secretati relativi ad argomenti di rilevante interesse pubblico, effettuata in maniera imparziale e senza giudizi ...
Massima

La pubblicazione di atti di indagine ufficiali e non secretati relativi ad argomenti di rilevante interesse pubblico, effettuata in maniera imparziale e senza giudizi di valore, non viola il diritto al rispetto della vita privata del soggetto interessato dall'articolo di stampa.

Al contrario, la pubblicazione distorta e parziale di atti del processo per i quali non vi sia stata verifica alcuna rispetto alla veridicità delle dichiarazioni ivi contenute, si pone in contrasto con gli obblighi positivi discendenti ex art. 8 Cedu sulle autorità statali.

Il caso

La sentenza pronunciata dalla Camera della Corte di Strasburgo origina da tre distinti ricorsi, poi riuniti, presentati da Seferi Yilmaz, cittadino turco residente ad Hakkari.

I fatti comuni ai tre ricorsi. In data 9 novembre 2005 la libreria del ricorrente fu oggetto di un attentato dinamitardo.

Il processo a carico dei presunti responsabili ebbe inizio, dinanzi alla Corte di assise di Van, il 6 marzo 2006.

Il fascicolo delle indagini preliminari – curate dalla gendarmeria di Hakkari e trasmesso alla procura di Van il 26 novembre 2005 – era formato da:

  • alcuni verbali di intercettazioni telefoniche – regolarmente autorizzate dal giudice competente – effettuate sulla linea in uso a tal A.K., presunto membro del PKK, contenenti, fra l'altro, alcune conversazioni intrattenute proprio con il ricorrente;
  • un'informativa curata dalla gendarmeria locale nella quale si ipotizzava che il ricorrente, insieme ad altri, avesse avuto rapporti con il PKK consistiti nel supporto e nella partecipazione diretta alle attività dell'associazione;
  • un verbale relativo a una denuncia telefonica anonima ricevuta da una donna il 26 agosto 2005 secondo la quale il ricorrente era implicato in un altro attentato avvenuto il 5 agosto 2005 dinanzi all'edificio della Gendarmeria di Semdinli e nel quale avevano perso la vita 5 soldati.

Con sentenza del 19 giugno 2006 la Corte di assise condannò i due soggetti imputati per l'attentato dinamitardo alla libreria del ricorrente alla pena di anni 37, mesi 10 e giorni 27 di reclusione.

In motivazione, la Corte affermò che, nonostante gli approfondimenti effettuati presso le compagnie telefoniche, non era stato possibile accertare con esattezza l'esistenza della telefonata anonima citata nell'informativa agli atti.

Con quattro distinte richieste di rinvio a giudizio del 29 maggio, 19 giugno, 17 luglio e 8 agosto 2006, il ricorrente fu accusato di appartenere al PKK, di incitamento all'odio e di apologia di reato; le ipotesi accusatorie erano fondate in larga parte sul contenuto delle intercettazioni relative alle conversazioni intrattenute tra Yilmaz e A.K., nome in codice S. e membro del PKK, acquisite agli atti del procedimento che vedeva il primo in veste di persona offesa.

Riuniti i procedimenti, con sentenza del 28 novembre 2008, il ricorrente fu prosciolto dalle accuse di associazione per delinquere ed incitazione all'odio e venne invece condannato ad un anno di reclusione per il capo relativo all'apologia di reato.

I fatti alla base del ricorso n. 61949/08. Il 30 marzo 2006 il quotidiano Hurriyet pubblicò un articolo intitolato Surpriz cep kayitlari, letteralmente, Le registrazioni a sorpresa sui cellulari.

Il sottotitolo affermava che una serie di intercettazioni telefoniche aveva consentito di fare piena luce sugli attentati dinamitardi avvenuti a Semdinli e Hakkari, ed era corredato da una foto del ricorrente la cui legenda recitava: «Il 4 novembre 2005, alle 16:23, il proprietario della libreria di Semdinli, Seferi Yilmaz, comunicò il proprio indirizzo ad un terrorista con nome in codice S. al fine di ricevere un pacco proveniente dalla Germania».

