Una sentenza ambigua: le Sezioni Unite intervengono su alcuni profili della disciplina in materia di rimedi risarcitori per violazione dell'art. 3 CEDU

Fabio Fiorentin
04 Marzo 2021

La sentenza in esame contribuisce a definire alcuni importanti profili controversi della disciplina dei c.d. “rimedi risarcitori”, da sempre oggetto di acceso dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza. L'analisi intende mettere a fuoco i principali aspetti di novità portati dall'autorevole pronunciamento della Corte riunita soffermandosi, tuttavia, anche sui non secondari dubbi interpretativi che restano tuttora irrisolti...
Una sentenza ambigua che lascia aperte rilevanti questioni interpretative

La sentenza n. 6551/2021 assume importanza essenzialmente sotto due aspetti. Anzitutto, pur senza introdurre alcun novum nella disciplina dei c.d. “rimedi risarcitori”, ha però il merito di fissare e consolidare alcuni fondamenti sistematici che costituiscono altrettante guidelines per l'interprete e soprattutto per l'operatore chiamato a fare concreto governo del rimedio di matrice europea, ponendo argine – come subito si dirà – ad alcuni scostamenti registratisi nella prassi interna in relazione, per un verso, all'ambito di applicazione dello strumento risarcitorio (recte: indennitario) introdotto dall'art.35-ter, l. 26 luglio 1975, n.354 (Ordinamento penitenziario) e, per l'altro verso, ai rapporti con la giurisprudenza extranazionale, segnatamente con l'elaborazione della Corte europea dei diritti dell'Uomo.

In secondo luogo, in una prospettiva più direttamente operativa, l'arresto della Cassazione riunita chiarisce, almeno in parte, un controverso aspetto inerente all'accertamento della sussistenza e della gravità della lesione dell'art.3 CEDU suscettibile di indennizzo, dirimendo un contrasto di giurisprudenza insorto sulla computabilità, o no, della superficie del letto a castello in quella utilizzabile dai detenuti per il libero movimento nella camera di detenzione.

Per contro, la pronuncia delle Sezioni Unite presenta una sorta di “lato oscuro”, ponendosi in termini estremamente ambigui con riguardo ad alcuni profili della disciplina di matrice europea, in particolare rinfocolando i dubbi applicativi circa la computabilità del letto singolo e suscitando, altresì, non poche perplessità per un riferimento all'ambito di applicazione del rimedio “succedaneo” indicato nel comma 2 dell'art. 35-ter ord. penit., che appare foriero – come si dirà - di difformità applicative e di nuovi contrasti giurisprudenziali.

I profili sistematici: l'ambito di applicazione del rimedio di matrice europea

Le Sezioni Unite prendono, anzitutto, espressa posizione sull'ambito di operatività del rimedio risarcitorio della violazione convenzionale, riaffermando il principio che il ristoro di cui al 35-ter ord. penit. può essere riconosciuto anche in assenza di condizioni di sovraffollamento carcerario. Trova dunque conferma la funzione indennitaria ad ampio spettro dello strumento compensativo di matrice europea, che copre qualsiasi violazione dell'art.3 CEDU verificatasi in dipendenza delle condizioni di detenzione “inumana e degradante” secondo l'interpretazione data alla evocata norma convenzionale dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Si tratta di un approdo importante, che mantiene allineata la giurisprudenza interna a quella della Corte di Strasburgo, ove si registra un progressivo consolidarsi dell'assunto per cui la privazione della libertà personale non comporta, di per sé, il venir meno dei diritti riconosciuti dalla Convenzione e.d.u. (per la prima volta, Corte EDU, 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, ma ancor prima, la Corte costituzionale con la fondamentale sentenza 204 del 1974) e che i diritti delle persone recluse possono essere sottoposti a restrizioni solo ove queste siano giustificate dalle normali e ragionevoli esigenze della detenzione.

La Corte alsaziana afferma, precisamente, sulla base di tali fondamentali cardini assiologici, il principio secondo cui l'art. 3 CEDU non pone a carico degli Stati contraenti solo obblighi negativi, ma anche ben più incisivi obblighi positivi di intervento, con il fine di assicurare ad ogni individuo detenuto condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, così che le modalità di esecuzione della pena detentiva in carcere si traducano per l'interessato in una sofferenza psicologica superiore a quella inevitabilmente legata alla privazione della libertà personale che connota la detenzione (Corte EDU, GC, 26.10.2000, Kudla c. Poland).

È questa, in particolare, la prospettiva di quell'orientamento che, superando l'approccio meramente “geometrico” alla verifica delle condizioni detentive, revoca in dubbio la decisività del “fattore spaziale” nei casi di detenzioni in spazi inferiori ai 3 mq. Pur ammettendo che l'“estrema mancanza di spazio in una cella di un carcere ha un grosso peso fra gli aspetti da prendere in considerazione allo scopo di stabilire se le condizioni detentive impugnate fossero “degradanti” dal punto di vista dell'Articolo 3”, la Corte EDU, con l'indirizzo consolidatosi nelle due sentenze Muršič c. Croazia del 2015 (Sezione semplice) e 2016 (Grande Chambre), stabilisce il principio che la violazione convenzionalesi produce per il complessivo sommarsi di una molteplicità di fattori concomitanti (quali la durata della detenzione, le possibilità di attività all'aperto, le condizioni fisiche e mentali del detenuto) e che tali elementi devono essere accertati e ponderati nel caso concreto (Corte EDU I, 12 marzo 2015, Muršič c. Croazia, n. 7334/13).

