Le difficoltà probatorie in tema di risarcimento dei danni da ingiuria

Andrea Penta
22 Marzo 2021

A seguito dell'intervenuta depenalizzazione del reato di ingiuria, operata con il d.lgs. n. 7/2016, sono sorte numerose questioni pratiche, soprattutto sul piano dell'onere probatorio e dei criteri da utilizzare per la liquidazione del relativo danno in sede civile. I concetti di onore e decoro, che rappresentano il bene tutelato, si prestano a letture che di volta in volta devono adattarsi all'evoluzione della dignità umana nel corso dei tempi, sicché non è possibile fornire una interpretazione univoca e rigida degli stessi. Indubbiamente la concezione civilistica, svincolata, com'è, da parametri “medi” di onorabilità e rispettabilità, si caratterizza per una maggiore ampiezza, ma anche per una più labile demarcazione dei confini applicativi.
Il quadro normativo

Attualmente, a seguito della c.d. depenalizzazione operata nel 2016 dal Governo Renzi, anche se viene lesa la dignità personale, professionale o l'immagine sociale di una persona, non è più configurabile un reato, ma soltanto un semplice illecito civile, da cui deriva anche l'obbligo di pagare una sanzione civile verso lo Stato. In sostanza, ormai si può soltanto chiedere il risarcimento del danno subito con l'ingiuria.

In particolare, la trasformazione (che riguarda anche il reato di ingiuria: art. 1, d.lgs. n. 7/2016) è stata operata con il d.lgs. 15 gennaio 2106, n. 7, recante «Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili», e con il d.lgs. 15 gennaio 2106, n. 8, contenente «Disposizioni in materia di depenalizzazione», entrambi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio 2016 (in attuazione della legge delega del 28 aprile 2014, n. 67), e d è, quindi, in vigore dal 6 febbraio 2016. Tuttavia, la disposizione transitoria contenuta nell'art. 12 del medesimo testo la rende applicabile pure ai fatti commessi anteriormente.

L'ingiuria rimane, dunque, un comportamento illecito, ma senza avere più rilevanza penale (v. A. Leopizzi, Illeciti civili sottoposti a sanzioni pecuniarie, in Ri.Da.Re.).

Se è vero che l'art. 594 precedentemente previsto dal Codice penale non esiste più, è pur vero che il concetto di ingiuria, inteso come offesa all'onore ed al decoro, non è mai venuto meno ed assume, nella sua connotazione strutturale, le stesse caratteristiche proprie del diritto penale.

L'elemento oggettivo

L'elemento oggettivo del reato di ingiuria è (recte, era), come anticipato, costituito dall'offesa all'onore e al decoro della persona presente. I concetti di onore e decoro (cfr. Cass. pen., sez. V, sent. n. 34599/2008) non sono espressamente definiti da alcuna norma e rappresentano l'esempio più chiaro di come alcune categorie concettuali del diritto siano soggette a mutare nel corso del tempo, adattandosi all'evoluzione del sentire etico e sociale.

Il bene giuridico tutelato è la dignità, ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost. (Cass. pen., sez. V, sent. n. 34599/2008), inteso come diritto inviolabile di ogni uomo e della sua personalità.

In caso di conflitto tra beni giuridici tutti tutelati dall'ordinamento (aventi cioè “copertura” costituzionale), è compito dell'interprete valutare (con adeguata motivazione) quale bene debba essere sacrificato a favore dell'altro (Cass. civ., sez. L, sent. n. 18279/2010). Nel caso di specie, la tutela dell'onore e del decoro potrebbero, ad esempio, entrare in conflitto (v. postea) con il diritto di critica, con quello di cronaca e col diritto di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).

Oltre alla copertura costituzionale, numerosi atti e convenzioni internazionali ratificati dall'Italia prevedono espressamente il diritto all'onore ed alla reputazione (la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, la Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e, da ultimo, l'art. 1 della Carta Fondamentale dei Diritti dell'Unione Europea).

Prima della depenalizzazione del relativo reato, sulla base della normativa all'epoca vigente, l'offesa poteva essere rivolta anche tramite uno scritto o disegno di varia natura (art. 594, comma 2, c.p.). Ancora oggi l'offesa deve essere esternata mediante qualsiasi tipo di comunicazione, sia essa anche telegrafica, telefonica, informatica o telematica, con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.

