L'irrilevanza penale dei controlli difensivi attuati mediante videosorveglianza sul luogo di lavoro

Ferdinando Brizzi
19 Marzo 2021

Esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 4 l. n. 300/1970, e non richiedono l'osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore di lavoro se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale...
Massima

Esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 4 l. n. 300/1970, e non richiedono l'osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l'attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa.

Il caso

Con sentenza emessa in data 19 giugno 2019, il Tribunale di Viterbo dichiarava il ricorrente colpevole del reato di cui agli artt. 4, comma 1 e 3, e 38 l. n. 300/1970, irrogandogli la pena di 200,00 euro di ammenda, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Secondo quanto ricostruito dal Tribunale, l'imputato, quale titolare di una ditta esercente l'attività di commercio al dettaglio, aveva installato impianti video all'interno dell'azienda utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto l'accordo delle rappresentanze sindacali aziendali o dell'Ispettorato del lavoro.

La questione

Veniva interposto ricorso per Cassazione articolato in due motivi.

Con il primo motivo, si denunciava violazione di legge, in riferimento agli artt. 4, comma 1 e 2, e 38 l. n. 300/1970 a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., avendo riguardo alla configurabilità del reato ritenuto in sentenza: si deduceva che gli impianti video installati non erano strumenti di controllo lesivi della libertà e dignità dei lavoratori, bensì sistemi difensivi a tutela del patrimonio aziendale. Si rappresentava che questi impianti erano stati adottati a seguito del verificarsi di mancanze di merce nel magazzino ed erano rivolti solo verso la cassa e le scaffalature. Si segnalava che, secondo la giurisprudenza, è sanzionabile l'installazione non concordata di strumenti di controllo solo in caso di possibile controllo a distanza dell'attività lavorativa dei dipendenti.

Con il secondo motivo, si denunciava vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., avendo riguardo ancora alla configurabilità del reato ritenuto in sentenza: si deduceva che la sentenza impugnata si poneva in netto contrasto con le risultanze istruttorie, e, in particolare con le dichiarazioni della moglie dell'imputato, dalle quali si desumeva come gli impianti erano stati installati a tutela del patrimonio aziendale, e non per controllare l'attività dei dipendenti.

La Cassazione ha dunque esaminato la questione se sia configurabile il reato per la violazione della disciplina di cui all'art. 4 l. n. 300/1970 (c.d. "statuto dei lavoratori"), quando l'impianto audiovisivo installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, abbia la funzione di tutelare il patrimonio aziendale.

Le soluzioni giuridiche

I supremi giudici hanno dapprima esaminato gli aspetti di diritto intertemporale: la fattispecie in esame, originariamente prevista come reato dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 l. n. 300/1970 è a tutt'oggi penalmente sanzionata. In tal senso è chiarissima, in effetti, l'indicazione data dall'art. 171 d.lgs. n. 196/2003 nel testo vigente per effetto delle modifiche recate dall'art.15, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 101/2018, il quale prevede: "La violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4, comma 1, e 8 l. n. 300/1970 è punita con le sanzioni di cui all'art. 38 medesima legge". L'art. 48 l. n. 300/1970 a sua volta, nel testo attualmente vigente dopo le modifiche di cui all'art. 179 d.lgs. n. 196/2003, stabilisce che "le violazioni degli artt. 2, 5, 6 e art. 15, comma 1, lett. a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l'ammenda da euro 154 a euro 1.549 o con l'arresto da 15 giorni ad un anno". Ne discende per i giudici di legittimità che la violazione della disciplina di cui all'art. 4 l. n. 300/1970 costituisce illecito penale in forza di quanto dispone l'art. 171 d.lgs. n. 196/2003 nel testo vigente dopo la riforma di cui alla l. n. 101/2018, il quale rinvia all'art. 38l. n. 300/1970 per l'individuazione delle sanzioni applicabili.

Deve aggiungersi che la configurabilità dell'illecito penale medio tempore, dopo le riforme recate all'art. 38 dall'art. 179 d.lgs. n. 196/2003 e dall'art. 23 d.lgs. n. 151/2015, ma prima della riforma di cui alla l. n. 101/2018, è stata ripetutamente ribadita dalla giurisprudenza (cfr. Cass. pen., sez. III, n. 4564/2017, nonché Cass. pen., sez. III, n. 45198/2016).