Allineandosi alla traiettoria europea anche le Sezioni Unite, con la pronuncia in analisi, consolidano nel diritto interno il principio per cui oggetto della verifica ex art. 35-ter ord. penit. sono, in ultima istanza, le caratteristiche dell'offerta trattamentale da parte dell'Amministrazione penitenziaria in relazione al particolare vissuto del soggetto interessato, così come già affermato dalla Grande Camera della Corte alsaziana con la sentenza 28 febbraio 2008, Scadi c/ Italia, espressamente richiamata dalla Corte riunita.

Se, dunque, si rafforza l'efficacia dello strumento compensativo che va ad abbracciare ogni violazione della dignità umana generata dal contesto detentivo, ampliando al massimo l'area del possibile accertamento della violazione convenzionale, occorre d'altro canto constatare che, per altri profili (primo fra tutti l'entità del ristoro), il rimedio risarcitorio introdotto con l'art. 35-ter della l. n. 354/75 resta tuttora ampiamente inadeguato in rapporto all'importanza che l'ordinamento assegna alla dignità umana, quale bene giuridico che, pure, la Corte europea e la Corte costituzionale all'unisono affermano costituire valore primario di un ordinamento democratico, non negoziabile né bilanciabile con altri pur rilevanti interessi in gioco, anche di livello costituzionale (Corte EDU, GC, 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, ric. n. 37201/06, par. 127; Corte EDU, GC, Labita c. Italia, ric. n. 26772/95, par. 119, Cedu 2000-IV). Si fa, pertanto, urgente l'esigenza di un intervento legislativo per adeguare l'indennizzo – sia quello riconosciuto in forma specifica, sia soprattutto quello monetario – all'entità valoriale attribuita al bene della dignità umana inciso per effetto delle condizioni di detenzione.

I rapporti con la giurisprudenza extranazionale

Un secondo aspetto rilevante sul piano sistematico, affrontato dalla sentenza in commento attiene ai rapporti tra l'ambito di discrezionalità riconosciuto al giudice nazionale (il c.d. “giudice comune” nella terminologia europea) e i limiti che ad essa sono via via posti dall'elaborazione della Corte di Strasburgo.

È noto, infatti, che, per espressa previsione normativa, il giudice nazionale è tenuto ad accertare la sussistenza della violazione dell'art. 3 CEDU per come esso è interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Si tratta – come si è ampiamente rilevato in dottrina - del primo caso di espressa integrazione diretta del sistema normativo interno con la giurisprudenza extranazionale, che viene elevata, in questa materia, a parametro normativo vincolante erga omnes per l'interpretazione e qualificazione della fattispecie. Un assetto, quest'ultimo, che non ha, tuttavia, impedito che in dottrina e in una parte della giurisprudenza si affermasse la tesi che gli ordinamenti interni e la giurisprudenza dei singoli Stati aderenti alla Convenzione possano offrire un livello di protezione maggiore di quello garantito dalla giurisprudenza della Corte europea investita della decisione di ricorsi su questioni analoghe a quelle in discussione in ambito interno, intendendosi, cioè, il livello di protezione assicurato dall'ordinamento europeo quale limite minimo ma non anche limite massimo del grado di tutela che può essere ope iudicis riconosciuto nel singolo ordinamento interno.

Su tale premessa – ricordano le Sezioni Unite - un indirizzo di legittimità afferma possibile, per il giudice nazionale, l'applicazione di criteri differenti e più favorevoli per i diritti dei detenuti rispetto a quelli adottati dalla Corte EDU, richiamando “l'obbligo di fornire, nel sistema interno, la più ampia tutela possibile ad un diritto fondamentale”, in quanto “con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quella predisposta dall'ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa” (Cass. pen., sez. I, 23 gennaio 2019, n. 15554) e rivendicando, in sostanza, uno spazio di autonomia della giurisprudenza del giudice comune “quando la soluzione adottata assicuri una maggiore garanzia al diritto fondamentale in gioco rispetto a quello che si intende far valere in forza della traduzione letterale delle pronunce della Corte EDU” (Cass. pen., sez. I, 16 ottobre 2019, n. 46442).

Tale orientamento non è, tuttavia, condiviso dalla Corte riunita per l'assorbente rilievo che proprio la strutturazione del sistema imperniato sull'art. 35-ter ord. penit. impedisce al giudice nazionale di adottare un'interpretazione dell'art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno specifico aspetto, perché ciò violerebbe sia il principio dell'obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. penit. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem più volte ricordato. Analogo principio – ricorda l'arresto in disamina - è stato affermato anche dalla Corte di Giustizia UE in materia di MAE, ove la Corte di Lussemburgo ha negato espressamente la possibilità per il giudice nazionale, chiamato a decidere sull'esecuzione di un MAE, di adottare uno standard più elevato rispetto a quelli indicati (CGUE, GS, 15ottobre 2019, Dumitru-Tudor Dorobantu).

In coerenza con tale ribadito principio, la Corte riunita conferma il ruolo centrale che assume, nella dinamica dello strumento risarcitorio in esame, il formante giurisprudenziale evidenziando, in particolare, il già evocato ruolo integrativo del precetto normativo che assume la giurisprudenza extranazionale della Corte EDU nel riempire di contenuto la disposizione dell'art. 3 CEDU e il corrispondente vincolo che essa rappresenta per i giudici degli ordinamenti nazionali.

