Corte di Giustizia e principio del nemo tenetur se detegere: risvolti in tema di doppia pregiudizialità

Lorenzo Cattelan
15 Marzo 2021

Non può essere sanzionata una persona fisica che si rifiuti di fornire all'autorità competente risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale...
Massima

L'articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all'abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l'articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6 e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione, letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell'ambito di un'indagine svolta nei suoi confronti dall'autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale.

Il caso

Con decisione del 2 maggio 2012, la Consob ha inflitto a D.B., sulla base degli artt. 187-bisss. del d. lgs n. 58/1998 (T.U.F.), sanzioni pecuniarie (per un ammontare di 300.000 euro) e interdittive in relazione ad operazioni da esso effettuate con abuso di informazioni privilegiate e comunicazioni illecite delle stesse. Nondimeno, si è ritenuto integrato anche l'illecito di cui all'art. 187-quinquiesdecies del medesimo testo normativo, che sanziona – «quando il fatto non integra il delitto di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ex art. 2638 c.c.» – «chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d'Italia e della Consob ovvero ritarda l'esercizio delle sue funzioni». Nel dettaglio, la CONSOB ha contestato l'ingiustificato ritardo nel presentarsi all'Autorità, nonché il silenzio serbato in sede di audizione, applicando per questo un'ulteriore sanzione di 50.000 euro. Avuto riguardo alla gravosità della complessiva risposta sanzionatoria, l'accusato ha presentato impugnazione al giudice ordinario (cfr. CorteCost., 27 giugno 2012, n. 162).

Successivamente, avverso la decisione della Corte d'appello, l'interessato ha presentato ricorso per cassazione, con cui ha altresì eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 187-quinquiesdecies T.U.F. (nella versione precedente alle modifiche apportate dal d.lgs. 3 agosto 2017, n. 129), per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU), nella parte in cui la norma irroga una sanzione amministrativa di carattere punitivo, incompatibile con il principio del “nemo tenetur se detegere”, nei confronti di un soggetto che rifiuta la collaborazione attiva allo svolgimento di indagini a suo carico. Sul punto, la Suprema Corte ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la prospettazione del ricorrente e, nel sollevare d'ufficio la questione di legittimità costituzionale, ha riscontrato un potenziale contrasto dell'art. 187-quinquiesdecies T.U.F. anche in relazione all'art. 117 Cost. con riferimento all'art. 14, comma 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché all'art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea.

Riconosciuta la posizione di doppia pregiudizialità del caso di specie, la Cassazione, anziché adire in via diretta la Corte di Giustizia, ha compulsato la Corte Costituzionale, rispettando il principio di diritto enunciato dalla sentenza della Consulta del 14 dicembre 2017, n. 269 (su cui si ritornerà nella parte dedicata alle Osservazioni).

Ciò posto, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 187-sexies T.U.F. (sia in relazione al testo vigente all'epoca dei fatti, sia nella conseguente versione modificata ad opera del d.lgs. n. 107/2018; cfr. Corte cost., n. 112/2019) nella parte in cui non circoscrive la confisca al “profitto” degli illeciti di market abuse. Diversamente, in relazione al contenuto del diritto al silenzio dell'accusato è stato formulato un rinvio pregiudiziale alla CGUE (Corte cost., ord. 6 marzo (10 maggio) 2019, n. 117), attinente alla sanzionabilità del rifiuto di rispondere a domande dell'Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (CONSOB) qualora ciò si traduca nel rendere dichiarazioni autoaccusatorie rispetto a fattispecie incriminatrici ovvero illeciti amministrativi sostanzialmente penali (così considerati alla luce della consolidata giurisprudenza CEDU a partire dal caso Engel c. Paesi Bassi del 1976). A tal proposito, la Consulta osserva che l'art. 187-quinquiesdecies T.U.F. è stato adottato in esecuzione dell'obbligo imposto dalla Direttiva 2003/6 e, successivamente, dell'articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio.

Merita, infine, di essere segnalato che i parametri normativi avanzati dalla Corte Costituzionali riguardano l'art. 6 CEDU in materia di giusto processo e gli artt. 47 e 48 CDFUE in relazione al principio “nemo tenetur se detegere”.

La questione

La problematica giuridica sottesa al caso di specie riguarda l'estensione del principio “nemo tenetur se detegere” al procedimento amministrativo avviatosi dinnanzi ad un'autorità di vigilanza, quando questo sia finalizzato ad accertare la commissione di fatti che, in ragione del doppio binario sanzionatorio, costituiscono al contempo un illecito amministrativo e un reato.

