Misure di prevenzione personali. Una storica pronuncia dei giudici europei contro il sistema italiano

20 Marzo 2017

Le misure di prevenzione possono essere applicate ma a patto che la legge fissi in modo chiaro le condizioni per garantirne la prevedibilità e per limitare una eccessiva discrezionalità nell'attuazione. I diritti sanciti dall'art. 2 § protocollo 4 Cedu ...
Massima

Le misure di prevenzione possono essere applicate ma a patto che la legge fissi in modo chiaro le condizioni per garantirne la prevedibilità e per limitare una eccessiva discrezionalità nell'attuazione. I diritti sanciti dall'art. 2 § protocollo 4 Cedu – concernenti la libertà di circolare e di fissare la propria residenza nel territorio di uno Stato membro, valevoli per chiunque si trovi regolarmente nel territorio medesimo – possono essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall'interesse pubblico in una società democratica; il presupposto della statuizione legislativa implica che la normativa soddisfi i requisiti di accessibilità e di prevedibilità: detto ultimo crisma postula che la fattispecie sia formulata in maniera tale da consentire ai cittadini di prevedere – con ragionevole grado di precisione – quali possano essere le conseguenze dei propri comportamenti, allo scopo di conformare le loro condotte al precetto normativo; si tratta di garanzie volte ad arginare gli arbitri delle pubbliche autorità.

Il caso

Il ricorrente, condannato, tra gli altri, alla pena di quattro anni di reclusione per traffico di droga, veniva sottoposto con decreto del 2008 dal tribunale di Bari, ancora nel vigore della l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la moralità pubblica), alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di due anni. I giudici della prevenzione non prendevano affatto in considerazione le diverse deduzioni difensive prospettate tra cui l'acquisizione di un casellario giudiziale di altro soggetto, omonimo dell'interessato; l'insussistenza dell'attualità della pericolosità del proposto, dal momento che l'ultimo reato commesso risaliva a sei anni prima; l'inesistenza di un significativo tenore di vita. Avverso il menzionato decreto, il prevenuto, a mezzo del proprio difensore, proponeva appello, accolto integralmente dalla Corte di appello di Bari, che revocava, con effetto ex tunc, la misura di prevenzione personale.

Davanti alla Corte europea il ricorrente lamentava: la violazione dell'art. 6 § 1, Cedu, così come interpretata ed applicata dalla giurisprudenza della stessa Corte (Corte Edu Bocellari e Rizza c. Italia; Perre ed altri c. Italia), per mancanza di pubblicità nelle udienze svolte davanti al tribunale ed alla Corte di appello competente; la violazione dell'art. 1, in relazione all'art. 6 § 1 e § 3, lett. e), Cedu, per inosservanza del diritto ad un processo equo e pubblico, posto che il tribunale di Bari applicava la misura di prevenzione senza valutare in alcun modo le prove documentali depositate dalla difesa e la richiesta di prove testimoniali dalla stessa avanzate; la violazione dell'art. 5 § 1, Cedu e dell'art. 2, prot. 4, Cedu, per contrasto con il principio di legalità della restrizione della libertà personale e del diritto di libera circolazione nel territorio dello Stato e dell'Unione europea, per l'estrema vaghezza e genericità delle locuzioni usate nella l. 1423 del 1956; la violazione dell'art. 13 Cedu, poiché mancherebbe nell'ordinamento italiano una norma che garantisca al cittadino un ricorso effettivo che consenta di ottenere la riparazione del danno subìto a causa dell'ingiusta applicazione della misura di prevenzione e del loro protrarsi oltre il termine fissato dalla legge.

La questione

La questione posta all'esame dei giudici europei è la seguente: l'adozione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza di cui alla l. 1423 del 1956 (oggi art. 6, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia) può ritenersi conforme all'art. 6 § 1 Cedu, sotto la duplice prospettiva dell'assenza della pubblicità e dell'assenza delle garanzie di un equo processo; all'art. 5 Cedu, in ordine alla lesione al diritto alla libertà personale; all'art. 2, prot. 4 Cedu, in riferimento alla incisione sulla libertà di circolazione; all'art. 13 Cedu, per l'assenza nell'ordinamento italiano di rimedi effettivi contro il provvedimento applicativo della misura di prevenzione.

