Il reato di omicidio volontario: caratteristiche e tipologie di dolo ammesse

Cristina Ingrao
04 Marzo 2021

Nell'omicidio volontario la volontà dell'agente è costituita dall'animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta...
Massima

Nell'omicidio volontario la volontà dell'agente è costituita dall'animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta.

Si ritiene sussistente la volontà omicida, sotto il profilo del dolo eventuale, quando l'agente abbia posto in essere l'azione con modalità esecutive tali da non escludere l'eventualità di cagionare la morte di un uomo.

Il caso

La vicenda in esame trae origine dall'avvistamento da parte della polizia giudiziaria in servizio presso la Guardia Costiera di una imbarcazione, la sera del 31 luglio 2011, di circa 15-20 metri, che trasportava dei cittadini stranieri alla volta delle coste italiane.

L'imbarcazione veniva soccorsa e scortata fino al porto di Lampedusa, ove si riscontrava la presenza a bordo di 271 migranti, oltre che di 25 cadaveri di cittadini extracomunitari di sesso maschile. I corpi si trovavano in un vano sottocoperta, ammassati e in stato avanzato di decomposizione.

Venivano, quindi, prelevati i cadaveri e il medico responsabile del presidio sanitario di Lampedusa, dott. B.P., ispezionava dall'esterno le salme, rilevando che tutti i cadaveri presentavano segni di putrefazione.

La causa dei decessi appariva riconducibile ad asfissia. Tuttavia, per due soggetti, rimasti non identificati e qualificati quali “clandestino A” e “clandestino B”, lo stesso sanitario rilevava lesioni cranio-encefaliche, che inducevano gli inquirenti a disporre l'autopsia. Dalla stessa emergeva che tali morti erano state causate da arresto cardiocircolatorio secondario a grave trauma cranio-encefalico, determinato da corpo contundente.

I due cadaveri, del resto, non presentavano segni di asfissia e le lesioni riscontrate erano intervenute su soggetti vitali e non già morti.

Su entrambi i cadaveri veniva effettuato, altresì, l'esame tossicologico della carbossiemoglobina, risultata assente, che escludeva con certezza l'asfissia quale causa della morte.

Le operazioni di identificazione dei sopravvissuti dimostravano che i soggetti appartenevano a varie nazionalità (somali, siriani, nigeriani), mentre i deceduti presentavano connotazioni somatiche proprie delle popolazioni del sud dell'Africa e risultavano essere nigeriani.

Con l'ausilio delle s.i.t. rese all'atto dello sbarco dai migranti, la polizia giudiziaria individuava nell'imputato M.M.M. e in ulteriori tre prevenuti, nei cui confronti si procedeva separatamente, gli scafisti che avevano condotto l'imbarcazione dalla Libia alla volta di Lampedusa e che avevano monitorato il viaggio per mare.

Il principale apporto conoscitivo alla ricostruzione dei tragici eventi verificatisi durante la traversata è stato fornito dalle dichiarazioni di alcuni dei superstiti, da cui era stato possibile accertare che il natante salpava dal porto libico di Zanzour (Tripoli) nel primo pomeriggio del 30 luglio 2011. La sistemazione a bordo dei viaggiatori era avvenuta ad opera di soggetti con divise militari di nazionalità libica, all'atto dell'arrivo al porto dei migranti, che nelle fasi di imbarco avevano saldato il prezzo del trasporto.

In particolare, alcuni viaggiatori erano stati sistemati nel vano motore e circa una sessantina di migranti nigeriani nel piccolo locale, attiguo al vano motore, di deposito del ghiaccio e del pescato, da dove molti di essi, fin da subito, avevano tentato di uscire per l'impossibilità respirare. Solo alcuni, tuttavia, erano riusciti nell'intento; altri, invece, non erano riusciti ad eludere la sorveglianza del personale di bordo, che, attraverso calci e con un bastone, ricacciava indietro i riottosi.