In via pregiudiziale ex art. 267 TFUE, quindi, si sono sollevate le seguenti questioni:

a) se l'art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l'art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell'autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”;

b) se, in caso di risposta negativa a tale prima questione, l'art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l'art. 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento (UE) n. 596/2014 siano compatibili con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell'autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Giustizia, riunita in Grande Sezione, appurata la ricevibilità delle sollevate questioni pregiudiziali, approfondisce il contenuto del right to remain silent nell'ambito di procedimenti (formalmente) amministrativi relativi agli abusi di mercato.

Per quanto attiene al fondamento sovranazionale, si evidenzia che il diritto al silenzio pone le sue radici – prima ancora che negli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza – nella nozione giusto processo rilevante ai sensi dell'art. 6 CEDU, così come interpretato nella sua dimensione minima dalla Corte di Strasburgo. Difatti, la CGUE, che pure non aderisce formalmente alla CEDU, ammette che l'Unione Europea riconosce i diritti umani fondamentali di rango convenzionale, dal momento che l'art. 52, par. 3, CDFUE disciplina un meccanismo di armoninazzione per garantire la massima espansione del livello di protezione diritti europei.

Tanto premesso, la Corte europea dei diritti dell'uomo rileva che, anche se l'articolo 6 della CEDU non menziona espressamente il diritto al silenzio, quest'ultimo costituisce una norma internazionale generalmente riconosciuta, che si trova al centro della nozione di equo processo. “Ponendo l'imputato al riparo da una coercizione abusiva da parte delle autorità, tale diritto contribuisce ad evitare errori giudiziari e a garantire il risultato a cui mira il citato articolo 6” (in tal senso, Corte EDU, 8 febbraio 1996, John Murray c. Regno Unito).

Inoltre, la giurisprudenza della Corte EDU contribuisce a sottolineare che:

- la protezione del diritto al silenzio mira a garantire che, in una causa penale, l'accusa fondi la propria argomentazione senza ricorrere ad elementi di prova ottenuti mediante costrizione o pressioni, in spregio alla volontà dell'imputato (cfr. Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito). Ne deriva che l'accusato non può esser minacciato di sanzioni per il caso di mancata deposizione; così come non può essere punito per essersi rifiutato di deporre (cfr. Corte EDU, 13 settembre 2016, Ibrahim e altri c. Regno Unito);

- il diritto al silenzio si esplica anche con riferimento ad informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell'accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta all'accusato (cfr. Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito; Corte EDU 19 marzo 2015, Corbet e altri c. Francia).

La Corte di Giustizia, a questo punto, sottolinea che le tracciate coordinate del diritto al silenzio devono essere rispettate anche nell'ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi, come quelle di competenza della CONSOB, suscettibili di sfociare nell'inflizione di sanzioni amministrative aventi, nella sostanza, carattere penale. Il richiamo è, senza troppi indugi, ai risalenti criteri Engel, elaborati dai Giudici di Strasburgo per estendere le garanzie penalistiche ad una misura punitiva scorrettamente qualificata in termini amministrativi (o, comunque, civilistici) dal singolo ordinamento nazionale.

Per quel che attiene al caso di specie, occorre evidenziare che l'Autorità di vigilanza dispone di penetranti poteri investigativi e che la mancata ottemperanza a richieste di informazioni è punita dall'art. 187-quinquiesdecies T.U.F., norma che costituisce trasposizione interna della dir. 2003/6/CE (MAD I) e, successivamente, del reg. (UE) 596/2014 (MAR) riguardanti i poteri di controllo e di indagine delle “autorità competenti”.

Ciò posto, la Corte di Giustizia, pur chiarendo che spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce dei richiamati Engel criteria, se le sanzioni amministrative in discussione nel procedimento principale abbiano natura penale, ricorda nondimeno che la giurisprudenza europea ha già avuto modo di scorgere in alcune delle sanzioni amministrative inflitte dalla CONSOB una finalità repressiva e un elevato grado di severità (cfr., in tal senso, Corte di Giustizia, del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C‑596/16 e C‑597/16). Peraltro, anche la Corte europea dei diritti dell'uomo è per parte sua giunta, in sostanza, alla medesima conclusione (Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia).

Del resto – osserva la pronuncia in commento – anche supponendo che, nel caso di specie, le sanzioni in questione nel procedimento principale inflitte a DB dall'autorità di vigilanza non dovessero presentare carattere penale, la necessità di rispettare il diritto al silenzio nell'ambito di un procedimento di indagine condotto da detta autorità potrebbe risultare altresì dal fatto, evidenziato dal giudice del rinvio, che, in base alla normativa nazionale, gli elementi di prova ottenuti nell'ambito di tale procedura sono utilizzabili, nell'ambito di un procedimento penale intentato nei confronti di questa stessa persona, al fine di dimostrare la commissione di un illecito penale.