A pagina 22 del quotidiano fu pubblicato il contenuto delle intercettazioni citate nonché una copia dell'informativa relativa alla denuncia telefonica a carico del ricorrente.

Il 31 marzo 2006 il ricorrente citò in giudizio la società editrice del quotidiano al fine di ottenere il risarcimento del danno morale derivante proprio dalla pubblicazione delle intercettazioni.

A sostegno della propria azione, il ricorrente evidenziò che la Corte d'assise ancora non si fosse pronunciata sulla genuinità delle conversazioni captate e che, in ogni caso, l'articolo in questione l'avesse dipinto come il maggiore responsabile dei fatti criminosi accaduti nella città e come un membro di spicco del PKK.

Il tribunale investito della questione rigettò la domanda attorea sulla base di un rilievo determinante: il quotidiano, secondo il giudicante, si era limitato a riportare fedelmente il contenuto di atti di indagine acquisiti al processo, non aggiungendo nulla rispetto a quanto paventato dagli inquirenti.

Di conseguenza, le informazioni rese pubbliche dal giornale corrispondevano alla verità dei fatti e non potevano certo ritenersi irrilevanti per l'opinione pubblica.

Con provvedimento del 24 marzo 2008 la Cassazione confermò tale decisione.

I fatti alla base del ricorso n. 38776/09. Il 6 maggio 2006 il quotidiano Yenicag pubblicò un articolo intitolato Uzerinde 5 sehidin kani var, letteralmente, Ha le mani sporche del sangue di cinque martiri.

Anche in questo caso, il giornale pubblicò una foto del ricorrente accompagnata dalla dicitura «Seferi Yilmaz, membro del PKK, è stato giudicato per aver partecipato all'attacco di Semdinli del 1984 e condannato a 15 anni di reclusione».

La legenda faceva riferimento ad una precedente condanna riportata da Yilmaz per l'accusa di associazione per delinquere di matrice terroristica, interamente scontata dal 1985 al 2000.

Tale asserzione poggiava, tra l'altro, sulle dichiarazioni rese da un imputato nel processo celebrato dinanzi alla Corte di assise di Van, secondo le quali Yilmaz avrebbe raccolto informazioni per il PKK e avrebbe fornito supporto logistico per l'attentato alla caserma di Semdinli del 2005.

Anche in questo caso, Yilmaz citò in giudizio la società editrice del quotidiano; il tribunale, tuttavia, rigettò ancora le pretese attoree evidenziando che l'articolo non avesse lo scopo di diffamare il ricorrente bensì quello di informare i lettori su questioni di notevole interesse pubblico.

Il 9 ottobre 2008 la Cassazione confermò tali conclusioni.

I fatti alla base del ricorso n. 44565/09. Il 12 marzo 2006 il quotidiano Hurriyet pubblicò un terzo articolo intitolato Hürriyet Şemdinli dosyasındaki gizli telefon kayıtlarını açıklıyor, letteralmente, Hurriyet pubblica le intercettazioni delle conversazioni telefoniche dell'inchiesta Semdinli.

Il quotidiano riportò il contenuto della denuncia telefonica anonima relativa all'attacco terroristico alla gendarmeria del 5 agosto 2005 e, a pag. 22 del giornale, pubblicò la foto del ricorrente commentando: «nonostante la denuncia fatta alla gendarmeria, nessun provvedimento è stato preso contro Yilmaz».

Secondo l'articolo, inoltre, la donna rimasta anonima avrebbe affermato che dopo l'esplosione Yilmaz pensò di andare in Iraq e che, in seguito, divenne il capo del PKK.

In data non meglio precisata, il ricorrente denunciò il capo redattore del quotidiano accusandolo di diffamazione a mezzo stampa, incitamento all'odio e istigazione a delinquere in relazione ai due articoli pubblicati sulla propria vicenda.