Tutti i dichiaranti riferivano analogamente del viaggio, dell'entità del prezzo corrisposto per lo stesso, delle modalità attraverso cui avveniva l'imbarco e delle violenze perpetrate durante la traversata. Inoltre, riconoscevano nell'imputato uno dei membri dell'equipaggio alla guida dell'imbarcazione, nonché colui che impediva ai migranti ammassati nel vano sottocoperta di fuoriuscirne, a tale scopo percuotendoli.

Infine, i dichiaranti precisavano che sulla barca, di 20 metri, venivano collocati circa 270 individui; tra questi, sorte peggiore toccava a quelli di nazionalità nigeriana, i quali venivano collocati in un vano della stiva dell'imbarcazione, ampio circa 8 metri quadrati, ove tutti coloro i quali non riuscivano a fuggire, nel corso della traversata, incontravano la morte.

La questione

Il caso in esame attiene al reato di omicidio volontario, contestato all'imputato.

L'omicidio, più in generale, rientra nell'ambito dei reati contro la persona e in relazione all'elemento soggettivo che lo sorregge se ne distinguono diverse tipologie. Sono tutte previste Titolo XII del Libro II del codice penale. L'omicidio volontario, in particolare, è disciplinato dall'art. 575 c.p. Ciò posto, con riguardo al caso di specie ci si chiede: quali sono le caratteristiche di tale delitto? È compatibile con il dolo eventuale? Che differenza c'è fra il delitto di omicidio volontario e quello preterintenzionale?

La soluzione giuridica

La Corte di Assise di Agrigento, con la sentenza in esame, condanna alla pena dell'ergastolo l'imputato per il reato allo stesso ascritto.

Tale sentenza offre molti spunti di approfondimento per l'attualità del tema trattato, occupandosi della tragica condizione dei migranti che scappano dai loro Paesi di origine alla ricerca di una vita migliore in Europa, ma che spesso non riescono a superare il faticosissimo viaggio verso la loro “terra promessa”, incontrando la morte.

Nel caso di specie, in particolare, l'imputato è condannato per il reato di omicidio aggravato di 25 migranti, ma per giungere a tale soluzione la Corte, dopo aver affrontato e risolto tutta una serie di questioni prettamente processuali, svolge una approfondita disamina del delitto di cui all'art. 575 c.p., al fine accertare la sussunzione della fattispecie concreta in quella astrattamente prevista dal legislatore.

Il delitto di omicidio

L'oggetto di tutela della fattispecie prevista dall'art. 575 c.p. è la vita umana, la quale viene tutelata in modo esteso, attraverso la previsione di un reato a forma libera e l'utilizzo di termini aspecifici per designare il soggetto attivo e passivo di tale reato (rispettivamente denominati “chiunque” e “uomo”).

Il bene “vita” è ritenuto il presupposto per il godimento di ogni altro diritto riconosciuto alla persona; tutelato non solo nell'interesse dell'individuo, quale diritto supremo e personalissimo, ma anche della collettività, posto che la vita del singolo assume un valore superindividuale in considerazione dei doveri che lo stesso ha nei confronti dello Stato e del tessuto sociale ove si svolge la sua esistenza.

L'omicidio, quanto alla struttura, è una fattispecie di evento, causalmente orientata, a forma libera. Ciò corrisponde, come accennato, alla volontà del legislatore di offrire al bene una tutela piena, posto che i beni giuridici di alto rango vengono tutelati “a tutto tondo”, mediante, da un lato, la rinuncia a selezionare specifiche modalità attraverso cui può essere recata l'offesa, e, dall'altro, attribuendo rilevanza alla causazione pura e semplice dell'evento.

Si pone, di conseguenza, il problema di individuare la condotta del delitto di omicidio che è stata tipizzata in funzione della sua efficienza causale rispetto all'evento morte.

La fattispecie di omicidio si realizza quando si cagiona la morte di un uomo; morte che segna la fine della persona e la cessazione della tutela normativa che gli è riconosciuta.

È, dunque, di estrema importanza fissare il momento in cui si verifichi la morte, in quanto è solo con la produzione di tale evento che il reato si consuma.

