Il caso Provenzano. La Corte di Strasburgo sul regime detentivo di cui all'art. 41-bis ord. pen.

19 Novembre 2018

Al fine di valutare se l'applicazione al detenuto delle restrizioni previste dall'art. 41-bis l. 354 del 1975 raggiunga o non la soglia minima di gravità richiesta per rientrare nell'ambito di applicazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (divieto di tortura)
Massima

Al fine di valutare se l'applicazione al detenuto delle restrizioni previste dall'art. 41-bis l. 354 del 1975 raggiunga o non la soglia minima di gravità richiesta per rientrare nell'ambito di applicazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (divieto di tortura), la durata dell'applicazione deve essere esaminata alla luce delle circostanze del caso di specie, in modo da poter accertare se il rinnovo o l'estensione delle restrizioni contestate sia giustificato o non. Ciò posto, sussiste la violazione dell'art. 3 cit., se, pur in presenza di detenuto di elevatissima pericolosità, i giudici nazionali non si confrontino in modo puntuale con l'accertato quadro di grave deterioramento cognitivo dello stesso, al fine di dar conto delle ragioni della necessità della rinnovata applicazione delle restrizioni.

Il caso
Il procedimento riguarda l'applicazione del regime di cui all'art. 41-bis ord. pen. a Bernando Provenzano, deceduto nel 2016.

Il Provenzano, arrestato nel 2006, dopo una lunghissima latitanza, era stato ritenuto colpevole di svariati reati e aveva riportato numerose condanne all'ergastolo, nella sua qualità di esponente apicale di Cosa Nostra. Dopo il suo arresto, con provvedimento del 13 aprile 2006, era stato applicato nei suoi confronti il regime detentivo previsto dall'art. 41-bis della l. 354/1975 (ord. pen.), che precede una serie di restrizioni finalizzate a recidere le possibilità di comunicazioni e quindi di conservare i legami con la rete criminale di appartenenza. L'applicazione del regime era successivamente stata rinnovata ininterrottamente sino al provvedimento del 26 marzo 2016, cui era seguito, qualche mese dopo, il decesso. Nel frattempo, per l'aggravarsi delle condizioni di salute, sia fisiche che psichiche, il Provenzano era stato detenuto nelle strutture carcerarie di Parma e Milano. Dal 2013 egli era stato permanentemente costretto a restare a letto ed era stato alimentato artificialmente. Tutte le istanze proposte fra il 2013 e il 2016, al fine di ottenere la sospensione dell'esecuzione della pena per motivi di salute e la revoca del regime di cui all'art. 41-bis ord. pen., non avevano sortito alcun effetto. In particolare, era stato ritenuto, alla stregua degli accertamenti medici eseguiti, che il Provenzano continuasse a ricevere un trattamento appropriato e che le restrizioni che caratterizzano il regime detentivo speciale fossero giustificate dalla pericolosità del detenuto, a tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica.

La questione

Il procedimento, promosso dal Provenzano e proseguito dal figlio, lamentava la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sotto i profili della insufficiente assistenza sanitaria in carcere e della sottoposizione al regime dell'art. 41-bis ord. pen., nonostante le patologie dalle quali era affetto.

Le soluzioni giuridiche

La I Sezione della Corte di Strasburgo, dopo avere analiticamente passato in rassegna il percorso detentivo e sanitario del Provenzano ha ritenuto, sotto il primo profilo sopra indicato, che non sussistesse alcuna violazione dell'art. 3. Essa ha rilevato che, sulla base del materiale presentato, non vi era motivo di dubitare che il richiedente avesse ricevuto cure mediche adeguate in un ospedale descritto dai giudici nazionali come centro di eccellenza e dove la sua salute veniva regolarmente monitorata e veniva somministrato il trattamento per i molteplici problemi medici del detenuto.