Il 26 marzo 2006 la Procura richiese ed ottenne l'archiviazione del caso asserendo che l'operato della redazione fosse stato del tutto conforme alle norme ed ai principi che regolano la libertà di espressione della stampa; la decisione divenne definitiva, il 7 luglio 2006, con il rigetto dell'opposizione proposta del ricorrente.

Medesima sorte spettò alle azioni instaurate in sede civile, definitivamente rigettate, con motivazioni analoghe a quelle rese nei procedimenti precedenti, il 16 febbraio 2009.

La questione

Invocando gli artt. 6 § 2 e 8 della Convenzione, il ricorrente ha lamentato la violazione del proprio diritto a essere presunto innocente sino a prova contraria e l'ingiustificata ingerenza nel proprio diritto al rispetto della vita privata.

In punto di applicabilità delle disposizioni convenzionali richiamate, la Corte precisa anzitutto che l'art. 6 § 2 garantisce il diritto alla presunzione di innocenza soltanto nell'ambito dei procedimenti penali; nell'ipotesi in cui le affermazioni accusatorie siano state rese al di fuori, o in assenza di un processo penale, la questione deve essere inquadrata nell'ambito dell'art. 8 Cedu che, in ogni caso, fornisce protezione contro dichiarazioni diffamatorie o calunniose.

Nel merito, il ricorrente ha sostenuto che gli articoli pubblicati avessero il preciso scopo di screditarlo agli occhi dell'opinione pubblica, rendendolo così bersaglio di eventuali rappresaglie.

Il ricorrente, inoltre, si è soffermato sulla natura colpevolista delle espressioni utilizzate nei titoli degli articoli in questione, affermando pertanto che le autorità giurisdizionali adite non avessero effettuato un giusto bilanciamento tra la libertà di stampa ed il suo diritto alla protezione della reputazione.

Il Governo turco, dal canto suo, ha messo in evidenza come gli atti di indagine citati e trascritti dai quotidiani non fossero più coperti da segreto istruttorio al momento della pubblicazione degli articoli giornalistici.

La rappresentanza governativa, inoltre, ha posto l'accento sull'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati evidenziando anche che, sebbene in alcuni casi si fosse fatto ricorso a espressioni provocatorie, il contenuto degli articoli non avesse mai superato i limiti del consentito nell'ambito dell'esercizio della libertà di stampa.

Sulla base di tali considerazioni, la Turchia ha difeso l'operato delle proprie Corti anche in ragione della natura straordinaria dei fatti oggetto degli articoli incriminati.

Le soluzioni giuridiche

La Sezione II della Corte esordisce in motivazione ricostruendo, come di consueto, i principi generali elaborati dalla propria giurisprudenza e applicabili al caso di specie attraverso un esplicito richiamo al leading case in materia, ovvero Couderc et Hachette Filipacchi Associés v. France ([GC], no 40454/07, §§ 83-93, CEDH 2015.

Stante il ruolo di “cane da guardia della democrazia” storicamente riconosciuto alla stampa, la Corte evidenzia anzitutto che il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nel limitare il diritto alla libertà di espressione – sancito dall'art. 10 Cedu – è particolarmente ristretto proprio in ragione della fondamentale funzione degli organi di informazione.

I giornalisti, tuttavia, devono agire sempre in buona fede e sulla base di fatti verificati, al fine di fornire informazioni affidabili e precise nel rispetto dell'etica professionale.

Ciò posto, la Corte riconosce che, in talune circostanze, il travalicamento dei limiti di continenza, pertinenza e veridicità imposti alla stampa, possa determinare una illegittima ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata dell'individuo; e tanto, a maggior ragione nell'ipotesi in cui si attribuiscano ad un soggetto fatti specifici connotati da particolare gravità e riprovevolezza.

La Corte rammenta inoltre un'essenziale distinzione operata nella propria giurisprudenza a partire dai casi Lingens v. Austria e Oberschlick v. Austria: dichiarazioni sui fatti da un latoe giudizi di valore dall'altro.

