Tortura di Stato: riflessioni ai margini delle prime sentenze di condanna nei confronti di Pubblici Ufficiali

Giulia Simion
11 Marzo 2021

La tortura sembrerebbe evocare una prassi ormai desueta, tipica di epoche arcaiche. In realtà, si tratta di un fenomeno ininterrotto, contingente ed attuale. Questa la ragione per cui il relativo divieto è ampiamente contemplato in numerosi strumenti pattizi di diritto sovranazionale...
Premessa

A seguito dell'introduzione nel codice penale del reato di tortura con la l. n. 110/2017, la fattispecie è stata ritenuta sussistente unicamente in relazione ad episodi verificatesi tra privati. Per tale ragione, può essere definita storica la recente sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale di Ferrara il 15 gennaio 2021, con cui è stato condannato un agente di Polizia Penitenziaria per il delitto in questione: seppur in primo grado, per la prima volta in Italia un pubblico ufficiale è stato dichiarato colpevole ai sensi dell'articolo 613-bis, comma 2, c.p., così cristallizzando - finalmente - l'affermazione dell'habeas corpus.

All'antesignana decisione ha fatto seguito una seconda pronuncia sul contestato reato di tortura, formulata in data 17 febbraio 2021 dal GUP presso il Tribunale di Siena che ha giudicato responsabili dieci agenti di Polizia Penitenziaria del carcere di San Gimignano.

La tortura di stato: osservazioni preliminari

La tortura sembrerebbe evocare una prassi ormai desueta, tipica di epoche arcaiche. In realtà, si tratta di un fenomeno ininterrotto, contingente ed attuale. Questa la ragione per cui il relativo divieto è ampiamente contemplato in numerosi strumenti pattizi di diritto sovranazionale, tra cui è opportuno richiamare innanzitutto la Convenzione contro la tortura ed altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti, adottata dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1984, nonché l'art. 3 Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo del 1950 e la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti del 1987.

Sebbene lo Stato italiano abbia ratificato i diversi strumenti pattizi, fino al 2017 una profonda lacuna normativa ha contraddistinto l'ordinamento nazionale: l'unico obbligo di incriminazione era previsto dall'art. 13, comma 4, Cost. che punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” ed avente l'obiettivo di apprestare tutela al bene giuridico della dignità umana di una determinata categoria di individui.

Il grave vuoto normativo non era connesso ad un'assente esigenza di introdurre un delitto ad hoc; viceversa, si annoverano diversi episodi di violenza qualificabili come tortura, la cui manifestazione è perlopiù connessa a vicende in cui il carnefice è colui che ricopre una posizione qualificata. Era così nel XX secolo, quando negli anni Settanta-Ottanta operava una squadra speciale dedita alle pratiche di tortura nei confronti dei brigatisti, e così continua ad essere oggi - e le recenti condanne lo dimostrano - dove il torturatore potenziale è il pubblico ufficiale, che, parallelamente e paradossalmente, ha il compito istituzionale di inquisire sui casi di maltrattamenti connotati da crudeltà. La maggiore dimostrazione della tortura c.d. di Stato è rappresentata dalle vicende di Genova del 2001 e, sebbene siano trascorsi vent'anni da quella che è stata definita “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, gli episodi di tortura “verticali” non si sono arrestati. Non meno amari, infatti, i fatti accaduti nell'Istituto di Asti nel 2004, o le vicende, tra le tante, di Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Il reato negato e il tortuoso iter legislativo

L'inosservanza della penalizzazione della tortura fu largamente giustificata dal Governo italiano, sostenendo, in primo luogo, che la ratifica della Convenzione contro la tortura del 1984 sarebbe stata sufficiente ad introdurre il reato, in virtù dell'efficacia self executing della stessa e della precisione definitoria di cui all'art. 1 della medesima.

In secondo luogo, si ritenne che un livello sufficiente di repressione fosse garantito dalla copertura normativa dei delitti già previsti nel codice penale. Per i reati propri la giurisprudenza invocò spesso l'art. 608 c.p., rubricato “abuso di autorità contro arrestati o detenuti”, soprattutto in ragione della particolare qualifica del soggetto passivo; mentre per i reati comuni il richiamo fu agli artt. 581, 582, 610 e 612 c.p., ma particolarmente sovrapponibile è risultata la fattispecie di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. Tale ultima disposizione, prevedendo il verificarsi di sofferenze fisiche e morali, fu utilizzata per sopperire alla mancanza di una disciplina ad hoc: il delitto veniva integrato dalla “reiterata e sistematica condotta violenta, vessatoria, umiliante e denigrante da parte degli agenti la polizia penitenziaria nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia”, in questi termini si è espressa la Corte di Cassazione nel 2012 (Cass. pen., sez. VI, 21 maggio 2012, n. 30780).