A questo ha provveduto la l. n. 578/1993, recante “Norme per l'accertamento e la certificazione di morte”, che ha, per la prima volta, disciplinato tale problematica in modo unitario.

In particolare, l'art. 1 della suddetta legge stabilisce che la morte “si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo”, cioè dell'attività del sistema nervoso centrale.

La causazione della morte di un uomo è, peraltro, l'elemento comune delle previsioni incriminatrici contemplate nel Titolo XII del Libro II del codice penale (omicidio doloso, colposo, preterintenzionale e del consenziente, reato di morte come conseguenza di altro delitto, infanticidio in condizione di abbandono materiale e morale, istigazione o determinazione dell'altrui suicidio). La differenziazione fra tali fattispecie opera successivamente, nella fase di indagine sull'elemento soggettivo. Risulta, infatti, comune l'accertamento del nesso di causalità che costituisce la prima tappa nel processo di ascrizione di responsabilità.

In definitiva, è, pertanto, l'elemento psicologico - il dolo generico - a distinguere l'omicidio volontario dalle altre incriminazioni di omicidio.

Le diverse tipologie di dolo

Come esposto, l'elemento soggettivo è quello che distingue l'omicidio volontario dalle altre incriminazioni di omicidio.

Nella pronuncia in commento si procede, pertanto, all'analisi dello stesso.

In essa, in primo luogo, si precisa come la giurisprudenza di legittimità, conformemente alla dottrina, afferma che il dolo, quale coscienza e volontà del fatto tipico, deve sussistere al momento dell'azione e perdurare per tutto il tempo in cui l'azione stessa rientra nel potere di signoria dell'agente. Di conseguenza, ai fini dell'imputazione dolosa dell'evento, la volontà deve abbracciare la condotta tipica fino all'ultimo atto dotato di rilievo causale.

Inoltre, la stessa giurisprudenza precisa a quali condizioni l'evento morte possa ritenersi preveduto e voluto come conseguenza dell'azione o omissione del soggetto, operando, a tal fine, delle distinzioni.

Posto che la volontà dolosa può essere caratterizzata da diversi livelli di intensità (Cass. pen., Sez. Un., 12 ottobre 1993, n. 748), si afferma che la stessa può dar luogo alla configurabilità del c.d. dolo intenzionale quando si persegue l'evento come scopo finale della condotta o come mezzo necessario per ottenere un ulteriore risultato; del c.d. dolo diretto, invece, quando l'evento non costituisce l'obiettivo della condotta, ma l'agente lo prevede e lo accetta come risultato certo o altamente probabile di quella condotta. Infine, si configura il c.d. dolo eventuale, quando l'agente agisce accettando il rischio di verificazione dell'evento, visto, nella sua rappresentazione psichica, come una delle possibili conseguenze della condotta.

Quanto alla distinzione tra dolo intenzionale e diretto, nella pronuncia si richiama quella giurisprudenza che precisa che “la volontà omicida deve ritenersi sussistente non soltanto quando l'agente abbia agito con l'intenzione di uccidere, ma anche quando egli si sia rappresentatol'evento morte come conseguenza altamente probabile della sua condotta che, ciononostante, abbia posto in essere” (Cass. pen., sez. I, 30 novembre 1995, n. 12785), “anche se non integra lo scopo finale della sua azione, sicché il soggetto non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta il verificarsi dell'evento” (Cass. pen., sez. I, 29 gennaio 2008, n. 12954). Si riscontra, invece, il dolo eventuale “del delitto di omicidio allorquando l'agente, pur non mirando ad un evento mortale quale proprio obiettivo intenzionale, abbia tuttavia previsto come probabile - secondo un normale nesso di causalità - la verificazione di un siffatto evento lesivo, accettandone, con l'agire in presenza di tale situazione rappresentarsi, il rischio” (Cass. pen., sez. I, 13 marzo 2013, n. 24217).

Pertanto, nei casi caratterizzati dalla rappresentazione del fatto quanto meno come altamente probabile l'autore non si limita ad accettare il rischio dell'evento, ma accetta anche l'evento in sé.