Aggravavano, inoltre, il reato l'attribuzione di un fatto determinato (art. 594, comma 3, c.p.) o la compresenza alla dichiarazione offensiva di più persone (art. 594, comma 4, c.p.).

La tipicità della disposizione penale fissava indubbiamente in misura più rigida la consistenza del bene tutelato, laddove la concezione civilistica è svincolata da parametri “medi” di onorabilità e rispettabilità e si caratterizza per una maggiore ampiezza, poiché ricomprende molteplici aspetti della personalità.

È opportuno evidenziare che l'ingiuria può essere posta in essere anche attraverso un comportamento materiale. Invero, si consuma non solo attraverso lo scritto o la parola, ma anche attraverso atti materiali (c.d. ingiuria reale), che manifestino un sentimento di disprezzo verso la persona offesa e siano, quindi, tali da offenderne l'onore o il decoro (Cass. pen. n. 460/2014). Si pensi alla condotta di chi sputa verso l'ingresso della abitazione della persona offesa, in quanto lo sputo, costituendo una manifestazione di disprezzo verso l'individuo nei cui confronti è diretto, offende il decoro dello stesso, cioè il complesso delle qualità e condizioni che determinano il suo valore sociale (Cass. pen., sez. V, sent. n. 47974/2014).

La presenza necessaria della persona offesa

Per aversi reato di ingiuria c'è bisogno di qualcuno che offenda “l'onore o il decoro di una persona presente”. In particolare, deve trattarsi di un'offesa manifestata da un soggetto nei confronti e, soprattutto, in presenza del soggetto cui è rivolta. Se, invece, fosse formulata in presenza di terzi, ma in assenza della vittima, si sarebbe al cospetto di una diffamazione. Cass. pen., Sez. V, sent., n. 18919/2016 ha chiarito che la missiva a contenuto diffamatorio diretta a una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, non integra il reato di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, bensì quello di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa.

Il requisito della presenza dell'offeso è assicurato anche da qualsiasi forma di comunicazione rivolta allo stesso (art. 594, comma 2, c.p.).

Il ricorso ad un intermediario (che si curerà di recapitare un messaggio verbale o scritto) determina ugualmente il perfezionamento del reato nel momento in cui egli recapita il messaggio offensivo (cfr. Cass. pen., sez. V, sent., n. 16425/2008).

Il caso della e-mail rivolta a destinatari plurimi (tra cui anche la persona cui sono rivolte le offese) è stato, invece, risolto in modo contrastante dalla giurisprudenza: a volte configurando il concorso tra diffamazione ed ingiuria (Cass., sez. V, sent., n. 12160/2002), altre volte ritenendo che fosse ravvisabile la sola diffamazione (Cass. pen., sez. V, sent., n. 44980/2012).

E così integra l'ingiuria l'invio a soggetti diversi dalla persona offesa di una mail contenente espressioni offensive con la consapevolezza che essa sarebbe stata comunicata al soggetto offeso (Cass. pen., sez. V, sent., n. 24325/2015).

Le fattispecie assimilabili

Una delle difficoltà maggiori è quella di individuare la linea di demarcazione tra l'ingiuria e fattispecie assimilabili.

I punti di contatto con il reato di diffamazione, disciplinato dall'art. 595 c.p., sono molti (offesa dell'onore o del decoro per l'ingiuria; offesa della reputazione per la diffamazione); la differenza essenziale risiede nella presenza della persona offesa (ingiuria), piuttosto che nel comunicare con più persone (diffamazione). I due reati, però, potevano, come si è visto, concorrere ogni qual volta la comunicazione offensiva fosse stata diretta sia all'interessato che a terze persone (v. Cass. pen., sez. V, sent., n. 48651/2009).

Più precisamente, l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (cfr. Cass. pen., sez. V, sent., n. 10313/2019, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione di merito che aveva qualificato come diffamatorie le espressioni profferite dal ricorrente ad alta voce, in assenza della persona offesa, che tuttavia le aveva udite, perché impegnata in una conversazione telefonica con uno dei soggetti presenti nella stanza in cui le parole offensive erano state pronunciate). In quest'ottica, integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, depenalizzato ai sensi dell'art. 1,, comma 1, lett. c), d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, e non il delitto di diffamazione, la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video "chat", alla presenza di altre persone invitate nella "chat", in quanto l'elemento distintivo tra i due delitti è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Cass. pen., sez. V, sent., n. 10905/2020).

Le molestie alle persone (art. 660 c.p.) sono un reato contravvenzionale caratterizzato da molestia o disturbo dovuti a motivi biasimevoli. La norma fa riferimento al mezzo del telefono e la casistica annovera sempre più spesso (oltre al caso delle telefonate ripetitive ed inopportune) anche il caso di SMS e simili. Qualora tali comportamenti fossero stati non solo molesti, ma anche offensivi, il reato di molestie poteva concorrere con quello di ingiuria (v. Cass. pen., sez. I, sent., n. 21158/2007), anche in considerazione del fatto che i beni giuridici protetti (tranquillità, in un caso; onore e decoro, nell'altro) erano differenti.

Altri aspetti rilevanti

Risulta controverso (e contraddittorio) il rilievo da attribuire alla capacità dell'offeso di percepire l'espressione offensiva.

Il dato testuale della norma incriminatrice (l'offesa ad una persona presente) e la prevalente interpretazione giurisprudenziale (a partire da Cass. pen., sez. V, sent., n. 11909/1975) sembrerebbe richiedere il turbamento della dignità quale conseguenza dell'offesa subita.

La dottrina tradizionale ha, invece, sempre ritenuto l'ingiuria un reato di pericolo e, come tale, posto a tutela della dignità, a prescindere dall'effettivo turbamento percepito dalla vittima.

La persona giuridica

La persona giuridica, in quanto tale, non può essere vittima di ingiuria. Invero, l'«onore in senso soggettivo», inteso come il sentimento che ciascun soggetto ha del proprio valore sociale, non è configurabile rispetto alla persona giuridica, non potendo distinguersi dall'onore individuale dei singoli partecipanti.

Tuttavia, l'offesa rivolta contro una persona giuridica può costituire ingiuria nei confronti del suo titolare o dei suoi legali rappresentanti, se vi è immediata riconducibilità a questi ultimi (Cass. pen., sez. V, sent., n. 6265/1980).

Ciò nonostante, un'isolata pronuncia (cfr. Cass. pen., n. 3756/1988) sembra ammettere la possibilità che la persona giuridica assuma la qualità di soggetto passivo del reato di ingiuria ex art. 594 c.p.

Il nesso di causalità

Tra le espressioni o lo scritto rivolti alla vittima dell'ingiuria e la lesione del bene giuridico dell'onore o del decoro deve evidentemente intercorrere un diretto nesso di causalità. Le parole o lo scritto offensivo devono essere stati, quindi, in grado di comprometterne l'onore (cioè le qualità individuali) o il decoro (cioè il rispetto che ogni essere umano merita) della vittima (Cass. pen., sez. V, sent., n. 34599/2008).

Avuto riguardo al nesso causale tra il comportamento dell'agente e l'evento dannoso, si suole dire che, se il giudice penale deve attenersi al canone dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio", e ciò in applicazione del principio per cui in dubio pro reo, il giudice civile deve, invece, attenersi al principio c.d. del "più probabile che non". Da ciò consegue che è possibile che la stessa vicenda conduca un soggetto alla condanna al risarcimento del danno in sede civile, nella quale emerge con più rilevanza la figura del danneggiato, e non anche alla condanna penale. Ciò perché, se nel primo contesto è sufficiente il canone della probabilità, nel secondo, invece, si deve fare applicazione di un più rigido canone di (quasi) certezza.

La provocazione

Già secondo Cass. n. 8911/1995l'esimente della provocazione di cui all'art. 599, ultimo comma, del codice penale esclude la punibilità dei reati di ingiuria e diffamazione, ma non la natura di illecito civile del fatto e l'esistenza di una obbligazione risarcitoria dell'autore dello stesso, se ne sia derivato un danno al soggetto leso”.

In ogni caso, anche nella nuova veste di illecito civile/amministrativo è sopravvissuta la esimente della provocazione (art. 4, comma 2, d.lgs. n. 7/2016).

In base all'art. 599 c.p., la provocazione è scriminante anche se non ha immediatamente preceduto la successiva ingiuria, ma è comunque legata da una ragionevole continuità temporale (Cass. pen., sez. V, sent. n. 30502/2013); tra provocazione ed ingiuria non è necessario che vi sia proporzionalità delle offese, ma è sufficiente la sussistenza di un nesso causale (Cass. pen., sez. V, sent., n. 43173/2012).