L'intero mosaico di disposizioni fu più volte segnalato dalla dottrina come insufficiente, in quanto l'elenco delle fattispecie invocate deve essere confrontato con gli elementi costitutivi della figura di tortura delineati sul piano internazionale. Il più delle volte si tratta di reati comuni che prevedono il regime di procedibilità a querela di parte e spesso il riferimento all'aspetto materiale della violenza psicologica è assente. La debolezza principale riguarda il quadro sanzionatorio, che prevede pene miti e per questo destinate a ricadere entro l'ambito applicativo dei “meccanismi di fuga” dalla sanzione penale, tra i quali la sospensione condizionale della pena; peraltro, all'insieme delle norme prese in considerazione viene applicato il regime favorevole della prescrizione, contrariamente a quanto previsto dagli strumenti pattizi.

Fu proprio il delineato sistema a comportare l'impunità di numerose condotte, basti pensare a ciò che è accaduto successivamente ai fatti di Genova ed Asti: beneficiari dell'istituto della prescrizione gli imputati per i primi, penalmente assolti gli agenti della polizia penitenziaria per i secondi. Questa la dimostrazione dell'ineffettività della risposta sanzionatoria dell'ordinamento a fronte di gravissime violazioni dei diritti fondamentali della persona a cui hanno fatto altresì seguito plurime condanne da parte della Corte di Europea dei Diritti dell'Uomo (ex multis, Corte E.d.u., 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia; Corte E.d.u., 26 ottobre 2017, Cirino e Renne c. Italia; Corte e.d.u., 26 ottobre 2017, Azzolina ed altri c. Italia,).

Non meno complesso fu poi l'iter parlamentare della l. n. 110/2017, introduttiva del reato di cuiall'art. 613-bis c.p., seguito da quello di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter c.p.). L'approvazione della legge si raggiunse con molta difficoltà e uno dei principali ostacoli riguardò proprio il timore di interpretare la criminalizzazione di tale tipologia di maltrattamenti come un segnale di diffidenza nei confronti delle Forze dell'Ordine. Durante il percorso legislativo emerse la volontà di restringere il campo applicativo della nuova disposizione, con l'obiettivo di non delimitare l'esercizio dei pubblici poteri ai fini investigativi e di polizia. Significativo, in tal senso, è stato l'intervento del Segretario Generale del Sindacato Autonomo di Polizia (SAP), il quale sottolineò che l'introduzione del crimine sarebbe figurata come “un manifesto del partito anti Polizia”.

La configurazione del delitto di cui all'art. 613-bis, comma 2, c.p.

Alla luce di quanto appena considerato è possibile comprendere l'attuale struttura del reato, dissonante rispetto a quella delineata sul piano internazionale che mira ad una repressione della tortura commessa da un soggetto qualificato. La fattispecie di cui all'art. 613-bis c.p., definita “a disvalore progressivo”, ingloba dapprima la tortura quale reato comune e solo successivamente quello della tortura di Stato, commessa da un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Di conseguenza, il nucleo essenziale del reato è racchiuso nel primo comma, che punisce chiunque cagioni, mediante violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che comunque si trovi in condizioni di minorata difesa, ma soltanto se il fatto è commesso con più condotte o se lo stesso può definirsi trattamento inumano e degradante.

Deputato alla punizione della tortura di Stato, invece, è il secondo comma, che prevede un aumento del quadro sanzionatorio: esso dispone che, se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, si applica la pena della reclusione da cinque a dodici anni.

Quest'ultimo comma è stato oggetto di discussioni inerenti alla sua natura giuridica.

Prima facie, si tratterebbe di una circostanza aggravante – indipendente -, così com'è stato affermato da un recente arresto della Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208): il reato è qualificato come comune, accompagnato da un aggravamento afflittivo se la tortura è commessa da un soggetto qualificato ex artt. 357 e 358 c.p., che abusa dei propri poteri o viola i doveri inerenti alla funzione, comunque considerando che i funzionari statali sono legittimati ad un utilizzo della forza proporzionato al compimento delle proprie funzioni.

La qualificazione del secondo comma in termini di aggravante determina l'assoggettamento al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., che può comportare la neutralizzazione dell'aumento di pena previsto a causa di eventuali circostanze attenuanti equivalenti o prevalenti. Il rischio è che la disciplina sia inefficiente ed inadeguata rispetto agli obblighi imposti dalla Convenzione contro la tortura, che all'art. 4 richiede espressamente un'adeguata sanzione degli atti dei pubblici ufficiali. Da tale criticità si sono sviluppate diverse interpretazioni dottrinali che propendono per una natura autonoma del reato in discussione.

Innanzitutto, si è andato sottolineando come l'ubi consistam della tortura comune e di Stato non coincida, dal momento che il cuore dell'offesa risiede, da una parte, nella violazione di una relazione di affidamento tra privati e, dall'altra, nel tradimento della funzione pubblica conferito all'autorità.

