Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti: tra tutela della privacy e revenge porn

Ferdinando Brizzi
30 Marzo 2021

La tutela dei dati personali “particolari” è frutto di una necessaria interazione tra normativa privacy e diritto penale nonché tra Istituzioni chiamate ad occuparsi di fenomeni allarmanti quali il revenge porn…
Massima

Esclusa la continuità normativa tra previgente ed attuale formulazione dell'art. 167 d.lgs. n. 196/2003 con riferimento all'illecita condotta diffusiva di immagini o video sessualmente espliciti, il Giudice ha il dovere di interrogarsi circa l'eventuale continuità normativa con altre disposizioni attualmente in vigore che riguardino l'illecita condotta diffusiva di immagini o video sessualmente espliciti: il riferimento è all'art. 612-ter c.p., che punisce, "salvo che il fatto non costituisce più grave reato, chiunque dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate".

Il caso

Il Supremo collegio è stato chiamato a pronunciarsi in merito ad un ricorso avverso un'ordinanza, emessa il 29 giugno 2020 dal Giudice monocratico presso il Tribunale di Brindisi, quale Giudice del rinvio dopo annullamento disposto dalla prima sezione penale della Cassazione. Il provvedimento impugnato aveva rigettato un'istanza di revoca parziale della sentenza di patteggiamento del Tribunale di Brindisi del 22 luglio 2015 con riguardo al reato di cui all'art. 167 d.lgs. n. 196/2003. Il ricorrente aveva patteggiato la pena anche, tra l'altro, rispetto a quest'ultima fattispecie, ascrittagli per avere inviato a familiari e colleghi di lavoro della persona offesa, nonché a testate giornalistiche ed alla Banca d'Italia, dove la persona offesa lavorava, diciotto mail da un indirizzo apparentemente riconducibile alla vittima, con allegati settantasette immagini e quindici file audio inerenti alla registrazione di un rapporto sessuale tra lo stesso ricorrente e la vittima e inoltre foto intime della figlia minorenne della donna.

La richiesta difensiva cui ha fatto seguito il provvedimento impugnato invocava – quanto al reato in discorso – la revoca della sentenza in parola, reputando che, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 101/2018, la condotta di cui all'art. 167 d.lgs. n. 196/2003 addebitata al ricorrente fosse stata depenalizzata. Il primo Giudice dell'esecuzione aveva respinto il reclamo, stimando che vi fosse continuità normativa tra il reato ascritto al predetto e la nuova disposizione di cui all'art. 167-bis d.lgs. n. 197/2003.

Il parziale annullamento del primo provvedimento reiettivo del Giudice dell'esecuzione da parte della prima sezione penale della Cassazione si fondava sulla circostanza che il Tribunale avesse fornito una motivazione viziata quanto all'anzidetta continuità normativa, mentre vi era un profilo di "seria criticità logica" rispetto a tale continuità, giacché la disposizione ex art. 167-bis concerne la diffusione di dati personali su larga scala. Né il provvedimento in quella sede impugnato – ha altresì sostenuto la Corte di cassazione – si era soffermato sulla eventuale continuità tra il vecchio ed il nuovo dettato dell'art. 167. Donde la prima sezione penale chiedeva al Giudice del rinvio di valutare se – rispetto al fatto concretamente ascritto al ricorrente, ma ponendo a raffronto le sole fattispecie astratte – vi fosse continuità normativa tra le fattispecie previste dal nuovo testo dell'art. 167 d.lgs. n. 196/2003 e quelle contemplate dal nuovo.

Il Giudice dell'esecuzione, dopo un'analisi strutturale delle due previsioni, ha concluso per la piena sussumibilità nel "nuovo" art. 167, comma 2, come novellato dal d.lgs. n. 101/2018, della condotta del ricorrente.

La questione

Contro l'anzidetta ordinanza del Giudice dell'esecuzione è stato interposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.

Il primo motivo ha dedotto violazione di legge quanto all'art. 673 c.p.p., art. 167 d.lgs. n. 196/2003, al d.lgs. n. 101/2018, nonché all'art. 25 Cost., comma 2, eartt. 1 e 2 c.p.