Le Sezioni Unite hanno, pertanto, espressamente circoscritto l'ambito di autonomia assegnato ai giudici comuni, i quali sono tenuti a muoversi nel perimetro disegnato a Strasburgo, senza che sia loro consentita alcuna “fuga in avanti”, sia pure animata, come concedono le Sezioni Unite, dai più lodevoli intenti. Non sembra, pertanto, che possa trovare spazio una prospettiva di innalzamento da parte dei giudici comuni deglistandard riconosciuti dal giudice europeo, pur restando comunque riservato ai primi l'attività di interpretazione delle pronunce del secondo, con la correlata possibilità di reclamare il controllo delle corti di vertice nel caso di oscurità o di mancata condivisione della regula iuris che da esse promana.

Resta, in particolare, confermata la possibilità per i giudici comuni di “interpretare” le sentenze delle Corti europee e della CEDU in particolare: operazione ermeneutica che si palesa quanto mai necessaria e addirittura essenziale sia per la natura casistica della giurisprudenza europea, sia per la concreta difficoltà di identificare la sicura “stella polare” rappresentata dalla “giurisprudenza consolidata” della Corte di Strasburgo (sui criteri identificativi della quale la Corte costituzionale, con la sentenza n.49/2015, non ha però fornito quell'apporto chiarificatore che sarebbe stato, invece, fondamentale), così che non sembra scongiurata – ed anzi si conferma in tutta la sua profetica esattezza - l'opinione di chi aveva subito ammonito, all'indomani dell'introduzione dell'art. 35-ter ord.penit., sui rischi correlati al vincolo interpretativo imposto ai giudici nazionali, costretti a seguire “le evoluzioni e le involuzioni della Corte di Strasburgo” (Giostra).

Concetto e calcolo dello spazio personale a disposizione del detenuto

Sul versante operativo, la Corte riunita prende posizione su un profilo inerente al calcolo dello spazio detentivo personale a disposizione del singolo soggetto detenuto, dirimendo il dubbio se computare, o no, nello spazio disponibile per il movimento all'interno della camera di detenzione la superficie occupata dal letto “a castello” presente nella medesima. Si tratta di un aspetto dell'accertamento della violazione dell'art. 3 CEDU che ha generato non poche divaricazioni applicative ed un forte contrasto in seno alla giurisprudenza.

Le Sezioni Unite confermano l'orientamento maggioritario secondo il quale lo spazio detentivo utile ai fini della verifica di legalità delle condizioni di detenzione deve essere inteso come “superficie libera”, che consenta ai detenuti la possibilità di muoversi all'interno della cella, senza quindi che – a tal fine - rilevino suppellettili che consentano di svolgere altre attività, intellettive o manuali, che implichino la stazione eretta o distesa. Tale spazio detentivo minimo, necessario per assicurare al soggetto ristretto il movimento all'interno della cella, deve essere inoltre calcolato – secondo la Corte riunita - al netto degli ingombri degli arredi fissi che, in quanto tali, impediscono appunto gli spostamenti interni.

Tra gli arredi fissi – la cui superficie va, pertanto, sempre detratta da quella disponibile per il movimento – deve essere compreso anche il letto "a castello", che, per le sue caratteristiche, non può essere facilmente spostato, risultando irrilevante, sulla base delle premesse sopra riportate, che esso stesso possa essere utilizzato quale superficie “vivibile” per l'assolvimento di altre funzioni della vita (es. lettura, riposo, consumazione dei pasti, conversazione, ecc.).

Prendendo lo spunto dalla “questione letto”, la sentenza affronta – in una sorta di riepilogo delle questioni più rilevanti evidenziatesi nella materia de qua – il profilo definitorio del concetto di spazio detentivo utile ai fini dell'accertamento della violazione convenzionale. Lo “spazio libero” deve consentire – così afferma la Corte - il movimento “agevole”, cosicché, laddove risultino collocati arredi fissi non facilmente rimuovibili attraverso operazioni semplici, la superficie perde la sua connotazione iniziale per assumere quella di “spazio occupato”. Non rilevano, per contro, gli arredi “facilmente amovibili”.

In altri termini – chiosa la Cassazione riunita – non conta tanto la superficie geometricamente intesa quanto la “superficie calpestabile”, funzionale cioè alla libertà di movimento del recluso, dovendosi, pertanto, detrarre, al fine del calcolo dello spazio individuale minimo, dalla superficie lorda della camera l'area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui appunto il letto a castello, destinato a sole finalità di riposo.

A questo proposito sorge, tuttavia, un delicato problema. Premesso che il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite ("Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello")si riferisce inequivocabilmente ai soli letti “a castello”, si pone la questione se – nella medesima prospettiva indicata dall'autorevole arresto in analisi – anche un eventuale letto singolo debba parimenti essere inteso come un “arredo fisso” e, per tanto, non essere computato nella superficie utile al movimento dei soggetti ristretti

Le Sezioni Unite - che a tale profilo dedicano passaggi incidentali e impregnati di ambiguità - ricordano che un indirizzo (Cass. pen., Sez. I, 9 settembre 2016, n.52819) ha affermato la necessità dell'esclusione dal computo della superficie utile dello spazio occupato da strutture tendenzialmente fisse (tra cui il letto), considerando irrilevanti le diverse possibili modalità di utilizzo del medesimo, trattandosi di funzioni che non soddisfano la primaria esigenza di movimento.