Emblematicamente è stato ravvisato il dolo eventuale in capo al soggetto “che abbia partecipato all'organizzazione del trasporto illegale di immigrati clandestini procurando l'imbarcazione fatiscente sulla quale sia stato caricato un numero eccessivo di persone, qualora, nel porre in essere la condotta ad altro scopo, si sia rappresentato la concreta possibilità del verificarsi di queste ulteriori conseguenze, per effetto dell'affondamento del battello o dello scontro tra imbarcazioni, ed abbia agito accettando il rischio di cagionarle” (Cass. pen., sez. I, 7 aprile 2010, n. 16193).

Il dolo eventuale ruota attorno al concetto di previsione e correlativa accettazione del rischio connesso. Così la giurisprudenza di legittimità ritiene che prevedere concretamente la possibile realizzazione di un risultato non voluto e, ciononostante, agire non rinunciando in nessun modo al compimento dell'azione criminosa, significhi accettazione da parte dell'agente del relativo rischio e, quindi, volontarietà di ciò che non si vuole direttamente (Cass. pen., sez. I, 24 settembre 2014, n. 36949).

Si considerano voluti non solo i risultati che l'agente ha posto come fine ultimo dell'azione, ma anche quelli che, senza costituire detto fine, sono previsti quale conseguenza del proprio comportamento. Questo si verifica non solo quando tali risultati appaiono certi, ma anche quando appaiono probabili o anche solo possibili, se malgrado ciò l'agente, perseverando nella sua azione, ne accetti il rischio (Cass. pen., sez. I, 29 gennaio 2008, n. 12954), così dando un'adesione di volontà al loro verificarsi.

Alla luce di ciò, si ritiene, quindi, sussistente la volontà omicida, sia pure sotto il profilo del dolo eventuale, quando l'agente abbia posto in essere l'azione con modalità esecutive tali da non escludere l'eventualità di cagionare la morte di un uomo.

Modalità di accertamento del dolo

Dopo aver chiarito la portata dell'elemento soggettivo del dolo in relazione alla configurabilità di un reato e distinto fra le diverse tipologie di dolo, nella sentenza in esame si passa all'analisi delle modalità di accertamento dello stesso elemento soggettivo.

Svolgere tale accertamento non è semplice, non essendo facile definire in quali termini psicologici un risultato della condotta possa essere attribuito al soggetto agente. Esclusa la confessione, l'unico modo per provare fatti psichici è, infatti, dato dall'utilizzazione di tecniche di ricostruzione indiretta.

Generalmente il problema della prova dei fatti “non materiali” rinvia a quello della prova inferenziale, nella quale, appunto, il fatto da provare viene tipicamente derivato da altri fatti, idonei a fondare argomenti a favore dell'esistenza di un fatto. Di conseguenza, “la prova del dolo omicida deve ritenersi affidata normalmente e prevalentemente alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza” (Cass. pen., sez. I, 6 giugno 1989, n. 2534).

Ciò posto, è costante in giurisprudenza l'affermazione secondo la quale la prova della volontà omicida va ricavata da elementi oggettivi enucleati:

- nelle concrete modalità della condotta prima e dopo il delitto;

- nella natura del mezzo usato;

- nelle parti del corpo aggredite dal colpevole;

- nella reiterazione del colpo;

- nella distanza tra soggetto attivo e passivo;

- nella parte del corpo presa di mira e quella concretamente attinta;

- in tutti quei dati che, secondo le comuni regole di esperienza e dell'id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico.

Pertanto, la presenza dell'animus necandi può ricavarsi dalla contemporanea ricorrenza di tali elementi. Quanti più ve ne sono nel caso concreto, tanto più sarà fondato, secondo le regole di comune esperienza, il giudizio sulla presenza di tale elemento. Detta ricorrenza, peraltro, è idonea a fondare una presunzione precisa e concordante (art. 192 c.p.p.) per la sussistenza della volontà omicida.