Il ricorrente dissentiva rispetto al giudizio di continuità normativa formulato dal Giudice dell'esecuzione, ritenendo che vi fosse stata una valutazione orientata esclusivamente in malam partem delle evenienze processuali. Il Giudice dell'esecuzione – si legge nel ricorso – avrebbe trascurato di considerare che la nuova norma non recava più l'indicazione – già contemplata nella seconda parte dell'art. 167, comma 1 – delle condotte di comunicazione e diffusione dei dati.

Inoltre, erano stati abrogati alcuni degli articoli richiamati, nell'art. 167, comma 1, dal legislatore ante riforma quali norme precettive (in particolare, gli artt. 18, 19 e 23) sicché, come norme di riferimento, andavano riguardati esclusivamente gli artt. 123, 126, 129 e 130, che, tuttavia, attengono a situazioni diverse dai fatti di causa. Situazioni del pari diverse sarebbero contemplate dagli artt. da 2-sexies a 2-quinquiesdecies richiamati dal comma 2 evocato dal Giudice dell'esecuzione. Quest'ultimo, inoltre, non aveva specificato che il nocumento – come richiesto dall'attuale disciplina – fosse derivato, previsto e voluto espressamente da e con questa specifica condotta. Da ultimo, il ricorrente si doleva anche del fatto che le nuove disposizioni prevedono preclusioni all'iniziativa del pubblico ministero, nuove procedure, valutazioni e competenze del Garante, esogene al giudizio penale, ma importantissime per la qualificazione dell'illecito e del relativo accertamento, norme che all'epoca non esistevano e di cui il condannato non aveva potuto fruire.

Le soluzioni giuridiche

Quest'ultimo motivo di ricorso, pur alquanto interessante, è stato ritenuto assorbito nell'accoglimento del primo, che ha determinato l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Brindisi per nuovo esame.

Una volta posta in discussione, dalla prima sezione penale, la continuità normativa individuata dal primo provvedimento del Giudice dell'esecuzione rispetto all'art. 167-bis d.lgs. n. 196/2003, nella nuova ordinanza il Giudice del rinvio, dopo un'analisi strutturale delle due previsioni, ha concluso per la piena sussumibilità nel "nuovo" art. 167, comma 2, come novellato dal d.lgs. n. 101/2018, della condotta ascritta al ricorrente e per la continuità normativa con la disposizione di cui all'art. 167, comma 1, vecchio testo (che così recitava: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell'art. 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi").

Ad avviso dei giudici di legittimità, anche questa nuova conclusione, in diritto, non può essere avallata. Come ricostruito dalla Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. F, 13 agosto 2019, n. 40140), il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, ha introdotto un sistema di sanzioni amministrative pecuniarie sia per le violazioni degli obblighi da parte dei soggetti investiti del dovere di garantire l'efficace tutela dei dati personali, sia per le violazioni dei principi base del trattamento dei dati stessi. Allo stesso tempo, il Regolamento ha rimesso alla potestà sanzionatoria degli Stati membri la possibilità di introdurre ulteriori sanzioni per la violazione di disposizioni diverse da quelle già sanzionate dal Regolamento stesso, facendo espresso riferimento alla possibilità che tali ulteriori disposizioni sanzionatorie abbiano natura penale ed afferiscano a violazione di norme nazionali adottate in virtù ed entro i limiti del Regolamento.

Anche per adeguare la normativa interna a quella Eurounitaria, la l. n. 163/2017 ha delegato il Governo ad intervenire sul Codice della Privacy. Per quanto interessa in questa sede, il legislatore delegato, con il d.lgs. n. 101/2018, ha ridimensionato la portata della risposta sanzionatoria penale ed ha riformulato le relative previsioni sanzionatorie (cfr. Cass. pen., Sez. III, 24 ottobre 2019, n. 46376).

Nell'ambito della riformulazione anzidetta, si colloca l'art. 167, comma 2, che – secondo il provvedimento impugnato – darebbe continuità alla fattispecie penale già contemplata dall'art. 167, comma 1, seconda parte del decreto ante riforma, per cui il ricorrente aveva patteggiato la pena e che non è più presente nella sede originaria.

L'analisi della nuova disposizione ha condotto i giudici di legittimità a ritenere che non vi sia la ritenuta continuità normativa e che la condotta addebitata all'imputato non possa trovare collocazione all'interno della figura di reato individuata dal Giudice dell'esecuzione nel provvedimento impugnato.