Sgomberati i dubbi di diritto intertemporale, la Cassazione esamina il problema di una precisa individuazione dei limiti di configurabilità della fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 4 e 38 l. n. 300/1970 e art. 179 d.lgs. n. 196/2003 alla luce di un esame complessivo della giurisprudenza, anche civile, di legittimità, stante la, almeno apparente, diversità di soluzioni.

La descrizione della fattispecie incriminatrice si rinviene nell'art. 4l. n. 300/1970, atteso che, come anticipato, l'art. 38 della medesima legge e l'art. 179 d.lgs. n. 196/2003 sono funzionali esclusivamente alla determinazione delle sanzioni.

Il testo dell'art.4l. n. 300/1970 è stato modificato nel tempo: il testo originario dell'art. 4, nei primi due commi, prevedeva: "(comma 1) è vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività del lavoratore. (comma 2) Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti".

Il testo vigente dell'art. 4, comma 1, per effetto delle riforme recate prima dall'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 151/2016, e poi dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 185/2016 dispone: "Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell'Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi".

Sembra ragionevole ritenere ai supremi giudici che la successione di discipline normative non abbia apportato variazioni significative alla fattispecie incriminatrice. In effetti, la condotta vietata consisteva e consiste nell'installazione degli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro. Le modifiche legislative, piuttosto, sono relative all'individuazione dei soggetti cui compete il potere di concordare o autorizzare l'installazione degli impianti.

La precisazione appena compiuta, oltre che escludere modifiche apprezzabili a norma dell'art. 2 c.p., evidenzia l'utilità e la rilevanza dell'analisi, ai fini della individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie, delle interpretazioni giurisprudenziali anche in relazione al testo previgente dell'art. 4 l. n. 300/1970.

La specifica elaborazione in tema di configurabilità del reato relativo alla illegale installazione di impianti audiovisivi sui luoghi di lavoro ritiene penalmente rilevante anche la sola potenzialità del controllo a distanza dei dipendenti.

Costituisce, infatti, principio ripetutamente affermato quello secondo cui, ai fini della integrazione del reato di pericolo previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori e degli artt. 14 e 171 d.lgs. n. 196/2003, che punisce l'installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, non è necessaria la verifica della funzionalità dell'impianto né del concreto utilizzo dello stesso (cfr., in particolare, Cass. pen., sez. III, n. 45198/2016, e Cass. pen., sez. III, n. 4331/2013, la quale ha ritenuto penalmente rilevante l'installazione all'interno di un supermercato di otto micro-camere a circuito chiuso di cui alcune puntate direttamente sulle casse).

A fondamento di questa conclusione, si è rilevato che la fattispecie in esame costituisce reato di pericolo, essendo diretta a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.

Appare importante evidenziare, tuttavia, che, secondo una precedente decisione, "ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori exart. 4 l. n. 300/1970 è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)" (così, in motivazione, Cass. pen., sez. III, n. 8042/2006).

Occorre tener conto, poi, della elaborazione giurisprudenziale in tema di utilizzabilità come prove nel processo penale dei risultati delle videoriprese effettuate sul luogo di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, in assenza di previo accordo con le rappresentanze sindacali competenti e di previa autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.

Secondo un orientamento ampiamente consolidato, sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (cfr. Cass. pen., sez. 2, n. 2890/2015; Cass. pen., sez. V, n. 34842/2011; Cass. pen.,sez. V, n. 20722/2010).