Tuttavia, a ben vedere, anche un unico colpo può essere da solo sintomatico della volontà di uccidere, tenuto conto della concreta circostanza dell'azione e dalla oggettiva idoneità della stessa a cagionare la morte, e ciò con riguardo ai mezzi adoperati e alla modalità dell'aggressione (Cass. pen., sez. I, 16 giugno 2009, n. 26715). Pertanto, è ininfluente, ai fini dell'accertamento dell'animus necandi, la mancata reiterazione dei colpi, “ove sia accertato che, per le modalità operative e per lo strumento utilizzato, l'azione era idonea a causare la morte della vittima, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell'agente” (Cass. pen., sez. I, n. 27 novembre 2013, n. 51056).

Peraltro, in relazione alla micidialità del mezzo usato, si è ritenuto che tale può essere anche un corpo contundente o un bastone se adoperato con estrema violenza e vigoria, in direzione di una parte vitale del corpo, quale è il capo della vittima (Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 1982, n. 968).

La distinzione fra omicidio volontario e preterintenzionale

Ai fini della risoluzione del caso concreto, nella pronuncia, poi, si procede a delineare il criterio distintivo tra omicidio volontario e preterintenzionale.

Esso, come accennato, risiede nell'elemento psicologico, in quanto nell'ipotesi della preterintenzione la volontà dell'agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima con esclusione assoluta di ogni previsione dell'evento morte (Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 2013, n. 4425); mentre nell'omicidio volontario la volontà dell'agente è costituita dall'animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta (Cass. pen., sez. I, 22 dicembre 2017, n. 3619).

Perché il fatto possa essere ascritto al soggetto agente a titolo di preterintenzione deve, pertanto, realizzarsi una divergenza assoluta tra il risultato voluto dall'agente e quello effettivamente realizzato.

La giurisprudenza di legittimità, per l'effetto, esclude la preterintenzione qualora l'evento morte si sia affacciato alla mente del soggetto agente anche come meramente eventuale (Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 2013, n. 4425); e, coerentemente, ritiene sussistente la configurabilità del dolo omicidiario nella forma del dolo alternativo, anziché l'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale, con riferimento all'omicidio realizzato con violenti colpi alla schiena e al torace e al pestaggio di parti vitali del corpo della vittima (Cass. pen., sez. I, 8 giugno 2007, n. 28175).

La qualificazione giuridica del fatto concreto

Nella sentenza in esame, dopo aver distinto fra le diverse tipologie di dolo, chiarito le non sempre facili modalità di accertamento dello stesso ed esposto le differenze fra omicidio volontario e preterintenzionale, la Corte di Assiste interessata passa alla qualificazione giuridica del fatto concreto.

Innanzitutto, viene dichiarata la nullità della sentenza originariamente emessa a carico dell'imputato, essendo stati ritenuti i dati raccolti dimostrativi della ricorrenza, in relazione alle morti di 23 su 25 migranti, non già del più lieve reato di cui agli artt. 586, 589, comma 4, c.p. (morte come conseguenza non voluta di altro delitto) originariamente contestato, bensì del diverso e più grave reato di omicidio volontario plurimo. E ciò in quanto la fattispecie di cui all'art. 586 c.p. presuppone sempre che la morte sia una conseguenza “non voluta” della condotta.

Orbene, nel caso di specie, le circostanze esposte dimostrano come gli agenti, pur di realizzare l'evento voluto (il trasporto dei migranti in condizioni disumane), e pur essendosi rappresentati le morti per asfissia con un grado di probabilità che rasentava la certezza (a causa dell'angustia, del sovraffollamento e delle esalazioni del vicino motore), abbiano ugualmente collocato e trattenuto i migranti presenti nella stiva, nonostante le loro proteste e i tentativi di fuga, riducendo in tal modo anche la già scarsa concentrazione di ossigeno nel vano e frapponendo un impedimento al normale espletamento della funzione respiratoria dei soggetti trasportati e dei livelli di saturazione di ossigeno indispensabili alla loro sopravvivenza.

Stando così le cose, secondo la Corte, gli agenti, quanto meno, accettavano le inevitabili conseguenze letali, che da ciò sarebbero derivate, pur di raggiungere il risultato criminale prefissato, così che le morti ricadono nell'ambito della volontà dolosa, quanto meno, nella forma del c.d. dolo eventuale.