Questo il testo dell'art. 167, comma 2, nella nuova formulazione: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all'interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all'art. 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell'art. 2-quinquiesdecies arreca nocumento all'interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni".

È evidente, già da una prima lettura, che, se pure i dati relativi alla vita sessuale rientrano nel richiamato art. 9 del regolamento UE, la condotta, intanto è punita, in quanto sia posta in essere in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all'art. 2-septies,ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell'art. 2-quinquiesdecies. L'esame delle norme richiamate, dunque, è essenziale per ricostruire la portata precettiva della fattispecie: ciò posto, detta operazione ricostruttiva non conduce alla conclusione cui è giunto il Giudice dell'esecuzione, perché non consente di ricavarne un precetto analogo a quello previgente e che si attagli alla violazione in esame.

L'art. 2 sexies, infatti, riguarda il trattamento di dati personali di cui all'art. 9, paragrafo 1, del Regolamento, che sia necessario per motivi di interesse pubblico rilevante. Ancora più inconferenti appaiono, poi, le disposizioni di cui agli artt. 2-septies (Misure di garanzia per il trattamento dei dati genetici, biometrici e relativi alla salute), 2-octies (Principi relativi al trattamento di dati relativi a condanne penali e reati) e 2-quinquiedecies (Trattamento che presenta rischi elevati per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico).

Il Collegio dunque ha ritenuto che la condotta di diffusione di dati personali sensibili, rectius “particolari”, che era addebitata al ricorrente non possa rientrare in alcuna delle disposizioni anzidette, così come combinate con la norma punitiva; né, in questa opera di riconduzione, può trarsi spunto dalla motivazione del provvedimento impugnato, che – pur nella sua apparente ricchezza argomentativa – si presenta, in definitiva, assertiva quanto al passaggio cruciale, quello, appunto, delle ragioni concrete – testo normativo alla mano – della asserita continuità normativa e della conseguente riconducibilità della condotta contestata all'imputato.

Respinta, quindi, l'ipotesi ricostruttiva del Giudice dell'esecuzione, il Collegio ha altresì rilevato che il provvedimento impugnato manca di qualsivoglia riflessione circa l'eventuale continuità normativa con altre disposizioni attualmente in vigore che riguardino l'illecita condotta diffusiva di immagini o video sessualmente espliciti: il riferimento esplicito è all'art. 612-ter c.p., che punisce, "salvo che il fatto non costituisce più grave reato, chiunque dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate", su cui pure il Giudice dell'esecuzione avrebbe dovuto interrogarsi.

In base a tali premesse, l'ordinanza impugnata è stata annullata affinché il Giudice del rinvio effettui una nuova valutazione sulla perdurante rilevanza penale della condotta, da svolgersi anche tenuto conto dello specifico inquadramento in fatto della medesima, cui il Giudice dell'esecuzione può accedere.

Osservazioni

Era prevedibile (nonché auspicabile) che non appena i giudici di legittimità fossero stati chiamati ad interpretare le riformate norme penali del Codice della Privacy avrebbero fornito un importante contributo atto a dissipare numerosi dubbi intorno all'effettiva portata della novella. Ciò vale in particolare per quanto concerne l'art. 167, la cui efficacia, come desumibile dalla lettura della sentenza in commento, è stata alquanto ridotta dal legislatore del 2018.

E così si scopre ora che la tutela penale dei dati personali cd. “particolari”, già dati sensibili – nella specie si trattava di immagini o video sessualmente espliciti – non risulta affidata in via esclusiva alla normativa privacy, ma è da rinvenirsi, eventualmente, anche in altre norme del codice penale. E, di conseguenza, emerge che non esiste un corpus a sé stante di norme vigenti in tema di tutela dei dati personali, quasi si trattasse di una nuova branca del diritto, accessibile solo a pochi “iniziati”, ma esse vanno ad interagire con le norme del codice penale.

Allora risulta preziosa l'esegesi delle norme compiuta dai supremi giudici penali in quanto riconduce il corpus normativo privacy in una più ampia cornice” di sistema”.