La giurisprudenza “Sciuto”, effettivamente, non affermava espressamente che anche la superficie occupata dal letto singolo debba essere detratta, al pari di quella occupata dagli arredi fissi, sulla considerazione che il letto, in una cella collettiva, «per comune esperienza è tipologicamente un letto a castello», però un orientamento della Cassazione civile giungeva alla conclusione che anche lo spazio occupato dai letti singoli dovesse essere detratto, in quanto riduceva lo spazio libero necessario per il movimento (Cass. civ., Sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4096).

Per contro, un altro indirizzo interpretativo (Cass. pen.,Sez. I, 16 novembre 2016, n. 40520) afferma, invece, che i letti sono da ritenersi ostativi al libero movimento e alla piena fruizione da parte del detenuto soltanto quando presentino la struttura "a castello", che non ne permette lo spostamento e che, quindi, restringe l'area di libero movimento. Al contrario, i letti singoli sono da ritenersi amovibili al pari di sgabelli o tavoli.

Nell'ottica del criterio che la Corte riunita definitivamente consacra (quello, cioè, del riferimento allo “spazio calpestabile”, utile alla libertà di movimento anziché quello dello “spazio vivibile”), si pone dunque la questione, lasciata nell'ombra dal pronunciamento in esame, della computabilità del letto singolo. Il problema non è, infatti, tanto l'ancoraggio al suolo (ricorrendo tale ipotesi, appare pacifica la necessaria detraibilità della relativa superficie da quella utilizzabile per il movimento, trattandosi di ”mobile inamovibile”), quanto la considerazione che anche nel caso di letto non ancorato al suolo, lo spostamento non sempre garantisce di per sé la libertà di movimento. Considerate, infatti, le dimensioni delle camere di detenzione, "spostare da un lato all'altro della stanza" il letto non solo non appare operazione semplice, ma è altresì dubbio che anche l'eventuale spostamento possa creare lo spazio necessario al libero movimento per il “titolare” dello stesso senza invadere lo spazio degli altri occupanti. Il letto singolo, in altri termini, non pare costituire – secondo la comune esperienza - arredo “facilmente amovibile” nel senso fatto proprio dalla giurisprudenza europea e dallo stesso indirizzo accolto dalla sentenza in commento.

Sul punto – giova ribadire – il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite lascia margini di ambiguità poiché, per un verso, afferma la detraibilità degli spazi occupati dai soli arredi fissi o comunque non facilmente amovibili; per l'altro verso afferma che solo il letto “a castello” presenta le dette caratteristiche di “inamovibilità”, mentre il letto singolo andrebbe parificato agli arredi “amovibili” quali il tavolo e le sedie. La ravvisata ambiguità consiste nel rilievo che – in punto di fatto - pare facilmente contestabile, alla luce del principio-guida che guarda alla superficie “utile al libero movimento”, l'assunto che anche gli arredi fissati al pavimento della cella e comunque di notevole ingombro, come il letto singolo, possano essere considerati “facilmente amovibili” e dunque tali da non ostacolare l'agevole movimento all'interno della camera, soprattutto se le dimensioni di quest'ultima consentono spazi personali a disposizione limitati, tra i 3 e i 4 mq.

In altri termini, se è ben vero che il dictum delle Sezioni Unite si riferisce testualmente soltanto alla necessità di calcolare l'ingombro dei letti “a castello” nello spazio “occupato”, sembra altrettanto evidente che i criteri adottati per giungere all'affermazione di tale principio di diritto forniscano la chiave interpretativa che inevitabilmente conduce alla conclusione che analoga soluzione debba adottarsi anche nel caso del letto singolo, sia nell'ipotesi in cui esso sia saldamente ancorato al suolo (in questo caso, infatti, è pacificamente “inamovibile”), sia qualora, pur non risultando fissato al suolo, non possa essere facilmente spostato per creare lo spazio necessario al libero movimento: si pensi a celle di ridotte dimensioni nelle quali il letto non possa essere cambiato di posizione senza invadere lo spazio personale degli altri detenuti o senza operazioni particolari quali il sollevamento dello stesso con addossamento al muro o, addirittura, con il suo temporaneo posizionamento all'esterno della camera (non sia, cioè, “facilmente amovibile” da parte degli occupanti della cella, a differenza di un tavolo o degli sgabelli presenti nella stanza).

La questione interpretativa qui in disamina soffre margini di grande incertezza, a causa del già ricordato tenore ambiguo di alcuni passaggi motivazionali della sentenza in esame. Il senso della regola enunciata dalle Sezioni Unite, infatti, è che: “quando la Corte (europea, n.d. A.) afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all'altro della cella. Si guarda, quindi, alla facilità di spostamento del “mobile” che – proprio per questa ragione – non ostacola l'agevole movimento all'interno della cella”. A fronte di tale premessa, la sentenza in commento, mentre al par.18, si riferisce espressamente al (solo) letto “a castello”; nei parr.16 e 17 evoca, appunto, il concetto di "mobile" come "movibile" (con riferimento all' etimologia e al significato in lingua francese usato dalla Corte EDU), dando poi evidentemente per scontato che i letti singoli possano essere sempre spostati da una parte all'altra della camera (ma così non è – come si è già rilevato - se essi sono ancorati o comunque nel caso di camere di non ampie dimensioni) e concludendo: "per i detenuti all'interno di una cella, mentre il tavolino, le sedie, i letti singoli possono essere spostati da un punto all'altro della camera (sono, quindi, "mobili"), non altrettanto può dirsi per gli armadi o i letti a castello, sia a causa della loro pesantezza o del loro ancoraggio al suolo o alle pareti, che dalla difficoltà di loro trasporto al di fuori della cella". Si tratta, a quanto sembra, di due affermazioni che – per quanto concerne il letto singolo- appaiono in contraddizione per i motivi sopra detti (i letti singoli, infatti, sono ritenuti sempre “mobili” anche se non possono essere facilmente spostati).