In particolare, la Cassazione (Cass. pen., sez. V, n. 20722/2010) ha formalmente enunciato il seguente principio: "Gli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori implicano l'accordo sindacale a fini di riservatezza dei lavoratori nello svolgimento dell'attività lavorativa, ma non implicano il divieto dei cd. controlli difensivi del patrimonio aziendale da azioni delittuose da chiunque provenienti. Pertanto, in tal caso non si ravvisa inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p. di prove di reato acquisite mediante riprese filmate, ancorché sia perciò imputato un lavoratore subordinato". A fondamento di questo principio, la decisione richiama la precedente elaborazione della giurisprudenza di legittimità civile e penale, ed evidenzia che le norme di cui agli artt. 4 e 38l. n. 300/1970 tutelano la riservatezza del lavoratore nello svolgimento della sua attività, "anche perché la sua libertà di comportamento contribuisce al risultato che con il lavoro assicura all'azienda", per cui, "inversamente, la tutela della sua riservatezza si correla all'osservanza del proprio dovere di fedeltà", e, quindi, "la finalità di controllo a difesa del patrimonio aziendale non è da ritenersi sacrificata dalle norme dello Statuto dei lavoratori".

Ancora, la giurisprudenza civile di legittimità, anche nei suoi arresti più recenti, ritiene che esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 4 l. n. 300/1970 e non richiedono l'osservanza delle garanzie ivi previste i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l'attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa (cfr. Cass. civ., sez. L., n. 13266/2018; Cass. civ., Sez. L., n. 10636/2017; Cass. civ., sez. L., n. 22662/2016).

Questo principio è affermato sul presupposto che "l'interpretazione della disposizione (art. 4 l. n. 300/1970) va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell'esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), ed il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art. 41 Cost.), con l'ulteriore considerazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore - in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva - una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa" (così, testualmente, in motivazione, Cass. civ., sez. L., n. 10636/2017). Costante, inoltre, è l'osservazione che tale soluzione ermeneutica risulta coerente con i principi dettati dall'art. 8 CEDU in base al quale nell'uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della "ragionevolezza" e della "proporzionalità" (cfr. Corte EDU, 12/01/2016, Barbulescu c. Romania, secondo cui lo strumento di controllo deve essere contenuto nella portata e, dunque, proporzionato).

Dopo questa ampia ed articolata disamina, ad avviso del Collegio, deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 l. n. 300/1970 quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.

Si legge nella sentenza in commento che limiti ad una interpretazione eccessivamente ampia della previsione di cui all'art. 4 l. n. 300/1970 risultano desumibili sulla base del dato letterale e di considerazioni sistematiche.

Per quanto concerne il primo aspetto, viene rilevato che il testo della disposizione appena citata, nell'originaria come nella vigente formulazione, prevede la necessità di un preventivo accordo con le organizzazioni sindacali, o di una preventiva autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, quando derivi "anche" la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Di conseguenza, la previsione normativa non sembra riferibile ad impianti che possano controllare in via del tutto occasionale l'attività del singolo dipendente, come, ad esempio, potrebbero essere, almeno tendenzialmente, quelli puntati sulla cassaforte o sugli scaffali.

Per quanto attiene al secondo profilo, poi, appare persuasiva ai giudici di legittimità l'osservazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore - in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con il licenziamento una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa (Cass. civ., sez. L., n. 10636/2017; Cass. pen., sez. III, n. 8042/2006).

Questi limiti all'operatività divieto di cui all'art. 4, però, debbono essere intesi in senso non estensivo. Tale precisazione risulta imposta già da quanto espressamente stabilito dall'art. 4 l. n. 300/1970. Innanzitutto, infatti, l'art. 4 prevede l'accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro anche quando ricorrono "esigenze (...) per la tutela del patrimonio aziendale". Non è senza significato, poi, che l'art. 4 prefigura, per il caso di mancato accordo con le organizzazioni sindacali, la possibilità di ottenere l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro: in questo modo, il legislatore ha inteso tutelare le ragioni dell'impresa evitando, però, soluzioni che possano determinare una significativa interferenza sul diritto del lavoratore alla dignità e libertà nell'esercizio delle sue prestazioni sulla base di determinazioni unilaterali del datore di lavoro.