Dopo aver escluso ogni continuità normativa tra vecchia e nuova formulazione della normativa penale privacy (art. 167), il Collegio ha invitato a riflettere sul rapporto sussistente tra le diverse formulazioni di tale articolo ed altre disposizioni attualmente in vigore che riguardino l'illecita condotta diffusiva di immagini o video sessualmente espliciti.

I giudici di legittimità hanno fatto espresso rinvio all'art. 612-ter c.p., che punisce, "salvo che il fatto non costituisce più grave reato, chiunque dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate".

La l. n. 69/2019, all'articolo 10, ha introdotto, dal 9 agosto del 2019, l'art. 612-ter c.p.rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, che prevede: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”. La collocazione sistematica dell'art. 612-terall'interno del titolo XII, sezione III, dei delitti contro la libertà morale, suggerisce che il bene giuridico tutelato sia, in primis, la libertà di autodeterminazione dell'individuo.

Questa norma supera la tradizionale nozione di “diffusione” tipica dei reati informatici prevista dalla l. n. 48/2008 e si pone in linea invece con il d.lgs. n. 216/2017 che ha introdotto il reato di cui all'art. 617-septies c.p., di cui pare essere una specificazione posta a protezione della riservatezza e della libertà della persona preservandone in maniera specifica la segretezza dei comportamenti afferenti alla sfera sessuale da condotte di indebita circolazione o divulgazione di immagini o video privati effettuati senza il consenso della vittima.

Se ad una prima impressione il reato di cui all'art.612-ter c.p. sembra presentarsi come speciale rispetto all'art. 617-septies c.p. soltanto in ragione dell'oggetto delle immagini o dei video (che devono, appunto, ritrarre organi sessuali o avere un contenuto sessualmente esplicito), dal confronto delle due fattispecie emergono ulteriori differenze.

In primo luogo, l'art.612-ter c.p. prevede un catalogo di condotte più ampio e specifico di quello dell'art.617-septies c.p., includendo ogni forma di consegna, cessione, divulgazione e diffusione effettuati dall'agente anche ad un solo individuo. Inoltre, a differenza del reato di cui all'art.617-septies c.p., il reato di “revenge porn” non richiede, quale elemento strutturale della realizzazione, la “fraudolenza” nella formazione del video o dell'immagine, essendo anche plausibile che si tratti di video o immagini formati col consenso della vittima: per l'incriminazione, in tal caso, è sufficiente l'assenza di consenso della persona rappresentata alla cessione o divulgazione di tali contenuti.

Sotto il profilo dei contenuti multimediali divulgati o ceduti, si rileva che l'art.612-ter c.p. ha un contenuto più ristretto dell'art.617-septies c.p., riferendosi ad immagini e filmati, con esclusione delle “registrazioni” di conversazioni, che assumono invece rilevanza sotto il profilo dell'art.617-septies c.p.

Come nel caso dell'art.617-septies c.p., invece, si deve trattare di “video destinati a rimanere privati”, per i quali la persona rappresentata abbia negato il proprio consenso o non abbia avuto la possibilità di esprimerlo. La punibilità del fatto resterà esclusa soltanto nel caso in cui l'agente abbia ricevuto un consenso esplicito (ed attuale) alla rivelazione.

Inoltre, sotto il profilo del soggetto agente è indifferente per l'incriminazione che l'agente sia colui che ha prodotto e realizzato il video (o l'immagine) ovvero un terzo che lo ha ricevuto o addirittura sottratto in un secondo momento.

Infine, un ulteriore elemento differenziale, è ravvisabile sotto il profilo dell'elemento psicologico del reato: invero, nell'ipotesi di realizzazione o sottrazione del materiale, punita dall'art.612-ter c.p., il dolo è generico, sicché non è richiesto che l'agente persegua ulteriori finalità; viceversa per le condotte punite dal secondo comma, relative alle forme di divulgazione tenute dal soggetto che ha ricevuto o “acquisito” le immagini dopo la loro realizzazione, analogamente a quanto previsto dall'art.617-septies c.p. è richiesto il dolo specifico “di recare nocumento”alle persone rappresentate.