Sulla base di queste argomentazioni, la Corte sancisce la violazione degli artt. 47 e 48 CDFUE allorché una persona sia sanzionata per il rifiuto di fornire all'autorità competente informazioni contra se, sia in riferimento a illeciti amministrativi riportabili alla matière pénale, sia rispetto a reati in senso stretto.

Nella parte conclusiva del loro ragionamento, i Giudici di Lussemburgo propongono una lettura volta alla verifica della legittimità della normativa europea in tema di market abuse. A tal proposito, corrisponde ad un principio ermeneutico generale affermare che il diritto derivato dell'Unione debba essere interpretato, per quanto possibile, in un modo che non pregiudichi la sua validità e in conformità con l'insieme del diritto primario e, segnatamente con le disposizioni della Carta. Così, qualora un testo siffatto si presti a più di un'interpretazione, occorre preferire quella che rende la disposizione conforme al diritto primario anziché quella che porta a constatare la sua incompatibilità con quest'ultimo (Corte di Giustizia, 14 maggio 2019, M e a., C‑391/16, C‑77/17 e C‑78/17, relativa alla revoca dello status di rifugiato). Proprio in questo senso, tanto il considerando 44 della direttiva 2003/6 quanto il considerando 77 del regolamento n. 596/2014 sottolineano che le rispettive discipline normative si pongono in continuità rispetto ai diritti fondamentali e ai principi sanciti dalla Carta di Nizza.

In definitiva, la Corte di Giustizia UE sostiene che il combinato disposto degli artt. 12 e 14 MAD I, come pure degli artt. 23 e 30 MAR, sebbene astrattamente interpretabili in senso limitativo o addirittura preclusivo rispetto al “right to remain silent” dell'incolpato,si prestano ad un'interpretazione conforme al diritto al silenzio, nel senso che essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all'autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale. Date tali circostanze, il fatto che nei testi normativi suddetti manchi un'esplicita esclusione dell'inflizione di una sanzione per un rifiuto siffatto non può pregiudicare la loro validità. Incombe agli Stati membri garantire che una persona fisica non possa essere sanzionata per il suo rifiuto di fornire risposte siffatte all'autorità competente.

Osservazioni

Il caso in esame pone l'interprete un (quantomeno) duplice ordine di spunti di approfondimento.

In primis, merita una – seppur breve – disamina lo stato dell'arte dei rapporti tra la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia, con particolare riferimento ai risvolti applicativi della c.d. doppia pregiudizialità.

Secondo il più risalente orientamento, quando una norma nazionale desta dubbi di compatibilità sia con la Costituzione sia con il diritto dell'Unione europea occorre sollevare primariamente il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Solo nel caso in cui la Corte di Giustizia fornisca un'interpretazione del diritto europeo tale da escluderne l'antinomia con la norma nazionale, si può sollevare anche la questione innanzi alla Consulta, sempre che il dubbio di legittimità costituzionale non riguardi solo il contrasto con il diritto dell'Unione europea, quale parametro interposto all'art. 117, comma 1, Cost.

La seconda fase evolutiva è rappresentata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 269 del 2017, che ha introdotto un'eccezione alla regola sopra descritta, limitatamente alla ipotesi in cui – in una controversia rientrante nell'ambito di applicazione del diritto europeo – il contrasto della norma nazionale con il diritto dell'Unione si sostanzi nella lesione di un diritto garantito dalla Carta di Nizza. È, infatti, noto l'obiter dictum per cui laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento aidiritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale(Corte Cost., 7 novembre 2017, n. 269).

Sulla scia di questo pronunciamento, la sentenza della Corte Cost. n. 20/2019 ha esteso la “regola 269” al diritto derivato dell'Unione che faccia questione dei diritti protetti dalla Carta di Nizza; evenienza, quest'ultima, che può ragionevolmente ritenersi di routine, ove si ponga mente alla estensione e ricchezza della trama di diritti fondamentali tutelati dalla CDFUE (Cosentino). Nella terza tappa di questo dialogo tra Corti, pertanto, l'eccezione espressa nell'obiter dictum della sentenza n. 269 diventa sostanzialmente la regola; con un effetto di accentramento della tutela delle posizioni giuridiche soggettive euro-unitarie presso la sola Corte Costituzionale, che rischia così di entrare in tensione con il primato del diritto dell'Unione nei termini disegnati dalla sentenza Simmenthal (Conti).