La veridicità e consistenza delle dichiarazioni sui fatti può essere dimostrata e provata; al contrario, i giudizi di valore non si prestano ad una verifica sostanziale di esattezza e correttezza e, in quanto tali, rischiano di porsi in contrasto con la libertà di espressione stessa.

Di conseguenza, in caso di dichiarazioni giornalistiche consistenti nell'espressione di giudizi di valore, la proporzionalità dell'ingerenza dipenderà in larga parte dall'esistenza di una base fattuale sufficiente riscontrabile a sostegno delle dichiarazioni stesse.

È evidente, prosegue la Corte, che quando sorga un conflitto tra due diritti convenzionalmente garantiti – nel caso di specie, rispetto della vita privata vs. libertà di espressione –, compito del giudice di Strasburgo è quello di effettuare un corretto bilanciamento fra le contrapposte istanze che, in partenza, meritano comunque eguale rispetto.

Ciò premesso, spetta alla Corte valutare se le autorità nazionali, in adempimento agli obblighi positivi scaturenti dall'art. 8, abbiano correttamente ponderato gli interessi in gioco evitando così eccessive restrizioni dell'uno o dell'altro diritto.

Al fine di valutare l'equità del bilanciamento effettuato a livello domestico, la Corte può ricorrere a diversi criteri: il contributo ad un dibattito di interesse generale, la notorietà del soggetto coinvolto, il contenuto, la forma, le ripercussioni derivanti dalla pubblicazione dell'articolo, nonché ogni altra circostanza specifica utile alla soluzione del caso di specie.

Tornando al caso sollevato da Yilmaz, la Corte rileva anzitutto che il contenuto degli articoli osteggiati dal ricorrente possa ritenersi certamente in grado di attentare alla reputazione dello stesso; le dichiarazioni ivi riportate, infatti, superano la soglia di gravità necessaria per determinare l'applicabilità dell'art. 8 sotto tale profilo.

La Corte osserva inoltre che il ricorrente, in sostanza, non ha lamentato un'ingerenza diretta dello Stato bensì ha contestato a quest'ultimo il mancato rispetto degli obblighi positivi consistenti nel dovere di proteggere la sua reputazione da illegittime interferenze.

Il giudice di Strasburgo, pertanto, ritiene di dover concentrare la propria valutazione sulle motivazioni addotte dai tribunali nazionali a sostegno delle plurime decisioni reiettive delle istanze risarcitorie avanzate dal ricorrente nel proprio paese d'origine.

Sulla base di tali premesse, la Sezione II. decide di esaminare congiuntamente i fatti esposti nei ricorsi nn. 61949/08 e 44656/09 e separatamente quelli di cui al ricorso n. 38776/09.

I ricorsi nn. 61949/08 e 44656/09. La Corte, preliminarmente, osserva che gli articoli pubblicati dal quotidiano Hurriyet il 12 ed il 30 marzo erano basati sulle risultanze investigative versate dal Comando della Gendarmeria di Hakkari nel fascicolo relativo all'attentato dinamitardo subito dal ricorrente; il giornale aveva infatti trascritto fedelmente il contenuto dei verbali di intercettazioni telefoniche e gli elementi essenziali delle informative confluite nel processo.

La Corte non dubita che i fatti ivi narrati fossero di interesse generale ed evidenzia, inoltre, come gli articoli incriminati fossero scevri da valutazioni personali, insinuazioni o considerazioni denigratorie sulla persona citata.

Gli articoli, allora, devono essere considerati alla stregua di dichiarazioni sui fatti e non di giudizi di valore.

A tal proposito, il giudice ritiene che le notizie divulgate poggiassero su basi fattuali sufficienti riportando informazioni che, pur non accertate definitivamente come veritiere, provenivano da documenti ufficiali formati delle autorità preposte.

Assolutamente rilevante, anche al fine di distinguere il caso di specie dal precedente Bédat v. Switzerland [GC], no 56925/08, CEDH 2016, è inoltre la circostanza che, all'epoca della pubblicazione, le informazioni riportate non fossero più coperte da segreto istruttorio.