La stessa nozione di “nocumento” che si rinviene nell'art. 612-ter c.p., però, è più ampia di quella contenuta nell'art.617-septies c.p., ove è richiesto lo specifico intento di arrecare un danno “alla reputazione” o all' “immagine”, mentre sotto il profilo dell'art.612-ter c.p. il nocumento potrebbe essere anche di natura patrimoniale ovvero afferente ad altri interessi di natura non patrimoniale.

A tal riguardo, da un punto di vista interpretativo, potrebbe rivelarsi alquanto rilevante l'elaborazione giurisprudenziale formatasi proprio in tema di trattamento illecito di dati personali. Da ultimo si veda Cass. pen., Sez. III, 24 ottobre 2019 (dep. 14 novembre 2019), n. 46376, che, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, ne ha fatto discendere che nel reato di trattamento illecito di dati personali previsto dall'art. 167, il nocumento è costituito dal pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell'illecito trattamento (Cass. pen., Sez. III, 7 febbraio 2017, n. 29549). Il requisito del nocumento è tuttora richiesto, con l'ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all'interessato e costituisce elemento costitutivo del reato, conclusione cui era pervenuta la più recente giurisprudenza di legittimità che, superando un risalente orientamento secondo cui il nocumento era condizione obiettiva di punibilità, lo aveva ricondotto nell'alveo degli elementi costituitivi del reato. Tale giurisprudenza aveva chiarito che l'omogeneità del nocumento con l'interesse leso o concretamente messo in pericolo e la sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica inducevano a qualificarlo non come elemento estraneo alla fattispecie criminosa, ma come elemento costitutivo della stessa. Riconosciutane, dunque, la natura di elemento costitutivo del reato, ad avviso della Corte, ai fini della punibilità non è sufficiente che il nocumento si ponga quale conseguenza non voluta, ancorché prevista o prevedibile della condotta, essendo necessario che esso sia previsto e voluto dall'agente come conseguenza della propria azione o quanto meno previsto ed accettato in tutte quelle ipotesi in cui non si identifichi con il fine dell'azione stessa in quanto finalizzata, ad esempio, a trarre profitto dall'illecito trattamento dei dati (Cass. pen., Sez. III, 5 febbraio 2015, n. 40103).

L'elaborazione giurisprudenziale in tema di “nocumento” formatasi in tema di art. 167 del codice privacy, che potrebbe rivelarsi assai rilevante anche per delineare gli elementi distintivi tra artt. 612-ter e 617-septies c.p., dimostra come, non solo gli studiosi del diritto debbano “comunicare” necessariamente tra loro, ma anche come si renda opportuna un'interazione tra le istituzioni coinvolte: lo scorso 5 marzo, l'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali ha avviato una collaborazione con il leader mondiale dei social network Facebook (ed Instagram), al fine di contrastare il fenomeno e la commissione del reato di Revenge Porn, nell'ambito della più generale e onnicomprensiva condotta della distribuzione non consensuale di pornografia (NCP - Non Consensual Pornography). Lo strumento adottato dall'Autorità di concerto con Facebook, consentirà alle “persone che temono che le loro foto o i loro video intimi possano essere diffusi senza il loro consenso su Facebook o Instagram” di “segnalare questo rischio e ottenere che le immagini vengano bloccate”.

A partire dallo scorso 8 marzo, pertanto, il canale è attivo sulla piattaforma dell'Autorità al link www.gpdp.it/revengeporn, in cui le persone maggiorenni potranno segnalare condotte potenzialmente dannose, nonché caricare le immagini sul programma. Dette immagini verranno protette da Facebook attraverso un codice hash necessario a impedire la loro riconoscibilità prima della loro distruzione e tale da consentire la comparazione tesa al blocco delle immagini così da impedirne una diffusione da parte dei terzi malintenzionati.

A tal riguardo, l'interazione tra Garante e Procure della Repubblica potrebbe rivelarsi alquanto preziosa, nel solco ideato dal legislatore del 2018 per coniugare l'attività delle due Autorità e che trova il suo fondamento normativo nell'art. 167 Codice privacy, commi 4, 5 e 6.

Il quarto comma prevede che “il Pubblico Ministero, quando ha notizia dei reati di cui ai commi 1, 2 e 3, ne informa senza ritardo il Garante”.