In questi casi, quindi, l'agente è chiamato a rispondere del reato di omicidio in concorso con altro delitto a titolo di dolo eventuale, una volta accertato che l'evento mortale, riconducibile in via diretta alla condotta volontariamente posta in essere, sia comunque prevedibile, secondo un normale nesso di causalità, e, nonostante ciò, si sia accettato il rischio del suo avverarsi, pur di portare a termine l'azione criminosa intrapresa e programmata (nella specie il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, per il quale l'imputato era già stato dichiarato responsabile con sentenza irrevocabile di condanna).

Si tratta, infatti, di un caso di dolo eventuale laddove l'agente agisce nell'indifferenza per il verificarsi dell'evento morte, che egli intravede come conseguenza prevedibile della sua azione, con un grado di previsione concreta prossima alla certezza, perché l'evento più grave è ricollegabile, quale conseguenza causale ordinaria, alla sua condotta. Anzi, nella specie, la circostanza che la morte per asfissia si sia verificata per effetto del mantenimento con violenza di dette condizioni di trasporto, cui l'agente, invece, avrebbe potuto personalmente porre rimedio in ogni momento, dimostra la soggettiva certezza del verificarsi dell'evento più grave, tale da fare rasentare all'elemento psicologico, posto a base delle morti, l'area del più grave dolo c.d. diretto, quanto meno degli ultimi soggetti periti per asfissia.

Invero, ogni dubbio circa la letalità della condotta di mantenimento coatto sottocoperta dei migranti è stato fugato dai primi decessi per asfissia, che l'imputato, preposto alla guardia del boccaporto, non poteva ignorare e che, nondimeno, non lo hanno condotto a recedere alla sorveglianza della botola, dimostrando la sua adesione dolosa alla causazione dei decessi.

Detta più grave forma di dolo, poi, si legge nella sentenza, ricorre in relazione alla morte dei due clandestini denominati “A” e ”B”, il quali, come esposto, sono morti per effetto delle lesioni inferte per impedire loro di uscire dalla botola.

Orbene, nella specie, l'azione è direttamente lesiva, oggettivamente volontaria e tipicamente preordinata a cagionare la morte, ove si abbia riguardo alle sedi vitali dei colpi, (il capo per entrambe le vittime), alla forza inferta con un'arma rudimentale, alla consapevolezza che le lesioni dirette contribuivano a debilitare la funzionalità respiratoria dei soggetti colpiti, già compromessa dalle condizioni del luogo dal quale le due vittime cercavano di fuggire.

Pertanto, anche con riguardo specifico a queste morti, secondo la Corte, ricorre il delitto di omicidio volontario, posto che le emergenze esposte sono espressione del dolo omicidiario a base delle condotte poste in essere dall'imputato. Escludendosi, per tale via, la ricorrenza del delitto di omicidio preterintenzionale, ove la morte viene addebitata quale conseguenza causale, non voluta, di una condotta intenzionalmente diretta a ledere, nei termini chiariti.

L'aggravante teleologica e l'insussistenza di cause di giustificazione

Infine, all'imputato vengono anche contestate l'aggravante teleologica e l'insussistenza di cause di giustificazione.

Come è noto, il codice penale del 1930 ha inteso dare rilievo a particolari evenienze del fatto di omicidio facendole confluire in un sistema di circostanze aggravanti. Sono state collocate, quindi, all'interno degli artt. 576-577 c.p., specifiche circostanze aggravanti dell'omicidio, ad efficacia speciale, la cui valenza si riflette sul tipo e sulla quantità di pena comminata.

Con riferimento all'omicidio, l'art. 576, n. 1, c.p. richiama l'aggravante contemplata dall'art. 61, n. 2, c.p. Si tratta della c.d. circostanza della connessione teleologica e della connessione consequenziale. Nella specie, la circostanza si riferisce unicamente all'omicidio, che è il reato mezzo in senso lato, inteso quale mezzo per la perpetrazione di altro reato (fine) o per il raggiungimento di altro scopo.