Le soluzioni giuridiche

La Corte europea, con una decisione i cui effetti sono idonei a porre in seria crisi la legittimità del sistema di prevenzione italiano in riferimento alle ipotesi di pericolosità generica, dichiara, a maggioranza, irricevibile la denunciata violazione dell'art. 5 Cedu; dichiara all'unanimità, la violazione dell'art. 2, prot. 4 Cedu; dichiara all'unanimità, la violazione dell'art. 6 Cedu, a causa della mancata celebrazione dell'udienza pubblica davanti al tribunale ed alla Corte di appello di Bari; dichiara, con 14 voti favorevoli su tre contrari, l'assenza di violazione dell'art. 6 § 1 Cedu per quanto riguarda il diritto ad un processo equo; dichiara, con dodici voti favorevoli su cinque contrari, l'assenza di violazione dell'art. 13 Cedu; dichiara all'unanimità la condanna all'Italia al versamento in favore del ricorrente della somma di euro 5.000 a titolo di danno non patrimoniale ed euro 11.525 a titolo di spese; rigetta, con sedici voti a favore ed uno contrario, la domanda del ricorrente ad un'equa riparazione.

La Corte, nel rigettare la doglianza in merito alla lamentata violazione dell'art. 5 Cedu, che tutela l'individuo dalle restrizioni arbitrarie della libertà personale, sottolinea come, successivamente alla sentenza Guzzardi c. Italia, la giurisprudenza europea si sia assestata nell'escludere che gli obblighi imposti con la sorveglianza speciale costituiscano privazioni della libertà de qua, ragione per cui il parametro evocato non appare pertinente all'ipotesi in esame. I giudici, infatti, ritengono che il precetto convenzionale operante nel caso di specie sia l'art. 2, prot. 4 Cedu, il quale garantisce ad ogni persona la libertà di circolazione.

Il percorso logico ed argomentativo seguito dalla Corte al fine di riconoscere la paventata lesione si snoda sulla verifica dell'esistenza nell'ordinamento italiano di una previsione di legge nonché sulla verifica circa la necessità della misura applicata in una società democratica. La previsione normativa per essere rispettosa del menzionato parametro convenzionale deve, in particolare, essere accessibile per l'interessato e tale da consentirgli di prevedere le restrizioni ad essa connesse. Il primo requisito, tra l'altro non contestato nel ricorso, appare, secondo la Corte, soddisfatto dal momento che la fonte della limitazione del diritto alla circolazione dell'interessato è costituita dalla l. 1423 del 1956, accessibile a chiunque. Il secondo requisito, invece, seppur non all'unanimità, è ritenuto carente non essendo sufficientemente prevedibili le conseguenze della condotta del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione personale. A tal fine sono richiamate in modo esteso le argomentazioni utilizzate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 177 del 1980, ove nel dichiarare illegittimità, per violazione degli artt. 13 e 25, comma 3, Cost., dell'art. 1, n. 3, l. 1423 del 1956, nella parte in cui elencava tra i soggetti destinatari degli strumenti di prevenzione personali coloro che per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere, ha sottolineato come la descrizione legislativa deve permettere […] di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all'avvenire. Sulla scorta di ciò, stante la perdurante indeterminatezza delle locuzioni contenute nell'art. 1, l. 1423 del 1956, la Corte europea estende le medesime censure alle altre due ipotesi, ivi previste, di pericolosità generica. Invero, la fattispecie legale della misura di prevenzione in esame è censurata anche da altra prospettiva. I giudici, infatti, evidenziano, nonostante la diversa impostazione offerta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 232 del 2010, come siano altrettanto vaghe ed imprecise le disposizioni contenenti le prescrizioni che devono o possono essere applicate al prevenuto. Il richiamo è a locuzioni quali vivere onestamente ovvero rispettare le leggi. Si tratta, infatti, di un generale rinvio all'intero ordinamento giuridico italiano, rinvio che, però, non permette, a parere dei giudici, di individuare le norme specifiche, la cui inosservanza dovrebbe essere intesa quale indice di pericolosità sociale dell'interessato. Ancora, la clausola di riserva contenuta nella l. 1423 del 1956, che consente al tribunale della prevenzione di applicare tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale mostra i medesimi deficit di determinazione. Inoltre, la prescrizione obbligatoria con cui si inibisce al proposto di partecipare a pubbliche riunioni non indica né un limite temporale né spaziale alla restrizione de qua, lasciando una eccessiva discrezionalità in capo all'autorità giudiziaria. Poiché, pertanto, la misura della sorveglianza speciale, sulla scorta dei rilievi sopra richiamati, non è stata applicata conformemente alla legge, la maggioranza della Corte ha deciso di astenersi dall'esame dell'ulteriore questione relativa alla verifica se la stessa potesse ritenersi necessaria in una società democratica per il raggiungimento delle legittime finalità sottese all'art. 2, prot. 4, Cedu.