Si tratta di un aspetto particolarmente delicato poiché l'imbullonamento del letto singolo al pavimento della cella è una prassi che – quantomeno per il passato- era presente in alcuni istituti e risponde ad una disposizione adottata dall'Amministrazione penitenziaria per prevenire l'utilizzo improprio del letto da parte degli occupanti della camera, quale barricata o quale improvvisato “ariete”. Ragioni, quindi, riconducibili a finalità preventive e di tutela dell'ordine e della sicurezza interna agli istituti penitenziari che ora, però, sembrano porsi in rotta di collisione con l'esigenza di rispettare le condizioni minime di detenzione imposte dalla Convenzione edu.

L'indicazione che la Corte riunita consegna rispecchia un dato di fatto già largamente noto agli operatori: gli istituti penitenziari del nostro Paese presentano, in molti casi, strutture e organizzazione degli spazi interni non conformi alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo. Una situazione, dunque, che dovrebbe condurre ad un profondo ripensamento dell'organizzazione degli spazi “vivibili” all'interno degli istituti e forse, a questo fine, la Commissione per l'edilizia penitenziaria recentemente istituita e presieduta dall'arch. Zevi potrebbe offrire un utile contributo di proposte e soluzioni operative.

Nella stessa prospettiva va considerato il rilievo portato dalle Sezioni Unite alla computabilità dello spazio occupato dagli armadi presenti nella camera detentiva. La Corte riunita richiama, al proposito, la pronuncia della Grande Chambre del 20 ottobre 2016 Mursic c. Croazia, che viene ritenuta “giurisprudenza consolidata” e dunque vincolante per il giudice comune, affermando che “un armadio fisso oppure un pesante letto a castello … equivalgono ad una parete: in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile. Per i detenuti all'interno di una cella, mentre il tavolino, le sedie, i letti singoli possono essere spostati da un punto all'altro della camera (sono, quindi, "mobili"), non altrettanto può dirsi per gli armadi o i letti a castello, sia a causa della loro pesantezza o del loro ancoraggio al suolo o alle pareti, che dalla difficoltà di loro trasporto al di fuori della cella.”

È interessante l'accenno portato dalla sentenza in esame al profilo organizzativo attribuito alla discrezionalità dell'Amministrazione: se quest'ultima, infatti, per recuperare spazio all'interno delle camere, disponesse la collocazione degli armadi all'esterno delle celle (a es. nel corridoio della sezione) spetterebbe al magistrato di sorveglianza “verificare se, concretamente - nonostante il formale rispetto dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati - la disposizione dei mobili all'interno della cella renda del tutto difficoltoso il normale movimento dei detenuti ovvero se essi siano penalizzati dalla mancanza di armadi, dove riporre gli oggetti personali all'interno della cella”, ipotizzando al proposito una sinergica applicazione del ricorso “preventivo” codificato nell'art. 35-bis ord. penit.

Le Sezioni Unite confermano, infine, che la superficie dei servizi igienici (che, in base all'art. 7 del Regolamento esecutivo dell'ordinamento penitenziario, D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, devono essere collocati “in un vano annesso alla camera”) non deve essere computata in quella complessiva della camera di detenzione.

I “fattori compensativi”

Le Sezioni Unite aderiscono alla sentenza della Grande Chambre Mursic c. Croazia del 20 ottobre 2016, nel senso di prevedere una valutazione unitaria del complesso delle condizioni di detenzione, sia positive che negative: una ponderazione multifattoriale e cumulativa delle concrete modalità del trattamento penitenziario in cui gioca un ruolo rilevante anche il dato temporale. Come si è accennato, la Cassazione riunita recepisce la pronuncia Mursic del 2016 quale “giurisprudenza consolidata” e dunque vincolante per i giudici comuni, osservando che i medesimi principi sono stati enunciati da altri arresti che hanno contribuito, appunto, al detto "consolidamento" (la Corte riunita richiama le sentenze CEDU, del 25 aprile 2017, Rezmivese c. Romania, del 16 maggio 2017, Sylla e Noliomont c. Belgio; e del 30 gennaio 2020, J.M.B. c. Francia, oltre alla già evocata sentenza della CGUE, Grande Sezione, 15 ottobre 2019, Dumitru-Tudor Dorobantu).

Nell'ambito della ponderazione del complessivo trattamento penitenziario entrano in gioco i c.d. “fattori compensativi”: quegli elementi, cioè, del trattamento detentivo di carattere positivo che, in qualche modo, possono attenuare il disagio di uno spazio troppo ristretto all'interno della cella ovvero, all'opposto, quelle condizioni di segno negativo che possono portare all'accertamento della sussistenza della violazione convenzionale anche in presenza del rispetto formale del parametro relativo allo spazio personale a disposizione di ciascun detenuto.