Una conferma di questa opzione ermeneutica, ancora, sembra offerta dalla giurisprudenza della Corte EDU. In effetti, i giudici di Strasburgo, pur affermando la possibilità, per gli ordinamenti giuridici nazionali, di prevedere limiti al diritto al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza nell'ambito lavorativo, hanno anche sottolineato l'esigenza di contenere tali limiti nel rispetto del principio di proporzionalità, la necessità di assicurare garanzie procedurali contro possibili arbitri, e l'occorrenza di "misure protettive" di diritto penale (cfr., in particolare, Corte EDU, Grande Camera, 05/09/2017, Bàrbulescu c. Romania).

L'interpretazione accolta dai giudici di legittimità in ordine all'ambito di applicazione del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 l. n. 300/1970 ha consentito loro di evidenziare le lacune della motivazione della sentenza impugnata, denunciate, sia pure in termini più generali, nel ricorso.

Il Tribunale, in effetti, ha affermato la penale responsabilità del ricorrente osservando che nell'esercizio commerciale del medesimo era installato un sistema di videosorveglianza dei lavoratori non concordato con i sindacati, né altrimenti autorizzato, ma anche riportando, senza alcun esame critico, le dichiarazioni testimoniali della moglie dell'imputato, secondo cui l'impianto era stato posizionato a seguito del rilievo di mancanze di merci, ed era rivolto solo verso la cassa e le scaffalature.

In questo modo, la decisione oggetto di ricorso non ha chiarito se l'installazione del sistema di videosorveglianza rilevato fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, né se l'utilizzo del precisato impianto comportasse un controllo non occasionale sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, o, comunque, dovesse restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.

La decisione è stata così annullata con rinvio: il giudice del rinvio accerterà, compiendo tutti gli accertamenti ritenuti necessari, se l'installazione del sistema di videosorveglianza riscontrato dagli Ispettori del Lavoro fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, e, in caso di risposta affermativa, se l'utilizzo dell'impianto avesse comportato un controllo non occasionale sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, oppure dovesse restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.

Osservazioni

L'articolata motivazione della sentenza merita totale condivisione, in primo luogo, per il prudente richiamo al bilanciamento tra valori costituzionali: da un lato il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell'esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), dall'altro il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art. 41 Cost.). Il ragionamento dei giudici penali pare, per altro, del tutto in linea con le indicazioni del Garante italiano per la protezione dei dati personali che, a partire dal provvedimento in materia di videosorveglianza - 8 aprile 2010 [1712680], ha individuato nell'istituto del bilanciamento di interessi la fonte di legittimazione della rilevazione delle immagini senza consenso, qualora sia effettuata nell´intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso la raccolta di mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro.L'interesse legittimo ha poi trovato definitiva consacrazione quale base giuridica del trattamento nell'art. 6 f) del Regolamento Europeo n. 679/2016: “il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore”.

Sotto questo profilo, il libero esercizio delle attività imprenditoriale, per andare esente da sanzioni non solo penali ma anche amministrative, deve essere svolto in modo “responsabile”: la gestione delle compliance aziendale presuppone in tutti settori un approccio basato sulla responsabilizzazione dei soggetti (accountability) e, nell'analisi del processo, occorre adottare necessariamente un metodo di analisi basato sul rischio (cd. risk assessment) coerente con i presidi aziendali predisposti. Tale approccio al rischio risulta aderente a quello disegnato dal Regolamento Europeo n. 679/2016 nell'ambito della tutela dei dati personali. Il predetto nuovo approccio presuppone una tutela non più successiva, ma una preventiva, basata sulla responsabilizzazione del titolare e del responsabile del trattamento (cfr. art. 24 del Regolamento) che si sostanzia nello svolgimento della analisi dei rischi su tutti i trattamenti effettuati, con il riscorso – ove necessario – alla valutazione di impatto sulla protezione dei dati personali (cfr. art. 35 del Regolamento) in un'ottica di privacy by design e by default che presuppone un approccio di analisi del trattamento sin dalla fase della sua progettazione al fine di ridurre al minimo l'impatto sull'interessato (cfr. art. 25 del Regolamento).