La Corte, invece, respinge la prospettata violazione dell'art. 6 Cedu, per inosservanza del diritto ad un equo processo, in relazione a specifiche garanzie previste nei procedimenti penali, sull'assunto che le misure ante delictum non sono equiparabili ad una sanzione penale. Di converso ritiene leso il medesimo parametro sotto lo specifico profilo, peraltro riconosciuto dallo stesso Governo italiano, della violazione del diritto del proposto ad una pubblica udienza, a cui, peraltro, la Corte costituzionale prima, ed il legislatore italiano, poi, hanno già posto rimedio nella normativa oggi in vigore.

I giudici europei, infine, respingono la censura in riferimento all'art. 13 Cedu ritenendo che il ricorrente abbia goduto nell'ordinamento nazionale di rimedi capaci di garantire l'effettività della decisione e ciò in ragione proprio dell'esito favorevole per l'interessato ottenuto davanti alla Corte di appello.

Osservazioni

La decisione della Corte europea, le cui argomentazioni, seppur succintamente, sono state prima riportate, con esclusione delle opinioni concorrenti e dissenzienti alla sentenza anch'esse, invero, di sicuro rilievo, segnano un punto di non ritorno per la legislazione italiana in tema di misure di prevenzione. Gli effetti non sono, di certo, in grado di mettere in discussione la legittimità dell'intero sistema ante delictum ma il Legislatore nazionale dovrà, comunque, operare un serio e ponderato ripensamento di alcuni istituti.

Appare, preliminarmente, opportuno circoscrive l'area di interesse della decisione de qua.

La Corte europea ritiene incompatibile con la libertà di circolazione, riconosciuta e protetta dall'art. 2, prot. 4, Cedu, l'individuazione della categoria soggettiva contenuta nell'art. 1, l. 1423 del 1956 (oggi art. 1, d.lgs. 159 del 2011), che circoscrive alcune ipotesi di pericolosità generica nonché le prescrizioni che possono essere imposte con l'applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, in quanto indeterminate e lasciate, dunque, all'eccessivo arbitrio dell'autorità giudiziaria.

I precetti richiamati dai giudici europei sono stati trasfusi nel d.lgs. 159 del 2011, che, pur costituendo una fonte legislativa più recente, presenta le medesime problematiche affrontate dalla Corte, avendo solo recepito in modo pressoché letterale i contenuti, tra gli altri, della l. 1423 del 1956.

La richiamata incompatibilità è destinata, pertanto, ad incidere, da un lato, sulla categoria soggettiva di cui all'art. 1, d.lgs. 159 del 2011, potenziale destinataria di istituti di prevenzione personali e patrimoniali, sia sul contenuto delle prescrizioni legate all'esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza di cui agli artt. 6 e 8, d.lgs. 159 del 2011.

Le conclusioni a cui è pervenuta la Corte europea sono, invero, del tutto condivisibili, non anche, però, l'impostazione originaria, da cui le stesse scaturiscono. I giudici europei, infatti, confermano la lettura interpretativa secondo cui gli strumenti di prevenzione personali più gravi, come quelli in discussione, non sono capaci di incidere sulla libertà personale (art. 5 Cedu), bensì sulla libertà di circolazione. Ancora, negano recisamente la natura di sanzione penale, seppur nel caso di specie solo incidenter tantum, in relazione all'art. 6 Cedu per il mancato riconoscimento delle garanzie tipiche del procedimento penale, posizione che, invero, se appare difficilmente condivisibile in riferimento ai mezzi di natura personale, è ancora più sorprendente in riferimento ai mezzi di natura patrimoniale quali la confisca.