In via di sintesi, è possibile abbozzare il seguente schema sinottico che incrocia il profilo spaziale con la compresenza di fattori compensativi positivi e negativi:

a) spazio personale a disposizione inferiore a 3 metri quadri: in questo caso, la evocata sentenza Muršic c. Croazia del 2016 afferma ricorrere la “forte presunzione” (strong presumption) di sussistenza della violazione dell'art. 3 CEDU. La sentenza, individua i seguenti fattori compensativi idonei al superamento della "forte presunzione", che operano con effetto cumulativo (devono, quindi, ricorrere tutti congiuntamente) per permettere di superare la detta forte presunzione (§ 138):

  • brevità del periodo in cui avviene la riduzione dello spazio personale in rapporto al minimo obbligatorio (§§ 130 e 131). Si tratta di un fattore espressamente preso in considerazione dal legislatore nazionale, che permette la riduzione della durata della pena detentiva a titolo di risarcimento in forma specifica del danno da overcrowding penitenziario solo se la violazione dell'art. 3 CEDU si sia protratta per un periodo di tempo non inferiore a 15 giorni (art. 35-ter, comma 1, ord. penit.). Osserva la sentenza in commento che il secondo comma del medesimo art. 35-ter prevede, inoltre, che nel caso in cui il periodo di detenzione espiata in condizioni non conformi ai criteri di cui all'art. 3 CEDU sia stato inferiore a quindici giorni, il magistrato di sorveglianza liquidi al richiedente, a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Tenuto conto della rilevanza attribuita dalla Corte EDU alla brevità del periodo in cui non è stato rispettato lo spazio minimo individuale come fattore compensativo, si deve ritenere – così affermano le Sezioni Unite - che la norma dell'art. 35-ter, comma 2 ord. penit. si riferisca a violazioni dell'art. 3 CEDU diverse da quella derivante dal sovraffollamento;
  • sufficiente libertà di movimento fuori dalla camera di detenzione per lo svolgimento di adeguate attività all'esterno della cella;
  • condizioni dignitose della struttura penitenziaria in generale (§ 132).

L'onere della prova incombe sull'Amministrazione penitenziaria, che dovrà dimostrare la sussistenza di tutti i fattori compensativi sopra elencati, idonei a superare la presunzione di violazione dell'art.3 CEDU. La giurisprudenza di legittimità esclude la violazione convenzionale pur in presenza di uno spazio vitale inferiore a 3 mq in caso di presenza di fattori compensativi, quali il congruo numero di ore da trascorrere quotidianamente all'esterno delle celle (Cass.pen., Sez. VI, 26 febbraio 2020, n.7979), le adeguate condizioni di igiene e la possibilità di accedere al regime di detenzione cd. aperto, all'igiene personale, ai pasti, all'areazione, a condizioni di illuminazione e climatizzazione adeguate, nonché all'accesso all'acqua corrente ed ai servizi sanitari e, ancora alla possibilità di accedere a postazioni telefoniche ed informatiche, all'acquisto di generi di necessità, alle visite, alla possibilità di lavoro, allo svolgimento di attività educative, sportive, terapeutiche, con accesso agli spazi aperti (Cass. pen., Sez. VI, 9 novembre 2018, n. 52541).

Le Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, ricordano, inoltre, che “è incontrastato il principio secondo cui, se il detenuto è sottoposto al regime c.d. chiuso, è necessario che gli venga assicurato uno spazio minimo di tre metri quadrati, detratto quello impegnato da strutture sanitarie e arredi fissi; se, al contrario, è sottoposto al regime c.d. semiaperto, ove gli venga riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadrati, è necessario, al fine di escludere o di contenere il pericolo di violazione dell'art. 3 CEDU, che concorrano i sopra ricordati fattori compensativi;

b) spazio individuale a disposizione compreso tra 3 e 4 metri quadri: l'oggetto della valutazione multifattoriale riguarderà, in questo caso, la complessiva offerta trattamentale da parte dell'Amministrazione penitenziaria. Il relativo accertamento è influenzato da fattori negativi, quali la mancanza di accesso al cortile o all'aria e alla luce naturale, nella cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, nell'assenza di riservatezza nelle toilette, nelle cattive condizioni sanitarie e igieniche. Nella prospettiva della violazione dell'art. 3 CEDU. non è richiesta la contestuale presenza di tutti i fattori negativi. L'onere di allegazione di tali fattori negativi ricade sull'interessato al momento della presentazione dell'istanza. Da parte sua, l'Amministrazione potrà opporre i fattori compensativi positivi per contrastare la domanda e il Magistrato di sorveglianza dovrà, quindi, esprimere un giudizio globale sulle condizioni di detenzione tenendo conto di tutti i fattori, positivi e negativi, così come richiesto dalla Corte EDU. E' necessario che la valutazione demandata al giudice dei concorrenti aspetti del trattamento penitenziario idonei ad essere posti in bilanciamento con le dimensioni spaziali della cella collettiva sia parametrata alle concrete opportunità di cui abbia realmente usufruito l'interessato, non potendo essere fondata su parametri potenziali correlati all'astratta possibilità di accedere all'offerta trattamentale disponibile nell'istituto penitenziario (Cass. pen., Sez.I, 30 maggio 2019, n. 35537);

c) spazio individuale in una cella collettiva superiore a 4 metri quadri: il fattore sovraffollamento non rileverà in una domanda proposta ai sensi dell'art. 35-ter ord. penit., che, pertanto, dovrà essere basata su fattori differenti.

L'ambito di operatività del comma 2. art. 35-ter ord. penit.