Tale circostanza aggravante, anche se comune, si considera ad effetto speciale quando riferita al delitto di omicidio, in quanto essa determina la pena in maniera autonoma (Cass. pen., sez. I, 31 maggio 1985, n. 1720). La ragione dell'inasprimento sanzionatorio è ravvisata nella maggiore pericolosità di colui il quale, pur di attuare il suo intento criminoso, non arretra di fronte alla necessaria o eventuale commissione del reato-mezzo, per cui presupposto unico e indispensabile della circostanza è la consapevolezza, da parte del colpevole, della pluralità delle risoluzioni criminose e della loro coordinazione finalistica (Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 1984, n. 4041).

Le ipotesi contemplate dall'art. 61, n. 2, c.p. sono rivelatrici di una spiccata intensità del dolo dell'autore e, per ciò, di una sua rilevante attitudine criminosa e pericolosità.

Nel caso di specie, l'imputato ha commesso gli omicidi di 25 migranti al fine di eseguire, portandolo a compimento, l'ulteriore reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di cui all'art. 12 D. lgs. n. 286/1998, in relazione al quale è, infatti, stato dichiarato colpevole con autorità di cosa giudicata. Ricorre, dunque, la connessione teleologica nei termini esposti, e la commissione di un reato al fine di eseguirne un altro.

Alla luce delle emergenze fattuali, è indubbio che l'imputato nutrisse la consapevolezza che l'un reato fosse il mezzo per eseguire l'altro, posto che la volontà dell'agente, al momento della consumazione del reato mezzo (omicidio), era effettivamente diretta alla commissione del reato scopo (favoreggiamento dell'immigrazione clandestina), essendo stato quest'ultimo oggetto di rappresentazione da parte dello stesso soggetto attivo (Cass. pen., sez. VI, 18 novembre 2009, n. 48552).

Per converso, nessuna causa di giustificazione può essere invocata dal prevenuto, compreso lo stato di necessità.

Invero, l'art. 54 c.p. individua quali presupposti per la sua applicabilità:

- una situazione di pericolo (la cui causa non sia voluta dall'agente), che deve consistere nella minaccia di un danno alla persona;

- la necessità di salvarsi;

- l'impossibilità di salvare il bene in pericolo con altra condotta alternativa avente analoga idoneità in concreto.

Orbene, nel caso in esame, anche a volere ritenere provata l'esposizione dell'imputato a grave ed attuale pericolo di vita nel suo Paese natio, difetta il requisito dell'inevitabilità altrimenti del pericolo. Infatti, a ben vedere, l'imputato, per sfuggire a tale pericolo, avrebbe potuto limitarsi a prendere parte al viaggio, senza la necessità di cooperare volontariamente con i suoi organizzatori alla sua realizzazione, peraltro con modalità organizzative inumane, che hanno determinato la morte di 25 clandestini, nelle modalità descritte.

In conclusione

La Corte di Assise di Agrigento dopo aver esposto le caratteriste del delitto di omicidio, analizzato il suo elemento soggettivo, distinto tra le diverse tipologie di dolo e qualificato giuridicamente il fatto concreto, ha concluso nel senso della condanna dell'imputato per il reato allo stesso contestato. In particolare, nel caso di specie, l'agente risponde, a titolo di dolo eventuale, per omicidio in concorso con altro delitto. Ciò in quanto le prove raccolte nel corso del processo dimostrano come lo stesso, pur di realizzare l'evento voluto, cioè il trasporto dei migranti in condizioni disumane, e pur essendosi rappresentato le morti per asfissia con un grado di probabilità che rasentava la certezza, abbia ugualmente collocato e trattenuto i migranti presenti nella stiva, nonostante le loro proteste e i tentativi di fuga. Inoltre, gli viene riconosciuta la c.d. aggravante teleologica, in quanto l'imputato commetteva i detti omicidi al fine di eseguire, portandolo a compimento, l'ulteriore reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, in relazione al quale era già stato dichiarato colpevole. Ravvisandosi, dunque, la connessione teleologica richiesta dalla suddetta aggravante.

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