D'altra parte, passando a considerare il secondo dei profili e tenendo conto della progressivo aggravamento delle condizioni di salute e soprattutto del decadimento cognitivo, che rendeva meno attuale il rischio di quei contatti con la rete criminale di appartenenza che aveva giustificato l'applicazione dell'art. 41-bis ord. pen., la Corte ha distinto la situazione degli ultimi due provvedimenti di rinnovo del regime.

Ma ha, in primo luogo, ricordato che già, in passato, su un piano generale, ha avuto modo di esaminare la compatibilità del regime previsto dall'art. 41-bis ord. pen. con l'art. 3 della Convenzione, sottolineando che, alla luce delle circostanze dei casi di specie, quest'ultimo non entrava in conflitto con l'art. 3 della Convenzione, anche quando era stato imposto per lunghi periodi di tempo (Corte europea dei diritti dell'uomo, 17 settembre 2009, Enea c. Italia; 11 luglio 2006, Campisi c. Italia; 24 settembre 2015, Paolello c. Italia). In ogni caso, resta fermo – e qui si coglie il ruolo delle circostanze del caso e il dovere del giudice di darne conto - che sottoporre un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive, che sono imposte dalle autorità carcerarie a loro discrezione, senza fornire ragioni sufficienti e pertinenti basate su una valutazione individualizzata della necessità di siffatta applicazione, comprometterebbe la dignità umana dell'individuo stesso e comporterebbe una violazione del citato art. 3.

In tale cornice di riferimento, con riguardo al provvedimento di rinnovo del 2014, la Corte ha osservato che, nonostante il quadro di compromissione delle facoltà del Provenzano che emergeva dalla documentazione, comunque l'autorità giudiziaria aveva effettuato una valutazione indipendente e aveva raggiunto una conclusione motivata in base alla quale la possibilità che il richiedente potesse trasmettere messaggi criminalmente rilevanti all'organizzazione non poteva essere esclusa con assoluta certezza. In definitiva, la Corte non ha potuto concludere che le condizioni del ricorrente non fossero state realmente riesaminate in modo da tener conto delle modifiche intervenute nel 2014.

Al contrario, con riguardo all'ultimo rinnovo del 23 marzo 2016, che avrebbe preceduto di qualche mese il decesso del luglio dello stesso anno, la Corte ha rilevato che la documentazione medica aveva sottolineato l'esistenza di un quadro di deterioramento cognitivo estremamente severo (e ciò senza dire del gravissimo decadimento fisico del Provenzano), con la conseguenza che la reiterazione del provvedimento di sottoposizione al regime detentivo speciale avrebbe richiesto un accurato esame e una puntuale motivazione – che al contrario non si riscontrava - rispetto alla irrilevanza di tali mutamenti rispetto alla concreta pericolosità dell'individuo.

Va, infine, rilevato che la Corte ha anche escluso la sussistenza di danni non patrimoniali non compensati dall'avvenuto accertamento della violazione e ha anche escluso la dimostrazione di spese rimborsabili.

Osservazioni

Nonostante il clamore mediatico della vicenda, è abbastanza evidente che la Corte europea non ha in alcun modo espresso valutazioni generali di non conformità del regime di cui all'art. 41-bis ord. pen. rispetto al tessuto delle garanzie convenzionali. Al contrario, l'esame delle questioni è preceduto da un esplicito richiamo ai precedenti nei quali si è ritenuta l'insussistenza della violazione dell'art. 3 alla luce delle circostanze del caso concreto, anche in ipotesi di prolungata applicazione del regime speciale di detenzione.

Ciò che emerge è, invece, una certa inerzia motivazionale nell'affrontare il tema del progressivo decadimento cognitivo del detenuto e, quindi, nella sostanza la violazione di un dovere motivazionale che è, innanzitutto, espressione di un dovere di accertamento delle circostanze fattuali indispensabili per operare la comparazione degli interessi in gioco e, in ultima analisi, la necessità delle restrizioni alla libertà personale dell'individuo.

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