È opportuno riprendere ora brevemente un'affermazione della sentenza in analisi che desta forte perplessità. Il passaggio “infelice” è quello – già ricordato - che, riferendosi alla disciplina dei primi due commi dell'art. 35-terord.penit., così stabilisce: ”il secondo comma del medesimo art. 35-ter prevede, tuttavia, che il magistrato di sorveglianza liquidi al richiedente, a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio anche nel caso in cui il periodo di detenzione espiata in condizioni non conformi ai criteri di cui all'art. 3 CEDU sia stato inferiore a quindici giorni. Tenuto conto della rilevanza attribuita dalla Corte EDU alla brevità del periodo in cui non è stato rispettato lo spazio minimo individuale come fattore compensativo, si deve ritenere che la norma dell'art. 35-ter, comma 2 appena citata si riferisca a violazioni dell'art. 3 CEDU diverse da quella derivante dal sovraffollamento.”

Siffatta affermazione suscita un rilevante dubbio su quale sia il ristoro applicabile, nel caso di soggetto detenuto in condizioni di sovraffollamento qualora il periodo di violazione accertato sia inferiore a 15 giorni. La Corte pare, infatti, affermare che, se la violazione dell'art.3 CEDU dipende dal sovraffollamento e non da altri fattori, nel caso sopra indicato non dovrebbe aversi alcun tipo di risarcimento: non quello in forma specifica, escluso dall'espresso disposto del comma 1, art. 35-terord.penit.; non quello “succedaneo” del comma 2 della evocata disposizione, perché così dice ora la Corte riunita.

Una tale affermazione, tuttavia, pare difficilmente compatibile con la disciplina positiva e, in particolare, dall'evocato comma 2 dell'art. 35-ter che, contenendo tra l'altro la regolamentazione specifica dell'ipotesi di violazione accertata per un tempo inferiore a 15 giorni, non pone alcuna distinzione circa la genesi della violazione dell'art. 3 CEDU ai fini delle conseguenze risarcitorie. Non pare, dunque, che l'interprete sia autorizzato a introdurre un distinguo (per giunta in malam partem) laddove la legge tale distinzione non opera.

Overruling o conferma di un orientamento esistente?

Un altro profilo particolarmente delicato riguarda la qualificazione della sentenza in esame. Si è posto, infatti, il dubbio se la pronuncia delle Sezioni Unite costituisca, o no, un overruling. Pur al netto dell'autorevolezza della fonte da cui promana, il dictum non pare doversi ascrivere a tale peculiare categoria. Va, invero, considerato, per un verso, che il principio di diritto affermato dalla Corte riunita non ha carattere innovativo ma, anzi, conferma pienamente l'indirizzo seguito dalla giurisprudenza europea (e, segnatamente, dall'orientamento espresso dalla Grande Chambre nella sentenza Mursic e nei suoi numerosi seguiti); indirizzo - per inciso - che già i giudici comuni erano tenuti a seguire in quanto “giurisprudenza consolidata” e che, infatti, la parte prevalente della giurisprudenza interna (come registrano le stesse Sezioni Unite al § 17) già aveva adottato all'indomani del pronunciamento del giudice europeo del 2016. Già tale primo elemento pare negare alla decisione in analisi il carattere della “novità” tale da rappresentare uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”; quest'ultima non pare, inoltre, neppure connotata dal carattere di “imprevedibilità” nel ribaltare un ipotetico precedente indirizzo contrario fino ad allora pacifico o comunque largamente prevalente (è vero, invece, come si è rilevato, il contrario).

Ma vi è un ulteriore motivo che induce a negare alla decisione delle Sezioni Unite il carattere di un overruling: il principio di diritto affermato non introduce, infatti, alcun elemento nuovo nella indicazione dei presupposti per l'accertamento della violazione convenzionale, bensì ri-afferma la valenza, ai fini del computo dello spazio personale a disposizione, di un principio già presente (quello della “facile amovibilità” degli arredi interni) che viene applicato con riguardo ad una specifica tipologia degli stessi - il letto “a castello” – anch'esso già considerato da un orientamento maggioritario della giurisprudenza quale superficie non computabile nello spazio personale a disposizione per il movimento. Il quadro giuridico-normativo, in altri termini, era già formato nelle sue linee essenziali anche anteriormente all'intervento delle Sezioni Unite, il cui dictum – lungi da introdurre un principio o criterio innovativo nella disciplina oggetto di disamina – assegna invece dignità di regula iuris vincolante ad una delle due soluzioni applicative già presenti nel panorama giurisprudenziale validando, per giunta, l'indirizzo prevalente.

Ciò posto, ci si chiede quale sorte potrebbero avere i ricorsi formulati ai sensi dell'art.35-ter ord.penit. volti a riproporre una domanda di indennizzo già negativamente valutata, invocando quale unico elemento di novità l'intervenuta pronuncia delle Sezioni Unite. La questione si pone poiché, come è noto, la disposizione di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p. preclude la riproposizione di una domanda basata sui "medesimi elementi" di altra già rigettata anteriormente al pronunciamento della Corte riunita.

Escludendo, evidentemente, che l'elemento di “novità” possa rinvenirsi in punto di fatto (gli elementi fattuali restano, infatti, i medesimi), la ipotetica nuova istanza dovrebbe fare perno sull'allegazione della illegittimità (sopravvenuta) del criterio di calcolo adottato nella prima decisione (che, in tesi, non abbia detratto lo spazio corrispondente alla “colonna” di letti a castello da quello utilizzabile per il movimento).