La sentenza in commento “spiana” dunque la strada a quest'ottica “responsabilizzante” del datore del datore di lavoro dando spazio, anche in ambito penale, ai cd. controlli difensivi: tale categoria tipologica comprende quelle attività di sorveglianza a distanza, quali ad esempio il monitoraggio degli accessi alla rete Internet o del sistema di posta elettronica aziendale, poste in essere per mezzo di strumenti tecnologici non allo scopo di verificare l'esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali da parte dei lavoratori – in quanto tale tradizionalmente vietato dalla formulazione letterale dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, recentemente sostituito dall'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 185/2016 – bensì al fine di accertare la commissione di condotte illecite lesive del patrimonio aziendale ovvero pericolose per la sicurezza del luogo di lavoro (cfr., ex multis, le sentenze della Cass. pen., n. 4746/2002, pronunciata in un caso di controllo sull'utilizzo extraprofessionale della rete telefonica aziendale, e Cass. pen., n. 10955/2015, riguardante un caso di accesso all'account personale Facebookdi un dipendente).

Pur non richiamando espressamente la più recente pronuncia della Corte EDU nel caso Lopez Ribalda (Corte EDU, Grande Camera, Lopez Ribalda e altri c. Spagna, 17 ottobre 2019), la Cassazione giunge, nella sentenza che si annota, ad esiti in linea con l'autorevole precedente in questione: nel bilanciare i detti interessi contrapposti, in particolare, i giudici di Strasburgo hanno in sostanza ritenuto legittima la sorveglianza occulta effettuata dal datore sul luogo di lavoro anche in assenza del previo rispetto delle disposizioni in tema di controllo a distanza dei lavoratori, a condizione, tuttavia, che possa ritenersi proporzionata, valorizzando la sussistenza nel caso concreto di alcune condizioni così sintetizzabili: a) la preventiva emersione di concreti indizi tali da segnalare la presenza di illeciti in atto da parte dei dipendenti; b) l'effettuazione del controllo al limitato e unico scopo di accertare gli illeciti in atto, e con modalità proporzionate e coerenti con tale esclusiva finalità; c) l'interruzione della sorveglianza occulta una volta terminata l'indagine.

Della sentenza Lopez Ribalda e altri c. Spagna lo stesso supremo collegio italiano ha fatto immediata applicazione: cfr. Cass. pen., sez. II, 5 novembre 2019 (dep. 19 dicembre 2019), n. 51183, in cui, a fronte di un motivo di ricorso in cui veniva eccepita l'inutilizzabilità di registrazioni realizzate in luogo interno di un ufficio, da ritenersi, nella prospettiva difensiva, equiparato alla privata dimora o comunque stabilimento lavorativo all'interno del quale il controllo audiovisivo del lavoratore, unilateralmente disposto, è vietato da disposizione imperativa di legge, ha ribattuto che la necessità di accertare fatti di penale rilevanza consente di superare anche le disposizioni poste a tutela della dignità del lavoro. A conforto di questo assunto è stata richiamata, oltre che la giurisprudenza della stessa sezione (Cass. pen., sez. II, n. 33567/2016, nonché Cass. pen., sez. VI, n. 30177/2013), proprio la sentenza della Corte EDU n. 17/10/2019, Lopez Ribalda c. Spagna.

Ne discende che ove il datore di lavoro intenda procedere a controlli strettamente funzionali alla tutela del patrimonio aziendale in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o di previa autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro deve non solo orientare le telecamere in modo tale da non effettuare un controllo non occasionale sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti – ad esempio, come nel caso in trattazione, indirizzandole solo verso la cassa e le scaffalature – ma anche “dar conto” delle sue scelte, secondo la terminologia impiegata nell'art. 24 GDPR, mediante l'adozione di una policy aziendale conforme al GDPR.

Guida all'approfondimento

Ferdinando Brizzi, Il consenso dei lavoratori può scriminare la videosorveglianza non autorizzata?, in Il Penalista, Giurisprudenza commentata, 3 febbraio 2020;

Paolo Balboni e Francesca Tugnoli, Reati informatici e tutela dei dati personali: profili di responsabilità degli enti, in Responsabilità degli enti: problematiche e prospettive di riforma a venti anni dal d.lgs. 231/2001, a cura di Guido Stampanoni Bassi, Giurisprudenza Penale 2021/1 -bis.

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