Le notizie, in ogni caso, sono considerate dalla Corte “beni deperibili” , ciò implicando che gli organi di stampa non sono sempre tenuti ad attendere l'esito definitivo dei procedimenti giudiziari dai quali provengono le informazioni stesse.

Nel caso di specie, peraltro, le notizie non sono state riportate come definitivamente accertate, ma sono state descritte come contestazioni mosse sulla base di elementi di prova contenuti nel fascicolo delle indagini.

Nel riportare tali elementi, del resto, i giornalisti non hanno effettuato alcuna modifica o manipolazione, limitandosi a trascrivere in maniera pedissequa il contenuto degli atti a loro disposizione.

Cercando riscontro di tali considerazioni nella parte motiva delle decisioni adottate dai tribunali civili e penali turchi investiti della questione, la Corte rileva che questi ultimi hanno ben sottolineato l'importanza della libertà di stampa e la rilevanza pubblica dei fatti narrati negli articoli contestati concludendo, in modo condivisibile, che il quotidiano non avesse superato i limiti della critica consentita.

Pertanto, considerando accettabile il bilanciamento operato a livello nazionale, la Corte conclude che non v'è stata violazione dell'art. 8 in riferimento agli articoli pubblicati dal quotidiano Hurriyet.

Il ricorso n. 38776/09. L'articolo sotto esame è quello pubblicato dal quotidiano Yenicag il 6 maggio 2006 e basato sulle dichiarazioni rese all'udienza del 4 maggio 2006 da uno degli imputati per l'attentato dinamitardo subito dal ricorrente.

L'articolo asseriva che il ricorrente avesse fornito informazioni al PKK ed avesse partecipato agli agguati di Semdinli del 2005 che avevano portato alla morte di cinque soldati.

La Corte tiene a sottolineare che l'articolo in esame non ha presentato i fatti come accuse mosse al ricorrente; essa evidenzia, al contrario, come i termini impiegati nella redazione del titolo suggerissero che si trattasse di fatti accertati definitivamente.

In effetti, il titolo Ha le mani sporche del sangue di cinque martiri accusava direttamente ed apertamente il ricorrente di aver partecipato all'attacco in questione.

Non v'è prova, inoltre, che i giornalisti abbiano condotto inchieste e/o indagini indipendenti per accertare la veridicità delle dichiarazioni accusatorie mosse nei confronti del ricorrente.

Devono esistere, prosegue la Corte, ragioni dettagliate e specifiche per poter ritenere che la stampa sia esonerata dal dovere di verifica del contenuto e delle fonti della notizia divulgata; a tal riguardo, giocano un ruolo fondamentale la gravità delle affermazioni diffamatorie e la credibilità delle fonti dalle quali provengono le dichiarazioni stesse.

Nel caso di specie, l'articolo menzionato ha tacciato il ricorrente di appartenenza all'associazione per delinquere denominata PKK senza fornire alcun elemento ulteriore e diverso rispetto ad una precedente condanna riportata da Yilmaz per fatti risalenti al 1985.

La Corte conclude dunque che l'articolo analizzato conteneva informazioni in grado di indurre in errore l'opinione pubblica; considera altresì che il modo in cui l'argomento è stato affrontato non può ritenersi conforme alle norme del giornalismo responsabile.

Il tribunale turco investito della domanda risarcitoria del ricorrente, tuttavia, aveva stabilito che il pezzo pubblicato dal quotidiano Yenicag avesse il mero scopo di informare il pubblico e che non avesse arrecato danno alla reputazione del ricorrente essendo basato su elementi derivanti dal processo.

La Corte non condivide tale approdo, giudicando pertanto non corretto il bilanciamento effettuato a livello nazionale tra diritto alla reputazione e libertà di stampa.

La sentenza resa dall'autorità domestica non ha ponderato in modo soddisfacente gli interessi in gioco non rispondendo ad un interrogativo essenziale: se la libertà di stampa potesse giustificare l'ingerenza nel diritto alla protezione della reputazione del ricorrente causata dalla pubblicazione di un articolo che lo accusava di fatti specifici e gravi al punto da mettere a repentaglio l'incolumità stessa di Yilmaz.