Come brillantemente ricostruito da Antonello Cosentino, il quadro è ulteriormente evoluto, sempre ad opera dei Giudici di Piazza del Quirinale, con la sentenza n. 63/2019, che – dopo aver confermato la persistenza del «potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale» – aggiunge: «laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri». Pertanto, si escludono le regole di precedenza tra le Corti e si affida al Giudice il compito di valutare le specifiche esigenze della questione concreta (nello stesso senso si pongono: Corte Cost., 6 marzo2019, n. 112; Corte Cost., 6 marzo 2019, n. 117). Quindi, nell'ipotesi in cui il Giudice si determini nel senso di sollevare questione di costituzionalità, la Consulta potrà accogliere il giudizio incidentale di legittimità anche in presenza di una pregiudiziale euro-unitaria e dando essa stessa corso, se necessario, al rinvio pregiudiziale.

Infine, la citata ordinanza n. 117/19 – con cui la Consulta ha sollevato il rinvio pregiudiziale che ha determinato la pronuncia in commento – non condividendo il riferimento della sentenza n. 63/19 al “potere, sostiene che, ricorrendone i presupposti, il Giudice comune abbia il “dovere” «di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta».

Il secondo spunto meritevole di riflessione attiene alla portata del diritto al silenzio.

Entrando nel merito della questione affrontata dalla Corte di Giustizia, infatti, pare oramai pacifico il riconoscimento, nelle Carte fondamentali, del diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non rendere dichiarazioni di natura confessoria (c.d. principio del nemo tenetur se detegere o nemo tenetur se ipsum accusare).

Mentre a livello interno il diritto al silenzio non trova copertura costituzionale esplicita – pur essendo considerato dalla giurisprudenza costituzionale quale corollario necessario del diritto inviolabile alla difesa sancito dall'art. 24 Cost. (ex multis, Corte cost.,28 giugno 2004, n. 202) –, l'art. 14, comma 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici afferma che ogni individuo accusato di un reato ha diritto «a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole». Ne deriva che, il comportamento non collaborativo dell'accusato, anche nella forma della autodifesa passiva (ossia la possibilità di difendersi senza fornire elementi a proprio carico), trova fondamento pure nella presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.). La stessa Corte di Giustizia, d'altronde, ricorda che il diritto a restare in silenzio e a non contribuire in alcun modo alla propria incriminazione è componente essenziale della nozione di equo processo ai sensi dell'art. 6 CEDU. Eloquente, in tal senso, è Corte EDU, 8 febbraio 1996, John Murray c. Regno Unito, in cui si afferma che il diritto in parola è finalizzato a proteggere l'accusato da pressioni indebite dell'autorità finalizzate ad ottenerne la confessione.

Com'è stato rilevato, il cuore delle questioni giuridiche sollevate dalla vicenda in esame pare comunque essere non tanto il potenziale pericolo derivante dalla trasmigrazione delle dichiarazioni autoindizianti in sede penale, quanto la forza propulsiva che le stesse esercitano all'interno della procedura amministrativa in termini di avanzamento e affinamento delle indagini e in termini probatori veri e propri, in un ambito – quello del procedimento sanzionatorio amministrativo della CONSOB – il cui esito negativo costituisce una sanzione sostanzialmente punitiva (Caneschi).

In definitiva, paiono porsi ancora una volta le perplessità espresse dalle opinioni dissenzienti dei Giudici Pinto de Albuquerque e Karakaş in occasione della sentenza della Corte EDU nel caso Grande Stevens c. Italia (2014), dal momento che le sanzioni (sostanzialmente penali) irrogate dalla CONSOB sono ancora l'esito di procedure «inquisitorie, non egualitarie e sbrigative».

Non resta, pertanto, che accodarsi a quella parte della dottrina che chiede un intervento del legislatore che riconduca il sistema del procedimento sanzionatorio della CONSOB alle soluzioni suggerite (e sollecitate) dalle Corti interne e sovranazionali.

Guida all'approfondimento

COSENTINO, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee, in Questione Giustizia, 6 febbraio 2020;

CONTI, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta Ue: questo matrimonio s'ha da fare o no?, in Giustizia Insieme, 4 marzo 2019;

CANESCHI, Nemo tenetur se detegere anche nei procedimenti amministrativi sanzionatori? La parola alla Corte di giustizia, in Cassazione Penale, fasc.2, 2020, pag. 579.

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