Il comma quinto dispone, invece, che il Garante trasmette al PM, con una relazione motivata, la documentazione raccolta durante l'attività di accertamento nel caso in cui emergano elementi che facciano presumere l'esistenza di un reato; ciò deve avvenire al più tardi entro la fine dell'attività di accertamento di violazioni amministrative previste dal Codice privacy.

L'obbligo di cooperazione previsto in capo al Garante è dunque formulato in maniera decisamente più articolata: il legislatore non si è limitato a riprendere la stessa formula utilizzata al comma precedente semplicemente invertendone i soggetti attivi, ma ha specificato che l'Autorità Amministrativa non solo deve dare notizia, ma deve procedere alla trasmissione della documentazione raccolta, accompagnandola con una relazione motivata. La norma non si preoccupa invece di indicare quali siano le fattispecie di reato in presenza delle quali scatti tale obbligo, come invece accade per il Pubblico Ministero: la trasmissione deve dunque avvenire tutte le volte in cui il Garante prospetta la sussistenza di un qualsiasi fatto di reato, oltre all'illecito amministrativo, ovvero solo in relazione ad illeciti penali in materia privacy?

Il necessario accompagnamento della segnalazione con la relazione motivata sembrerebbe limitare l'attività del Garante agli illeciti di cui abbia una più approfondita conoscenza e relativamente ai quali abbia svolto o stia svolgendo attività di accertamento; d'altra parte, la mancata indicazione dei reati per i quali sia richiesta siffatta trasmissione – prevista, come visto, per il Pubblico Ministero – potrebbe indicare una volontà legislativa nel senso di un'applicazione estensiva e generica della norma.

In tale prospettiva, il tema del revenge porn, anche in virtù delle iniziative intraprese dal Garante, rientra senza dubbio tra quelli ove si palesa una sua più approfondita conoscenza: pare quindi rappresentare l'occasione per fornire ulteriore impulso all'attuazione delle norme che incentivano tali “scambi” tra apparati istituzionali chiamati ad occuparsene a diverso titolo.

Per altro questo sistema di “raccordo” ha già trovato generale spazio nel protocollo d'intesa per l'attuazione delle nuove norme sulla protezione dei dati personali, sottoscritta l'8 gennaio 2019 dalla Procura della Repubblica di Roma e dal Garante per la protezione dei dati personali. Il documento intende disciplinare le modalità attuative della norma che impone al pubblico ministero di informare senza ritardo il Garante qualora abbia notizia di specifici reati in materia di protezione dei dati personali. In particolare, il protocollo stipulato a Roma intende disciplinare le modalità attuative della norma che impone al pubblico ministero di informare senza ritardo il Garante qualora abbia notizia di specifici reati in materia di protezione dei dati personali. Si prevede che alla comunicazione sia tenuto il pubblico ministero assegnatario del procedimento e non il Procuratore della Repubblica, in ragione della specifica competenza propria del primo in ordine al procedimento stesso e di esigenze di celerità dell'informazione, soddisfatte evitando il passaggio ulteriore dal P.M. procedente al Procuratore, possibile causa di dilazione temporale. Il protocollo individua inoltre, nell'avvenuta notifica, all'indagato e al difensore, dell'avviso di conclusione delle indagini, il momento a partire dal quale deve essere effettuata, appunto senza ritardo, la comunicazione al Garante degli elementi necessari ai fini dell'accertamento di eventuali illeciti in materia di protezione dei dati personali correlati al fatto di reato. Tale scansione procedimentale consente di rispettare nella maniera più rigorosa il segreto investigativo in relazione al procedimento penale in corso e l'efficienza dell'azione del Garante, limitando la comunicazione ai casi nei quali gli elementi acquisiti siano idonei a sostenere l'accusa in giudizio. A questo primo protocollo ha fatto seguito, in termini sostanzialmente identici, il successivo sottoscritto il 22 maggio 2019 dal Garante per la protezione dei dati personali e dalla Procura della Repubblica di Vasto.

A questi primi tentativi di collaborazione integrata è seguito il “silenzio”: proprio la sentenza in commento potrebbe costituire l'occasione per riavviare, e rinforzare, il “dialogo”.

Guida all'approfondimento

Cesare Parodi, Valentina Sellaroli, Diritto penale dell'informatica, Giuffrè, 2020;

Brizzi Ferdinando, La tutela penale dei dati personali, Giuffrè, 2020.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario