I criteri da utilizzare da parte del giudice di merito per determinare la durata minima della misura di sicurezza detentiva

Leonardo Degl'Innocenti
26 Marzo 2021

Ai fini della determinazione della durata minima della misura di sicurezza del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.) di cui all'art. 222 c.p., il giudice di merito è tenuto a valutare la ricorrenza o meno delle circostanze aggravanti e attenuanti...
La massima

Ai fini della determinazione della durata minima della misura di sicurezza del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.) di cui all'art. 222 c.p. il giudice di merito è tenuto a valutare la ricorrenza o meno delle circostanze aggravanti e attenuanti, comprese le attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis c.p., procedendo ad effettuare il giudizio di comparazione di cui all'art. 69 c.p., essendo viceversa irrilevante la riduzione pena prevista per l'eventuale scelta del rito speciale da parte dell'imputato.

Il caso

L'imputato è stato condannato, all'esito del giudizio abbreviato, previo riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 89 c.p. (vizio parziale di mente) ed escluse le attenuanti generiche, alla pena di anni dieci di reclusione per il delitto di omicidio commesso in danno della madre.

Il giudice di primo grado aveva accertato, sulla base di due consulenze di parte (pubblica e privata) che l'imputato al momento della commissione del fatto risultava affetto da un disturbo schizotipico (o paranoide) della personalità tale da non escludere del tutto la capacità di intendere e di volere.

La perizia psichiatrica disposta d'ufficio dalla Corte di Assise d'Appello ha consentito di accertare che al momento della commissione del fatto l'imputato risultava affetto da schizofrenia paranoide, connotata da episodi di delirio e allucinazioni uditive, la cui gravità è tale da escludere la capacità di intendere e di volere.

In ordine alla pericolosità sociale la perizia concludeva affermando che l'imputato doveva ritenersi affetto da “una condizione patologica capace di riesplodere in assenza di adeguata terapia farmacologica”.

Sulla scorta di tali elementi il giudice d'appello, in riforma della sentenza impugnata, ha prosciolto l'imputato in quanto totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto ed ha disposto nei confronti del medesimo l'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.), da attuarsi mediante, l'inserimento in una R.E.M.S., per la durata minima di anni dieci ai sensi dell'art. 222, comma 2 c.p.

A tal fine la Corte di Assise d'Appello ha osservato che per il fatto commesso dall'imputato (omicidio aggravato dalla qualità personale della vittima) è prevista la pena dell'ergastolo, senza tuttavia pronunciarsi sul motivo di impugnazione relativo all'applicazione delle attenuanti generiche escluse dal giudice di primo grado.

Avverso la sentenza della Corte l'imputato ha proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi.

Con il primo il ricorrente ha dedotto il mancato esame del motivo di appello relativo alle attenuanti generiche che, se ritenute prevalenti sull'aggravante della qualità personale della vittima, avrebbero potuto determinare la riduzione della durata minima della misura di sicurezza da dieci a cinque anni, in virtù di quanto dispone l'art. 222, comma 2, seconda parte, c.p.

Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto il difetto di motivazione in ordine ai criteri seguiti dalla Corte per la scelta della misura di sicurezza applicata, avendo il giudice di secondo grado applicato in modo “automatico” la misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. senza indicare le ragioni della inidoneità di misure diverse e meno afflittive a fronteggiare adeguatamente la pericolosità sociale dell'imputato.

La Corte con la sentenza in commento ha ritenuto fondati entrambi i motivi ed ha annullato con rinvio la decisione impugnata.

Le misure di sicurezza e la pericolosità sociale

Ai sensi degli artt. 202 e 203 c.p. l'applicazione della misura di sicurezza presuppone che la persona abbia commesso un fatto previsto dalla legge come reato (salvi i casi eccezionali di quasi-reato individuati dagli artt. 49 e 115 c.p.) e che la stessa risulti socialmente pericolosa. L'accertamento della pericolosità sociale deve essere compiuto dal giudice della cognizione prima e dal giudice di sorveglianza poi sulla base delle circostanze indicate dall'art. 133 c.p.

Con riguardo ai reati commessi da persone riconosciute totalmente o parzialmente incapaci di intendere o di volere occorre inoltre che sia stato accertato preciso nesso eziologico tra il disturbo mentale, che ha escluso o ridotto la capacità di intendere e di volere, e la condotta criminosa per effetto del quale la seconda costituisce manifestazione del primo.

Occorre tuttavia tener presente che la prognosi di pericolosità sociale “non può limitarsi all'esame delle sole emergenze di natura medico-psichiatrica, ma implica la verifica globale delle circostanze indicate dall'art 133 c.p., espressamente richiamato dall'art. 203 dello stesso codice, fra cui la gravità del reato commesso e la personalità del soggetto, così da approdare ad un giudizio di pericolosità quanto più possibile esaustivo e completo” (Cass. pen., sez. I,11 maggio 2017, n. 43631; Cass. pen., sez. I,12 gennaio 2021, n. 3925).

Nel sistema vigente, superate, per effetto della l. n. 633/1986 (c.d. legge Gozzini), le presunzioni di pericolosità, la concreta esecuzione della misura di sicurezza è subordinata all'accertamento che la pericolosità, ritenuta sussistente dal giudice della cognizione che ne ha disposto l'applicazione, persista anche dopo l'irrevocabilità della sentenza.

L'esecuzione della misura di sicurezza presuppone l'attualità della pericolosità sociale e l'accertamento di tale elemento è riservato alla competenza funzionale della magistratura di sorveglianza.

In argomento, la Cassazione (Cass. pen., sez. I, 13 novembre 2020, n.2355) ha affermato che “l'accertamento riguardante l'attuale pericolosità sociale del condannato, da cui dipende la concreta esecuzione, a pena espiata, della misura di sicurezza a lui già irrogata in sentenza, implica la valutazione, da parte della magistratura di sorveglianza, sia della gravità del fatto reato, sia dei fatti successivi, e in particolare del comportamento mantenuto in corso di espiazione, quale risultante delle relazioni comportamentali e delle decisioni già assunte in ordine ai benefici penitenziari, ovvero dopo la riacquistata libertà” (cfr. anche Cass. pen., sez. I, 27 novembre 2018, n.8242).

La Cassazione inoltre (Cass. pen., sez. I,10 dicembre 2020, n.4795) ha ribadito che il concetto di pericolosità sociale “va riferito alla condizione della persona che ha commesso un fatto reato o un quasi-reato e si trova in condizioni per cui è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La prognosi di pericolosità sociale deve necessariamente verificare l'esistenza delle condizioni che consentono di affermare un persistente pericolo di commissione in futuro di altri reati, esaminando, di certo, la personalità del soggetto, ma giammai obliterando l'analisi dei fatti già commessi dal reo e gli altri parametri stabiliti dalla legge, in primis dall'art. 133 c.p., per valutare, ratione cognita, l'effettivo pericolo di recidiva. Pertanto, quando si tratta, come nel presente caso di applicare in concreto, anche in sede di proroga, la misura di sicurezza disposta in sede di cognizione non sussiste dubbio che occorra accertare l'attualità della pericolosità sociale. E nel compiere il nuovo accertamento i giudici di sorveglianza - per verificare se persista la condizione di pericolosità sociale, intesa come accentuata possibilità di commettere, in futuro, altri reati - devono tener conto non soltanto della gravità dei fatti-reato commessi, ma anche dei fatti successivi e del comportamento tenuto dal condannato durante e, dopo, l'espiazione della pena quale risultante dalle relazioni comportamentali e dall'eventuale concessione di benefici penitenziari o processuali, effettuando così la già prefigurata valutazione alla stregua dei criteri di cui all'art. 133, comma 1 e 2,c.p., globalmente valutati”.

Il giudice di sorveglianza in sede di accertamento dell'attualità della pericolosità sociale ex art. 679 c.p.p. non può sostituire la misura di sicurezza della libertà vigilata disposta in sentenza dal giudice della cognizione con quella dell'assegnazione ad un casa di lavoro o a una colonia agricola, anche nel caso in cui nelle more siano sopravvenuti fatti indicativi di una maggiore pericolosità sociale del condannato, ostandovi la mancanza di una espressa previsione di legge in tal senso” (Cass. pen., sez. I,25 giugno 2019, n.37843).

Nella motivazione la Corte ha affermato che la “materia delle misure di sicurezza è presidiata dal principio di legalità” ex artt. 25, comma 3, Cost. e 199 c.p., pertanto “la legge deve indicare tassativamente i casi nei quali può essere applicata la misura di sicurezza e determinare il tipo di misura applicabile, anche con riferimento alle ipotesi di sostituzione o trasformazione della misura medesima”.

Ne consegue che la sostituzione della libertà vigilata con l'assegnazione del condannato ad una casa di lavoro può essere disposta nel caso previsto dall'art. 231 c.p. in presenza di gravi trasgressioni delle prescrizioni da parte della persona sottoposta alla libertà vigilata (trattasi di uno dei casi previsti dalla legge ai quali allude l'art. 216, n.3, c.p.), mentre per le ragioni esposte non sembra condivisibile la prassi, seguita da ampi settori della magistratura di sorveglianza, di disporre, in sede di accertamento dell'attualità della pericolosità sociale del reo, la sostituzione della misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato applicata dal giudice della cognizione con quella della libertà vigilata.

Ancora deve essere evidenziato come il controllo di legalità che compete al giudice di sorveglianza in ordine all'applicazione ed all'esecuzione di una misura di sicurezza non si estenda alla verifica della regolarità del procedimento penale di cognizione all'esito del quale sia stata disposta la misura in quanto si tratta di un profilo demandato al sistema ordinario delle impugnazioni interne al procedimento penale stesso (Cass. pen., sez. I, 29 ottobre 2019, n. 51892: nel caso di specie, la S.C. ha rigettato il ricorso proposto avverso l'ordinanza del giudice di sorveglianza di proroga della durata della libertà vigilata basato sulla ritenuta illegalità genetica della predetta misura di sicurezza non detentiva disposta dal giudice della cognizione per difetto di imputabilità con la sentenza di non luogo a procedere in violazione dell'art. 425, comma 4, c.p.p.).

La misura di sicurezza benché assuma di fatto un evidente carattere afflittivo, si connota essenzialmente per la funzione di prevenzione speciale essendo finalizzata a neutralizzare, anche mediante interventi a carattere terapeutico, la pericolosità sociale della persona che abbia commesso un reato (o quasi reato).

Coerentemente con tale finalità il legislatore del 1930 non aveva predeterminato la durata massima della misura di sicurezza, ma solo quella minima: la durata della misura di sicurezza era dunque destinata a protrarsi, attraverso il meccanismo delle proroghe di cui all'art. 208 c.p., fino a quando non fosse accertato il venir meno della pericolosità sociale della persona.

Su questi aspetti della disciplina delle misure di sicurezza delineata dal codice penale è intervenuta prima la Corte costituzionale e poi, in epoca più recente, il legislatore.

Con la sentenza n. 110/1974 la Corte costituzionale ha attribuito all'interessato il diritto di chiedere la revoca anticipata della misura di sicurezza: anticipata in quanto può intervenire anche durante il “periodo legale” di sottoposizione alla misura quindi prima della scadenza del termine finale che corrisponde alla c.d. durata minima predeterminato dalla legge e che costituiva espressione di una presunzione legale di persistenza della pericolosità.

Analogo provvedimento di revoca può, poi, intervenire anche in caso di proroga della durata della misura di sicurezza ex art. 208 c.p. prima della scadenza del termine prorogato.

In materia di revoca anticipata, la Corte di cassazione (Cass. pen.,sez. I,13 luglio 2020, n.4021) ha riaffermato il principio secondo cui “la revoca anticipata della misura di sicurezza deve essere esclusa se la persona ad essa sottoposta non ha cessato di essere pericolosa e tale accertamento va condotto in termini di assoluta certezza sulla base di fatti sopravvenuti e concludenti, posto che, ai fini della revoca della misura di sicurezza, non è sufficiente il dubbio del superamento della pericolosità, dovendo ottenersi al contrario, la prognosi certa del superamento della già accertata pericolosità”. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che gli elementi evidenziati dal Tribunale di sorveglianza nella motivazione dell'ordinanza gravata da ricorso erano oggettivamente idonei ad escludere che potesse ritenersi cessata la pericolosità sociale del condannato: i giudici di merito (magistrato di sorveglianza prima e Tribunale di sorveglianza in sede di appello ex art. 680 c.p.p. poi) avevano escluso la sussistenza delle condizioni per disporre la revoca anticipata in ragione “della nutrita e allarmante biografia giudiziaria” del condannato, riconosciuto colpevole di numerosi e gravi delitti (cinque omicidi, occultamento di cadavere, due tentati omicidi; favoreggiamento personale, detenzione illegale di armi, associazione di tipo mafioso, tentata rapina e sequestro di persona); l'esito negativo della semilibertà, dichiarata cessata perché il condannato aveva tentato di conseguire la patente di guida senza sostenere l'esame; l'assenza di segnali concreti di distacco dal sodalizio criminale al quale era stato affiliato (clan Santapaola-Ercolano) e la frequentazione di persone gravitanti o contigue alla predetta associazione, circostanze ritenute indicative di una “personalità non ancora improntata al pieno rispetto della legalità e non ancora affrancata dal condizionamento degli ambienti criminali nei quali si è sviluppata”.

Tali elementi sono stati considerati sufficienti a giustificare il rigetto della domanda di revoca anticipata, pur in presenza, relativamente all'ultima fase della carcerazione, di una corretta condotta detentiva, ritenuta, correlativamente, di per sé insufficiente a far ritenere cessata la pericolosità sociale.

Il dl. n.52/2014, convertito nella l. n. 81/2014, ha introdotto il principio in forza del quale la durata della misura di sicurezza detentiva, definitiva o provvisoria, coincide col massimo edittale, da determinarsi secondo i criteri stabiliti dall'art. 278 c.p.p., previsto dalla legge per il reato in relazione al quale la misura di sicurezza è stata disposta: si è così previsto un limite massimo oltre il quale la misura di sicurezza detentiva non può essere prorogata, salvo il caso in cui per il reato commesso sia prevista la pena dell'ergastolo (Cass. pen., sez. I,13 giugno 2019, n.41230, ha statuito che in caso di misura di sicurezza applicata a seguito della dichiarazione di abitualità nel reato, il limite di durata massima deve essere individuato con riferimento al massimo edittale previsto per il reato più grave tra quelli per i quali il reo è stato condannato).

Le misure di sicurezza non detentive continuano, invece, a non avere una durata massima e sono, di conseguenza, destinate a protrarsi, attraverso il ricordato meccanismo delle proroghe disposte ai sensi dell'art. 208 c.p., sino a quando non sia accertata la cessazione di pericolosità sociale del sottoposto.

Determinazione della durata minima della misura di sicurezza

La prima questione affrontata nella sentenza in esame riguarda i criteri ai quali il giudice della cognizione deve attenersi per determinare la durata minima della misura di sicurezza (nel caso di specie il ricovero in O.P.G.).

La Corte muove dall'esame del dettato dell'art. 222, comma 2,c.p. che ancora la durata della misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. (da attuarsi dopo la riforma di cui al decreto legge n. 22 dicembre 2011 n.211 mediante l'internamento in strutture a carattere esclusivamente sanitario denominate R.E.M.S., acronimo di Residenza per l'Esecuzione di Misure di Sicurezza) alla pena stabilita dalla legge per “il fatto commesso”: dieci anni, se la legge prevede la pena dell'ergastolo, cinque, se la norma incriminatrice prevede la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni.

Nel caso di specie essendo stata accertata la commissione del delitto di omicidio aggravato dalla qualità personale della vittima, quindi di un delitto per il quale la legge stabilisce (artt. 575 e 576, comma 1, n. 2,c.p.), la pena dell'ergastolo, la Corte di Assise d'Appello aveva determinato la durata minima della misura in anni 10.

Nella motivazione la Corte ha affermato che il collegamento instaurato dall'art. 220, comma 2,c.p. tra “fatto commesso” e la pena prevista dalla legge impone al giudice di procedere al “compiuto apprezzamento del fatto, inteso sia nella sua dimensione effettuale che in quella giuridica, con considerazione di elementi essenziali e accidentali”, dovendosi adeguare la misura di sicurezza al concreto grado di pericolosità sociale dell'imputato.

Nel procedere a tale valutazione il giudice se, da un lato, non deve tener conto della riduzione pena prevista per l'eventuale scelta del rito speciale, trattandosi di aspetto estraneo tanto alla personalità dell'agente, quanto al fatto posto in essere, dall'altro, è tuttavia tenuto a valutare la ricorrenza di circostanze aggravanti ed attenuanti, realizzando il giudizio di comparazione di cui all'art. 69 c.p.

Tale principio, già affermato dalla Cassazione (Cass. pen., sez. I,12 novembre 2009, n. 46930) è stato ribadito dalla sentenza in esame anche con riguardo alle attenuanti generiche profilo sul quale la Corte di Assise d'Appello non si era pronunciata ritenendo che non vi fosse interesse da parte del prevenuto proprio in ragione del proscioglimento con applicazione di misura di sicurezza, interesse che, viceversa, deve ritenersi sussistente in quanto l'applicazione, in sede di valutazione del fatto, ed il relativo giudizio di comparazione avrebbero potuto determinare una diversa (e minore) durata minima della misura di sicurezza (cinque anni anziché dieci).

Occorre tuttavia rammentare che in caso di concessione della diminuente di cui all'art. 89 c.p. (vizio parziale di mente) deve escludersi che la seminfermità mentale possa costituire un elemento idoneo a giustificare la concessione delle attenuanti generiche: diversamente opinando, infatti, il medesimo elemento verrebbe ad essere valutato in favorem rei per due volte (prima come attenuante specifica e poi come attenuante generica - così Cass. pen., sez. I,12 gennaio 2021, n.3925, che, comunque, ribadisce il principio della compatibilità tra seminfermità ed attenuanti generiche).

Scelta della misura di sicurezza

L'altra questione oggetto della sentenza in esame riguarda la scelta della misura di sicurezza da applicare in concreto alla luce del principio della residualità della misura detentiva del ricovero in O.P.G.

Nel caso di specie il giudice aveva applicato la misura da ultimo indicata senza tuttavia indicare le ragioni che inducevano a ritenere inidonea neutralizzare la pericolosità sociale dell'imputato una misura meno afflittiva (che, di fatto, è costituita dalla libertà vigilata).

La Corte costituzionale, con sentenza n. 253/2003, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 222 c.p. nella parte in cui la norma non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in O.P.G., una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure all'infermo di mente e a far fronte alla pericolosità sociale del medesimo.

Per completezza, occorre ricordare anche la sentenza n. 367/2004 con la quale la Corte costituzionale ha parimenti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 206 c.p. nella parte in cui non consente al giudice di applicare, in via provvisoria, anziché il ricovero in O.P.G., una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure all'infermo di mente ed a fare fronte alla sua pericolosità sociale.

A distanza di quasi un decennio il principio enunciato dalla Corte costituzionale è stato recepito dal legislatore: l'art. 3-ter, comma 4, dl. n. 211/2011, convertito in l. n. 9/2012 (modificato dal dl. n. 52/2014, convertito in l. n. 81/2004) stabilisce che la misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. può essere disposta solo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e fronteggiare adeguatamente la pericolosità sociale dell'infermo di mente; la norma aggiunge, in parziale deroga all'art. 203, comma 2, c.p., che l'accertamento della pericolosità sociale deve essere effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tener conto delle circostanze di cui all'art. 133, comma 2, n.4,c.p. (che, come noto, allude alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo).

È stato così codificato il principio della c.d. residualità dell'O.P.G. che impone al giudice, di cognizione prima, di sorveglianza poi, un preciso onere di motivazione in ordine alla scelta di applicare alla persona prosciolta, perché totalmente non imputabile al momento della commissione del fatto, la misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. in luogo di una misura meno afflittiva, che di regola si identifica con la libertà vigilata (Cass. pen., sez. VI,18 novembre 2015, n.49469; Cass. pen., sez. VI, 22 giugno 2016, n.30461: nel caso di specie la Corte ha ritenuto legittima l'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in Casa di Custodia e Cura disposta dal giudice di merito in ragione del “grave disturbo di personalità che comporta anche la scarsa consapevolezza della malattia”, della pervicacia mostrata dell'imputato nel mantenere una condotta minacciosa e violenta, dei precedenti specifici, della conflittualità del rapporto dell'imputato con il centro di salute mentale e della “discontinuità del suo cooperare nel trattamento terapeutico sottraendosi spesso alle indicazioni farmacologiche ”).

Tale principio è stato ribadito anche dalla sentenza in commento che in motivazione sottolinea come il legislatore abbia inteso affermare “quel principio di proporzionalità e necessaria graduazione degli effetti contenitivi delle misure di sicurezza personali a carico dei non imputabili…. in un quadro che è teso alla necessità di cura”.

Nella prassi è molto frequente che in ossequio al principio della residualità del ricovero in O.P.G. il giudice disponga nei confronti della persona totalmente o parzialmente inferma di mente l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata da attuarsi all'interno di una struttura con l'obbligo di sottoporsi al programma terapeutico definito dal Servizio Psichiatrico di riferimento.

Sul punto deve essere segnalata Cass. pen.,sez. I,14 settembre 2020, n.28575, secondo cui in caso di applicazione della libertà vigilata con obbligo di dimora presso una comunità di recupero e obbligo di seguire un programma terapeutico è illegittima la prescrizione impositiva a carico dell'interessato del divieto di allontanarsi, anche temporaneamente, dalla comunità senza la preventiva autorizzazione del giudice o dei sanitari.

Secondo la Corte tale prescrizione appare incompatibile con il carattere non detentivo della libertà vigilata (cfr. nello stesso senso anche Cass. pen., sez. I, 22 maggio 2015, n.33904; Cass. pen., sez. II,11 novembre 2014, n.49497), implicando la “sostanziale trasfigurazione della libertà vigilata in una misura detentiva”.

Per converso è legittima la prescrizione impositiva del divieto di allontanamento in determinate fasce orarie e comunque per finalità incompatibili con il programma terapeutico, trattandosi di prescrizioni funzionali all'esecuzione di tale programma che non snaturano il carattere non detentivo della misura di sicurezza, non comportando alcun sacrificio aggiuntivo alla libertà di movimento rispetto a quello che inerisce a qualsiasi percorso di cura (Cass. pen., sez. I,12 novembre 2019, n.50383).

La violazione delle prescrizioni della libertà vigilata comporta l'aggravamento della misura che, in concreto, consiste nella applicazione di una misura di sicurezza detentiva, quindi nella sostituzione della libertà vigilata con il ricovero in Casa di Custodia e Cura da attuarsi sempre mediante l'inserimento in una R.E.M.S. (se la libertà vigilata è stata applicata a persone prosciolte perché ritenute totalmente incapaci di intendere e di volere, oppure condannate a pena ridotta perché riconosciute seminferme - cfr. art.232 c.p.) ovvero con l'internamento del condannato in una casa di lavoro o in una colonia agricola (se la libertà vigilata era stata applicata ad una persona pienamente imputabile - cfr. l'art. 231 c.p.).

Con specifico riferimento all'ipotesi dell'applicazione della libertà vigilata ad un soggetto prosciolto perché ritenuto totalmente incapace di intendere e di volere, la Corte di Cassazione ha evidenziato come l'art. 232, comma 3, c.p. preveda la sostituzione della predetta misura di sicurezza solo con quella del ricovero in Casa di Custodia e Cura, misura applicabile ex art. 219 c.p. ai condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente, poiché, al momento in cui la norma è stata formulata, in caso di assoluzione di vizio totale di mente l'unica misura di sicurezza applicabile era, ai sensi dell'art. 222 c.p. e secondo quanto ricordato, il ricovero in O.P.G., mentre ora a seguito del parimenti ricordato intervento operato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253/2003 la libertà vigilata è applicabile anche in caso di assoluzione per vizio totale di mente con conseguente possibilità di sostituire la libertà vigilata, in caso di violazione delle relative prescrizioni, con il ricovero in O.P.G. (Cass. pen., sez. I, 20 ottobre 20210, n. 39804).

Deve, comunque, essere nuovamente ricordato come entrambe le predette misure di sicurezza detentive trovino ora esecuzione in R.E.M.S.

In conclusione

Ai fini della sostituzione della libertà vigilata con la Casa di Lavoro o la Colonia Agricola, occorre dunque che la trasgressione delle violazioni sia connotata o dalla reiterazione delle condotte inosservanti, oppure che si tratti di una violazione di particolare gravità tale “da rendere necessario ricorrere a una misura di natura restrittiva, che evidentemente sia ritenuta come l'unico argine in grado di contenere il rischio di nuove condotte penalmente rilevanti. In entrambi i casi la misura detentiva deve essere applicata in presenza di una conclamata inutilità della libertà vigilata la quale, nel corso dell'esecuzione, si sia rivelata inidonea e realizzare lo scopo del dispositivo di contenimento, secondo quanto attestato dal fatto che il sottoposto abbia ripetutamente dimostrato di non volerne osservare le prescrizioni o abbia realizzato una trasgressione particolarmente grave che denoti una accresciuta pericolosità, non altrimenti gestibile. Presupposti, quelli per l'applicazione della misura detentiva, che non a caso l'art. 231 c.p. delinea in termini rigorosi, considerata la diretta incidenza sulla libertà personale e il possibile effetto di duplicazione dell'intervento sanzionatorio, dopo l'esecuzione della pena” (cfr. Cass. pen., sez. I, 9 luglio 2020, n.23857: nel caso di specie la Corte ha annullato l'ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza aveva disposto l'aggravamento della libertà vigilata, con conseguente applicazione dal condannato della misura detentiva della casa di lavoro, motivata con esclusivo riferimento al rinvenimento di 0,6 grammi di cocaina in occasione di una perquisizione domiciliare. Secondo la Corte non è possibile inferire da tale circostanza “un collegamento con contesti di particolare caratura criminale. Mentre la ricaduta nel consumo di sostanze non può essere interpretata, se non attraverso un giudizio del tutto astratto, come necessariamente indicativa di una futura ricaduta anche nel reato”).

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