Ciò doverosamente premesso, appare opportuno concentrarsi sui precetti normativi, a cui si riferiscono i giudici europei.

L'art. 1, d.lgs. 159 del 2011 contiene la categoria soggettiva che, tradizionalmente, è stata destinataria di istituti di prevenzione personali e patrimoniali. Si tratta, a seguito anche del recente intervento additivo del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), al momento in cui si scrive ancora in corso di conversione, di coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; coloro che per la loro condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'art. 2, d.lgs. 159 del 2011 nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla normativa vigente, siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica e morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

Dalla mera lettura del contenuto del precetto appare evidente, così come stigmatizzato dai giudici europei, il deficit di tassatività dei comportamenti in base ai quali deve essere formulato il giudizio di pericolosità sociale, deficit che incide in modo palese sul requisito della prevedibilità. L'unico sforzo operato negli anni al fine di rendere la disposizione compatibile con i canoni costituzionali, prima, ed ora, anche europei, è rappresentato dal richiamo esplicito alla necessaria sussistenza di elementi di fatto, su cui fondare il giudizio de quo, onde evitare il rischio di incorrere in nuove figure di pericolosità presunta già da tempo espunte dal nostro ordinamento. È di rilievo ed assume in questa prospettiva una significativa importanza l'intento del Legislatore del 2017 di ancorare le ipotesi di pericolosità di cui all'art. 1, lett. c), d.lgs. 159 del 2011 ad elementi di fatto esplicitamente definiti ed individuati, seppur in modo non tassativo, nella violazione reiterata del foglio di via obbligatorio ovvero dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla normativa vigente, così come emerge dalla novella di recente operata sul testo in analisi, al momento in sede di conversione in Parlamento. È questa di certo una impostazione da sviluppare ed approfondire in modo da poter soddisfare il requisito di prevedibilità che non solo le fonti europee ma anche quelle interne pretendono sul punto, non essendo di certo sufficiente l'impegno interpretativo talvolta profuso nella prassi applicativa dalla giurisprudenza di legittimità. La riformulazione dei contorni applicativi dell'art. 1, d.lgs. 159 del 2011 costituisce, pertanto, un passaggio imprescindibile e ormai non più procrastinabile.

Di centrale importanza è anche il rilievo formulato in riferimento alla genericità delle prescrizioni che accedono, obbligatoriamente o facoltativamente, alla applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. L'assenza di tassatività deve, infatti, essere letta tenendo conto delle conseguenze penali che derivano dalla violazione delle prescrizioni de quibus. L'art. 75, commi 1 e 2, d.lgs. 159 del 2011 punisce con l'arresto da tre mesi ad un anno il contravventore dei predetti obblighi; la pena è, invece, da uno a cinque anni di reclusione, con possibilità di arresto anche fuori dei casi di flagranza, se l'inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con l'obbligo o il divieto di soggiorno. In ragione proprio delle severe conseguenze penali che discendono dall'eventuale inosservanza del decreto applicativo della misura di prevenzione personale, è necessario espungere, come sostiene la stessa Corte europea, prescrizioni quali vivere onestamente ovvero i generali richiami a prescrizioni necessarie avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale nonché precisare normativamente il confine di altre quali il divieto di partecipare a pubbliche riunioni (art. 8, commi 4 e 5, d.lgs. 159 del 2011).

L'auspicio che si formula è quello che il monito dei giudici europei possa essere sufficiente per indurre il Legislatore nazionale a rivisitare i precetti dettati in tema di misure di prevenzione, anche ben oltre, se fosse possibile, rispetto alle indicazioni emerse dalla sentenza in commento. Ciò permetterebbe una corretta definizione dei destinatari degli strumenti ante delictum sia essi personali o reali ed anche la legittima operatività della sorveglianza speciale che, pur non costituendo più un presupposto imprescindibile per l'adozione della confisca di prevenzione, rappresenta una delle figure di maggior rilievo nel panorama della prevenzione personale, a cui il legislatore nazionale sembra proprio non voler rinunciare.

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