Va altresì ricordato che la provocazione sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purché apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente. In applicazione di tale principio, Cass. pen., sez. V, sent., n. 21133/2018, ha escluso che integrasse l'esimente in parola l'intenzione di un datore di lavoro di procedere al licenziamento di alcuni dipendenti, in conseguenza del cui annuncio l'imputato, nel corso di un'assemblea sindacale, aveva adoperato espressioni offensive all'indirizzo del medesimo.

La prova del danno

L'onere di provare il fatto ed il danno subito spetta sempre a chi agisce in giudizio (cioè a chi è stato ingiuriato).

Mentre in sede penale la testimonianza della persona offesa da reato è (recte, era) pienamente ammissibile e può (recte, poteva) anche essere da sola sufficiente a provare la colpevolezza dell'imputato (Cass., sez. I, sent., 24 giugno 2010, n. 29372), in sede civile l'ingiuriato, essendo attore del processo, non potrebbe avere anche il ruolo di testimone (il problema probatorio non si porrebbe nel caso della compresenza di più persone prevista dall'aggravante del vecchio comma 4 dell'art. 594 c.p.). In particolare, nel giudizio penale per ingiuria la testimonianza della vittima, in quanto proveniente dalla parte offesa, veniva considerata elemento di prova, mentre ciò non può avvenire ora nel giudizio civile per il risarcimento del danno, dove l'attore non può certo testimoniare a proprio favore.

Pertanto tutte le ingiurie espresse in presenza soltanto dell'ingiuriato non potranno trovare dimostrazione in giudizio e non potranno, di conseguenza, essere risarcite. Le dichiarazioni testimoniali di persone che hanno assistito al fatto e udito le offese restano, infatti, la prova più importante e più sicura dello stesso.

Ne discende che, a meno che non si tratti di un'ingiuria formalizzata per iscritto (per esempio, a mezzo lettera, a mezzo social network, a mezzo chat), l'ingiuria subita, alla quale non abbia assistito nessuno, non sarà più dimostrabile, se non attraverso una confessione da parte dell'autore dell'ingiuria medesima (circostanza, questa, alquanto improbabile).

Ciò non esclude, però, che la prova dell'offesa ricevuta possa essere fornita con prove scritte o registrazioni audio.

A tal riguardo, la registrazione delle offese ricevute, nel rispetto delle norme dettate a tutela della privacy delle persone può essere utilizzata in giudizio, anche se è prova soggetta a contestazione. E', quindi, sempre possibile registrare o videoregistrare (tramite smartphone o altro apparecchio tecnologico) il momento durante il quale si consuma un'ingiuria, purché (Cass., sez. III,sent. n. 18908/2011) non si diffonda le conversazioni per scopi diversi rispetto alla necessità di dover tutelare un diritto proprio o un diritto altrui.

La c.d. testimonianza “de relato”, cioè relativa a cose sentite e riportate da altre persone, non potrà essere considerata una prova del fatto.

La liquidazione dei danni

Unica forma possibile di liquidazione di danni privi di caratteristiche patrimoniali è quella equitativa (ex multis, v. Cass. n. 11039/2006 e Cass. n. 6519/2004). Per Cass. Civile, sez. III, n. 25171/2007, la liquidazione del danno morale conseguente alla lesione dell'onore o della reputazione, allo stesso modo di quanto è previsto per ogni altro risarcimento del danno da fatto illecito, deve, invero, essere rimessa alla valutazione del giudice, sfuggendo necessariamente ad una precisa valutazione analitica e restando essa affidata al criterio dell'equità.

È quindi logicamente escluso che il giudice abbia l'obbligo - in assenza di parametri normativi di commutazione - di scandire gli specifici elementi valutativi da lui considerati nella quantificazione della entità del danno e della correlata dimensione del ristoro pecuniario, a fronte di accertati comportamenti, che inequivocabilmente siano da ritenere - secondo la comune esperienza e secondo consolidati criteri della civile convivenza - fonte di sofferenza per chi ne sia stato investito (C. Cecchetti, Risarcimento del danno da ingiuria, su Ri.Da.Re. 18 luglio 2016).

L'illecito produce certamente un danno morale, come tale riconducibile alla più generale categoria del danno non patrimoniale.

Per il danno, in tanto una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, in quanto esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare.

Gli aspetti generali che possono incidere sull'entità del danno (e del conseguente risarcimento) sono prevalentemente riconducibili al numero e alla gravità delle offese arrecate. Anche il mezzo utilizzato per esporre l'ingiuria alla vittima (l'art. 594 c.p. faceva riferimento anche a scritti e disegni) può influire sull'entità del danno.

Sul piano statistico, i parametri comunemente utilizzati sono quelli della gravità dell'addebito, della sua evidenza, della qualità del soggetto offensore e di quello leso, nonché – infine – dell'incidenza sulla vita di relazione della persona offesa (Cass. Civile, sez. III, n. 25171/2007).

Canoni interpretativi di portata generale per valutare l'offensività di un'espressione sono:

1) il contesto spazio-temporale: l'espressione ingiuriosa deve essere contestualizzata nell'occasione in cui viene pronunciata (Cass. pen., sez. V, sent., n. 32907/2011), avendo riguardo alla sensibilità sociale dei presenti;

2) il rapporto tra il significato oggettivo dell'espressione ingiuriosa ed il significato specificamente attribuito dalle parti (offensore ed offeso). Secondo questo criterio, l'espressione «non rompermi le scatole» veniva giudicata intrinsecamente offensiva nel risalente 1986 (Cass. pen., sez. V, sent., n. 5708/1986) e, al contrario, valutata come penalmente irrilevante a partire dal 2005 (Cass. pen., sez. V, sent., n. 39454/2005; Cass. pen., sez. V, sent., n. 21264/2010).

La sanzione pecuniaria

La principale novità, rispetto ai comuni illeciti civili, sta nel fatto che il giudice civile (art. 8 d.lgs. n. 7/2016), che dovesse riconoscere un risarcimento alla persona ingiuriata secondo gli ordinari parametri del risarcimento da fatto illecito, ‘potrà' irrogare anche una «sanzione pecuniaria civile» in favore dello Stato (da un minimo di € 200,00 ad un massimo di € 12.000,00; artt. 3 - 5 d.lgs. n. 7/2016), che va a sostituire la pena della reclusione precedentemente prevista. Tale eventualità richiede, tuttavia, che la persona offesa abbia promosso una causa civile (nessun automatismo è previsto da parte dell'Amministrazione Pubblica).

Pertanto, al termine del processo civile, il giudice (il potere di irrogazione della sanzione spetta, dunque, al medesimo giudice competente a conoscere della domanda risarcitoria), d'ufficio, a prescindere cioè da una richiesta specifica dell'attore, in caso di condanna del colpevole al risarcimento del danno, comminerà a quest'ultimo anche la sanzione civile, che oscillerà nell'ambito del range in precedenza indicato in base alla gravità della violazione, alla reiterazione dell'illecito, all'opera svolta dall'agente per eliminare o attenuare le conseguenze dell'illecito, ecc.

Sembra che il giudice non possa, ma piuttosto debba irrogare la detta sanzione per il caso in cui sia accolta la domanda risarcitoria (stando alla formulazione dei primi due commi dell'art. 8 del d.lgs., ove si legge che le sanzioni pecuniarie civili sono applicate dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno e, per altro verso, che egli decide sull'applicazione della sanzione civile pecuniaria al termine del giudizio, qualora accolga la domanda di risarcimento del danno proposta dalla persona offesa).

Trattasi di sanzione pecuniaria che, di per sé, non si trasmette agli eredi (art. 9, comma 6) ed il cui provento è devoluto a favore della Cassa delle ammende (art. 10); pronuncia, quella sanzionatoria, rispetto alla quale la condanna al risarcimento del danno si appalesa come elemento pregiudiziale necessario. La decisione in ordine alla pretesa punitiva dello Stato è, cioè, condizionata dalla decisione sulla pretesa risarcitoria fatta valere dall'attore: se la domanda dell'attore è rigettata, non è irrogabile la sanzione pecuniaria civile. Dunque, l'insussistenza della pretesa risarcitoria del privato rende non ipotizzabile la sussistenza della pretesa punitiva dello Stato.

I fatti costitutivi delle due pretese (quella risarcitoria e quella sanzionatoria) saranno inevitabilmente differenti: ai fini della sussistenza della pretesa punitiva dello Stato, occorrerà il dolo del colpevole, rivelandosi per contro sufficiente, ai fini del risarcimento del danno, anche la sola colpa. Analogamente, per quanto concerne i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi suscettibili di essere fatti valere sub specie di eccezione, non vi è coincidenza tra risarcimento e sanzione: basti pensare al fatto che, nel caso di ingiuria, lo stato d'ira del colpevole determinato da fatto ingiusto altrui, sempre che la condotta illecita fosse stata posta in essere nell'immediatezza, non consentiva la punizione, mentre essa non rileva nella decisione relativa alla pretesa risarcitoria (art. 4, comma 3), o, ancora al fatto che, se le offese sono reciproche, il giudice può non applicare la sanzione pecuniaria civile ad uno o ad entrambi gli offensori (art. 4, comma 2).

Con riguardo, in particolare, allo stato d'ira del convenuto (che scrimina solo alla duplice condizione che esso, per un verso, sia stato provocato da un fatto ingiusto altrui e che, per altro verso, il comportamento per così dire reattivo sia stato immediato), tutti gli elementi fattuali rilevanti devono essere allegati dal convenuto o, comunque, risultare dagli atti, con la conseguenza che egli subirà la sanzione pecuniaria civile se, risultando provati i relativi fatti costitutivi della pretesa punitiva dello Stato, non risultano provate alcune o tutte le circostanze rilevanti in relazione alla questione "scriminante".

Dubbi si pongono nella dottrina, che per prima ha commentato la novella legislativa, quanto all'attuazione del principio del contraddittorio, al rapporto tra poteri di parte e poteri del giudice, nonché all'operare in concreto del regime delle preclusioni.

Quanto al contraddittorio, all'art. 8 comma 3 si legge che la «sanzione pecuniaria civile non può essere applicata quando l'atto introduttivo del giudizio è stato notificato nelle forme di cui all'articolo 143 del codice di procedura civile, salvo che la controparte si sia costituita in giudizio o risulti con certezza che abbia avuto comunque conoscenza del processo»: viene, dunque, esclusa l'irrogabilità della sanzione con riguardo agli irreperibili, ma non anche nei confronti dei contumaci.

Quanto, poi, all'equilibrio tra i poteri di parte ed i poteri del giudice, è evidente come, rispetto ai fatti ed alle questioni rilevanti per la pretesa punitiva dello Stato, il principio inquisitorio prevalga sul principio dispositivo, andando per certi versi anche oltre il divieto di scienza privata, tipico del processo civile.

Infine, l'art. 7 della normativa in commento specifica che, quando più persone concorrono nell'illecito, ciascuna di esse soggiace alla sanzione pecuniaria civile per esso stabilita.

Aspetti processuali, e non, da tenere presenti

Il soggetto leso ha la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in sede civile, tramite un preliminare invito ad una negoziazione assistita, obbligatorio se la pretesa risarcitoria è inferiore a 50.000,00 euro.

Il diritto al risarcimento, in quanto illecito extracontrattuale, si prescrive in cinque anni, così come in cinque anni si prescrive il pagamento della sanzione civile verso lo Stato.

Casistica

• Non hanno contenuto ingiurioso le espressioni finalizzate a dichiarare insofferenza (nel caso di specie l'imputato aveva usato l'espressione «… mi hai rotto i coglioni» nel corso di una animata discussione) (Cass. pen., sez. V, sent., n. 19223/2012).

• Ha natura offensiva l'espressione «zappatore», qualora nel contesto in cui sia pronunciata rivesta il significato di «incompetente» (Cass. pen., sez. V, sent. n. 30187/2011).

• Il verbale di un processo civile contenente un'espressione ingiuriosa può essere validamente acquisito nel procedimento penale quale documento dotato di pubblica fede ai sensi dell'articolo 234 c.p.p. (Cass. pen., sez. V, sent., n. 22601/2010).

• Apporre sulla porta del garage del vicino un cartello con la dicitura «siete dei ladri» integra il reato di ingiuria (essendo rivolto direttamente al destinatario) e non quello di diffamazione (Cass. pen., sez. V, sent., n. 19544/2010).

• Il genitore che utilizzi espressioni volgari nei confronti della propria figlia non può invocare a propria difesa lo ius corrigendi (Cass. pen., sez. V, sent., n. 12521/1994); analogamente risponde del reato di ingiuria l'insegnante che si rivolga ad un alunno minorenne con gli epiteti «stupido, imbecille, idiota e omosessuale» (Cass. pen., sez. V, sent., n. 12510/1994).

  • Al fine dell'accertamento dell'idoneità dell'espressione utilizzata a ledere il bene protetto, occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell'offeso e dell'offensore, nonché al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata; nel contempo è necessario considerare che l'uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale; ne consegue che l'espressione “sei pazzo”, rivolta all'indirizzo della persona offesa, in un contesto di conflittualità tra coniugi, non determina automaticamente la lesione del detto bene, non concretandosi in un giudizio di disvalore sulle qualità personali del destinatario (Cass. pen., sez. V, sent., n. 50969/2014).
  • Poiché occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale, in rapporto alle personalità dell'offeso e dell'offensore, unitamente al contesto nel quale l'espressione è pronunciata ed alla coscienza sociale, è stata ritenuta non ingiuriosa l'espressione "sta esaurita", pronunciata dall'imputato durante una polemica sorta a seguito del parcheggio della sua autovettura dinanzi all'autorimessa della persona offesa, osservando, tra l'altro, che detta espressione non necessariamente assume nel linguaggio comune il significato di critica allo stato di equilibrio psichico o di attribuzione di una patologia mentale al soggetto nei cui confronti è indirizzata (Cass. pen., sez. V, sent., n. 46488/2014).
  • Riveste carattere ingiurioso l'espressione "disonesto" rivolta ad un professionista esercente una pubblica funzione, in quanto la stessa, facendo riferimento alla adozione di scelte ed iniziative in violazione di regole comuni, si presta ad essere recepita come indicativa di comportamenti illeciti (Cass. pen., sez. V, sent., n. 30518/2014).

Nella vigenza del reato penale, avuto riguardo alla coscienza sociale, sono state riconosciute come lesive dell'onore e della reputazione altrui le espressioni "bastardo" e "mascalzone", mentre non è stata riconosciuta alcuna carica offensiva all'espressione “non rompermi le scatole”; in politica, in generale, si è ritenuto che l'esercizio del diritto di critica potesse rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriose, tese a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, non dovendo però la stessa palesemente travalicare i limiti della convivenza civile, mediante offese gratuite, come tali prive della finalità di pubblico interesse, e con l'uso di argomenti che, lungi dal criticare i programmi e le azioni dell'avversario, mirassero soltanto ad insultarlo o ad evocarne una pretesa indegnità personale.

In conclusione

La dimensione civilistica dell'onore è, come si è visto, differente da quella dominante nel campo penale, ciò specie in quanto la tipicità delle disposizioni penali fissa(va) in misura più rigida la consistenza del bene tutelato. La concezione civilistica, invece, è svincolata da parametri “medi” di onorabilità e rispettabilità e si caratterizza per una maggiore ampiezza, finendo col ricomprendere molteplici aspetti della personalità.

È, peraltro, opportuno evidenziare che la giurisprudenza civilistica riconosce la risarcibilità del danno (anche non patrimoniale) derivante dal detto fatto illecito, e ciò a prescindere dall'accertamento in sede penale di un fatto costituente reato (v., tra le altre, Cass. III n. 22190/2009 e Cass. III n. 25157/2008).

È chiaro che, esclusi i casi di ingiuria ed offesa palesi ed eclatanti, la linea di demarcazione tra l'offesa all'onore e al decoro di una persona e l'espressione forte ma non lesiva della dignità altrui è molto sottile ed a volte incerta.

Non sempre nella realtà dei fatti è semplice, quindi, circoscrivere l'ambito del reato, complice anche il clima di “leggerezza sociale” e di “maleducazione autorizzata” che in certi ambienti si respira (Cass. n. 34599/2008).

Peraltro, in tema di tutela dell'onore, ancorché in generale, al fine di accertare se sia stato leso il bene protetto, sia necessario fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata, esistono, tuttavia, limiti invalicabili, posti dall'art. 2 Cost., a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e, dunque, per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utilizzate ioci causa (cfr. Cass. pen. n. 19070/2015).

Ciò non esclude che non integrano la condotta di ingiuria le espressioni verbali, caratterizzate da terminologia scorretta e ineducata, che pur risolvendosi in dichiarazioni di insofferenza rispetto all'azione del soggetto nei cui confronti sono dirette, non si traducono in un oggettivo giudizio di disvalore sulle qualità personali dello stesso, e che risultano ormai accettate dalla coscienza sociale secondo un criterio di media convenzionale.

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