Tale carenza motivazionale impedisce peraltro alla Corte di verificare se i tribunali nazionali abbiano fatto buon governo dei principi enucleabili dalla giurisprudenza internazionale.

Per tali ragioni, limitatamente ai fatti indicati nel ricorso n. 38776/09, la Corte conclude che vi è stata violazione dell'art. 8.

Osservazioni

La sentenza in commento si inserisce in maniera organica nel solco della giurisprudenza tracciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sul delicato tema del bilanciamento tra diritto al rispetto della vita privata e libertà di stampa.

In particolar modo, nel caso di specie è agevole riscontrare una compiuta applicazione dei principi generali dettagliatamente ricostruiti nei §§ 83 – 93 nella sentenza Couderc e Hachette Filippachi Associés v. France, cit..

Nell'occasione - §§ 96 – 152 -, la Corte ebbe modo di elencare e descrivere analiticamente i criteri valutabili in sede di giudizio sulla proporzionalità dell'ingerenza ovvero:

  • il contributo che l'articolo può portare al dibattito pubblico;
  • la notorietà del soggetto citato dall'articolo;
  • le reazioni – se esistenti – del soggetto rispetto ad altri articoli precedentemente pubblicati, i.e. la soglia di “tollerabilità” mostrata dall'interessato;
  • il metodo utilizzato per procacciarsi le informazioni e quello utilizzato per verificarne la veridicità;
  • il contenuto, la forma e le conseguenze determinate dalla pubblicazione;
  • la gravità della sanzione eventualmente irrogata all'organo di stampa ritenuto responsabile di diffamazione.

Val la pena evidenziare inoltre che, sebbene non determinante in sé, nel caso di specie ha assunto particolare peso la circostanza che gli atti di indagine riportati sugli organi di stampa turchi non fossero coperti, al momento della pubblicazione, dal segreto istruttorio.

In effetti, in un caso nel quale la Corte si è trovata a giudicare a parti invertite – Bédat v. Switzerland, cit., ove ricorrente era un giornalista condannato per rilevazione di notizie riservate – l'accento venne posto proprio sul metodo illegale tramite il quale il giornalista era venuto in possesso delle notizie poi rese pubbliche.

Sul versante critico del commento appare proposto, appare pienamente condivisibile l'opinione dissenziente del Giudice belga Lemmens allegata alla sentenza.

In effenti, la circostanza che le informazioni siano state tratte da documenti ufficiali redatti dagli organi di polizia giudiziaria non dovrebbe essere mai ritenuta sufficiente, di per sé, ad esonerare la stampa dall'obbligo di verificarne plausibilità e veridicità.

Se, da un lato, è vero che trattasi di fonti ufficiali e dunque caratterizzate da un certo livello di credibilità, dall'altro è altrettanto vero che gli organi di polizia giudiziaria rappresentano soltanto una parte del processo; d'altronde, la prova della veridicità di quanto riferito dalla P.G. potrà aversi solamente a processo definito.

Tali considerazioni appaiono valide a maggior ragione con riferimento al caso di specie ove, ad esempio, parte delle notizie pubblicate traeva fondamento dal resoconto di una denuncia anonima – nemmeno accertata nella sua consistenza materiale – e da verbali di intercettazioni relative a conversazioni che, almeno a prima vista, si prestavano a molteplici interpretazioni.

In buona sostanza, il fatto che la fonte sia ufficiale e qualificata non dovrebbe mai indurre il giornalista a dare per scontato quanto appreso dagli uffici della Procura restando sempre opportuno procedere con le verifiche imposte dall'etica del giornalismo responsabile.

Guida all'approfondimento

AA.VV., Guide on Article 8 of the European Convention on Human Rights, Council of Europe Publications, 2017;

ECHR Research Division, Research report: Positive obligations on member States under Article 10 to protect journalists and prevent impunity, Council of Europe Publications, 2011.

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