In secondo luogo, un esame complessivo della fattispecie permette di osservare che la causa esimente prevista al terzo comma, che sancisce la non applicabilità del comma precedente nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, risulterebbe inapplicabile qualora non si considerasse il secondo come delitto autonomo. Infatti, l'esenzione dell'operatività della tortura di Stato non potrebbe funzionare su una circostanza aggravante, poiché il fatto tipico di base non sussisterebbe. Ulteriormente, le circostanze del quarto e quinto comma, che prevedono aumenti di pena - qualora dal fatto derivino le lesioni o la morte della vittima - calcolati in misura sulle “pene di cui ai commi precedenti”, depongono per un rifiuto circa l'ipotesi di natura autonoma, poiché ciò significherebbe sostenere l'esistenza di un'aggravante dell'aggravante.

In conclusione, secondo la dottrina sarebbe stato preferibile introdurre due autonomi delitti, al fine di evitare problemi interpretativi, anche in relazione alle istanze sovranazionali che mirano alla criminalizzazione della tortura posta in essere dagli “State agents”. In alternativa, la Riforma Orlando, introduttiva dell'espresso divieto di bilanciamento ex art. 69 c.p. per alcune fattispecie di reato, avrebbe dovuto includere anche l'art. 613-bis c.p. in modo da salvaguardare l'efficacia repressiva della disposizione.

Prime applicazioni della tortura di stato

“Il reato di tortura oggi esiste, col forte sospetto che sia stato calibrato per non esistere”: è così che si può riassumere un giudizio complessivo sulla legge, ed in particolare sull'art. 613-bis. Tuttavia, a dispetto delle motivate critiche mosse alla fattispecie, tra cui l'assente qualifica di reato proprio, le due pronunce in commento riequilibrano le scelte operate dal legislatore. In particolare, la natura di fattispecie autonoma del reato di tortura di Stato viene affermata nella pronuncia emessa dal Gup di Siena, che ha condannato con rito abbreviato (con pene che vanno dai 2 anni e 8 mesi ai 2 anni e 3 mesi) dieci agenti di Polizia Penitenziaria per fatti qualificati come tortura – e lesioni aggravate - commessi nel 2018 ai danni di un detenuto tunisino durante un trasferimento coatto di cella nella Casa di Reclusione di San Gimignano. Si tratta di una parte dell'indagine che coinvolge quindici agenti di Polizia Penitenziaria e che vedrà come imputati, in fase dibattimentale, gli altri cinque pubblici ufficiali, considerati i mandanti del delitto.

Con le richiamate decisioni finalmente si riconosce il valore della dignità umana ai detenuti, rifiutando quel tentativo di legalizzare la tortura, che da anni si cercava di portare a compimento, in virtù di un interesse collettivo superiore, quale la sicurezza pubblica, da soddisfare a discapito dei diritti individuali che, seppure fondamentali, si ritengono sacrificabili.

Traguardo altresì sancito dal riconoscimento del risarcimento del danno per la persona offesa dal reato di tortura nella misura di 80.000 euro, l'intera somma richiesta dalla difesa.

In conclusione

L'introduzione del reato di tortura ottempera sicuramente all'obbligo di criminalizzazione internazionale e, ancor prima, costituzionale, ma risponde altresì alla necessità di penalizzare fatti che nel passato sono caduti nell'oblio a causa dell'insufficiente quadro normativo.

La tortura è un crimine inaccettabile in un Paese democratico, a maggior ragione se commessa in contesti caratterizzati dalla posizione di debolezza in cui versa la vittima. Uno Stato che si appropria della possibilità di infliggere tali crudeltà, violando la dignità umana, smentisce la sua stessa natura di Stato di diritto costituzionale e democratico, veicolando viceversa un'attività di disumanizzazione attraverso la distinzione cittadino/nemico, da cui ne deriverebbe un diritto che differenzierebbe tra un sistema garantista per i primi e repressivo per i secondi. Ecco allora che le recenti decisioni consentono all'ordinamento di riappropriarsi del principio per cui nessuno è superiore innanzi alla legge.

Guida all'approfondimento

M. Chiavario, Dal caso Bolzaneto alla nuova legge. Definire la tortura per non vederla più – in Europa umana, Pisa, 2020;

A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de iure condendo, in Diritto Penale Contemporaneo, 2014;

A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura (art. 613-bis c.p.), in Studium Iuris, 2017; A. Pugiotto, Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c'è, in diritto penale contemporaneo, riv. trimestr. 2, 2014;

A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, non contro la tortura. Riflessioni costituzionali suggerite dalla l. n. 110 del 2017, in Quaderni costituzionali, fasc. n. 2/2018; E. Scaroina, Il delitto di tortura, Bari, 2018.

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