In altri termini, verrebbero in rilievo, nel nuovo procedimento, criteri di calcolo dello spazio individuale minimo differenti da quelli adottati nel primo giudizio (ma non certo criteri innovativi); profili, tuttavia, che avrebbero dovuto formare oggetto di rivalutazione nella fase di impugnazione per consolidarsi una volta consumata tale fase con effetto preclusivo di un nuovo riesame.

Tale ricostruzione non pare possa essere messa in predicato dalla diversa soluzione – pur affacciata tra i primi commenti – che, facendo leva sul principio di massima effettività del rimedio richiesta dalla fonte sovranazionale, prospetta una possibile rivalutazione delle istanze pregresse ispirate all'orientamento non condiviso dalle Sezioni Unite. L'evocato principio, invero, se pare giustamente valorizzabile quale criterio guida nella scelta di un'interpretazione tra le molte possibili offerte dalla esegesi, non pare, tuttavia, possedere una forza tale da imporsi sui principi generali che disciplinano, sul piano procedurale, gli effetti di un mutamento di indirizzo giurisprudenziale che non rivesta – come si è osservato - le caratteristiche dell'overruling. Ne consegue, dunque, che per le accennate nuove istanze si configura l'esito dell'inammissibilità.

In conclusione

L'arresto n. 6551/2021 delle Sezioni Unite si presenta all'interprete con un profilo bifronte: se da un lato, infatti, consolida alcuni fondamentali assunti in tema di rimedi risarcitori per la violazione dell'art.3 CEDU, fornendo un sostanziale contributo chiarificatore sull'ambito operativo dei ristori; sulle dinamiche processuali afferenti alla ripartizione dell'onus probandi; sull'oggetto dell'accertamento nelle varie situazioni che si possono presentare al vaglio del giudice; dall'altro lascia in ombra alcuni profili che – sul piano operativo – posso rappresentare altrettanti snodi problematici per il giudice.

Si allude, in particolare, alla delicata questione afferente alla natura del letto singolo, con le connesse difficoltà oggettive che si presentano nella ricostruzione della microrealtà della singola cella ai fini dell'apprezzamento della possibilità di un “agevole movimento” tra gli arredi nonché all'altrettanto difficoltosa ricostruzione in chiave diacronica dell'offerta trattamentale concretamente fruita dall'interessato nel corso del tempo della detenzione.

Altrettanto foriera di dubbi interpretativi è la lettura offerta dalle Sezioni Unite circa l'ambito di operatività del ristoro di cui al comma 2 dell'art. 35-ter ord.penit.

Si tratta, peraltro, di elementi cui la Corte riunita annette estrema rilevanza ma che si prestano ad un apprezzamento marcatamente discrezionale, suscettibile di generare contrasti giurisprudenziali con ricadute negative in termini di oggettiva disparità di trattamento, rese ancor più probabili dalla natura monocratica del procedimento e dalla peculiare parcellizzazione della magistratura di sorveglianza che rende difficoltoso il confronto e la riflessione sulle prassi adottate nei diversi distretti e nei singoli uffici territoriali.

Infine, l'arresto delle Sezioni Unite, nel ribadire l'esigenza di una valutazione complessiva delle condizioni detentive da parte del giudice, impone una riflessione sull'impatto che, sulle medesime e dunque, sul bilanciamento dei rilevanti “fattori” sia positivi che negativi può avere l'attuale situazione di emergenza pandemica e, in particolare, della misura in cui la qualità ed efficacia delle misure adottate dall'Amministrazione per fronteggiare la diffusione del Covid-19 tra la popolazione detenuta possa entrare nel novero degli elementi idonei a integrare il giudizio di sussistenza della violazione della dignità e umanità delle condizioni detentive.

Guida all'approfondimento

Albano-Picozzi, Il doppio standard della Cassazione in tema di condizioni detentive inumane e degradanti, in Cass. Pen., 2018, II;

CAPRIOLI – SCOMPARIN (a cura di), Sovraffollamento carcerario e diritti dei detenuti, Giappichelli 2015;

degl'innocenti-faldi, Il rimedio risarcitorio ex art.35-ter ord.pen., Giuffré 2017;

fiorentin (a cura di), La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, Giappichelli 2019;

Fiorentin-fiorio, Manuale di Diritto Penitenziario, Giuffré F. Lefebvre 2020;

fiorio, sub art.35-ter Ord.penit., in Fiorentin-siracusano (a cura di), L'esecuzione penale, Giuffré F. Lefebvre 2019;

GALLIANI, La Corte europea dei diritti dell'uomo e l'art. 3 della Convenzione. Questioni di metodo e di merito, relazione presentata nell'ambito del corso di formazione permanente Problematiche attuali della giurisdizione di sorveglianza, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura (Cod.: P17008), 8-10 febbraio 2017, Firenze;

GIANFILIPPI, Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un'occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all'apprezzamento del giudice nazionale, www.giustiziainsieme.it, 2 marzo 2021;

MANCA, Carcere e conversione del d.l. Ristori. Punto e a capo sulle (assenti) riforme deflattive da emergenza sanitaria, in Questa rivista, 14 gennaio 2021;

SIMION, I criteri di calcolo dello spazio minimo detentivo e rispetto dell'art.3 CEDU: una nuova pronuncia in attesa delle Sezioni Unite, in Questa Rivista, 11 gennaio 2021;

URBAN, Il diritto del detenuto a un trattamento penitenziario umano a quattro anni dalla sentenza Torreggiani c. Italia, in Riv. Dir. Comparati, 3, 2017.

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