Lo spazio in “cella” a disposizione del detenuto: un dilemma solo apparentemente risolto

Claudia Cavaliere
02 Aprile 2021

Il diritto alla libertà, intesa come autonomia da ogni ingiustificata e illegittima repressione, deve mantenere standard sempre accettabili anche in carcere, per non sconfinare nella perdita della dignità che è bene intoccabile della persona ed indisponibile per lo Stato...
Premessa

Gli istituti di pena costituiscono il banco di prova privilegiato per verificare quanto lo Stato abbia a cuore il rispetto dei diritti umani. Tra questi la libertà, intesa come autonomia da ogni ingiustificata e illegittima repressione. In carcere, infatti, tale diritto seppur necessariamente limitato, deve mantenere standard sempre accettabili, per non sconfinare nella perdita della dignità che è bene intoccabile della persona ed indisponibile per lo Stato.

Un importante segmento della tutela della dignità del detenuto è senz'altro lo “spazio” che egli ha a disposizione. Non solo di circolazione all'interno dell'istituto, ma anche e soprattutto nella stanza di pernottamento, erroneamente e comunemente chiamata cella, definita dall'art. art. 6 ord. pen., come il luogo – seppur nella totale disponibilità dell'Amministrazione Penitenziaria – comunque destinato al soggiorno, dopo le attività finalizzate al recupero sociale.

Per tali ragioni, la disputa dottrinaria e giurisprudenziale sullo spazio vitale nelle stanze di pernottamento dei detenuti, che si trascina da lungo tempo, è paradossale tanto quanto lo sono le valutazioni circa la necessità, o meno, d'inserire gli arredi nel calcolo da effettuare.

Ed invero è dall'entrata in vigore dell'Ordinamento penitenziario – dal 1975, 46 anni fa – che il dibattito sull'esecuzione penale è concentrato, quasi esclusivamente, sui diritti minimi che spettano al condannato e non alla concreta e piena applicazione delle norme, alcune del tutto disattese.

La vita detentiva è, nella maggior parte dei casi, sotto il livello di guardia previsto dalla nostra Costituzione. Limite invalicabile che, invece, è continuamente oltrepassato e costringe, pertanto, coloro che hanno a cuore diritti fondamentali a condurre contese minimali per raggiungere obiettivi che dovrebbero trovare immediata applicazione.

In un mondo proiettato verso il progresso tecnologico, che lascia però morire intere popolazioni prive di beni essenziali quali acqua e cibo, certo non meraviglia che uno Stato possa dimenticare i diritti dei detenuti. Ma desta comunque stupore che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e le Sezioni Unite della Cassazione debbano intervenire per decidere se un letto vada conteggiato nella valutazione dello spazio minimo vitale a disposizione del detenuto nella sua stanza di pernottamento. Tema, tra l'altro, che ne comprende uno molto più importante, quello delle stesse caratteristiche dello spazio in questione, unitamente al tempo ivi trascorso. Non è tanto il letto o altro arredo che, se conteggiato o meno, rende invivibile la permanenza nelle stanze ma lo stesso viverci per 20/22 ore al giorno, in palese violazione di legge. La condanna, infatti, non prevede la mobilità in uno spazio minimo ma, al contrario, essa è ispirata a parametri del tutto diversi – definiti “trattamentali” – per i quali l'oggetto del dibattito – lo spazio vitale in cella – è del tutto residuale perché dovrebbe essere occupato solo nel momento del riposo.

Fatta questa premessa, consapevoli che ci stiamo occupando di una ferita dalla quale da troppo tempo scorre sangue e che, seppur guarirà, resteranno intatte le conseguenze di anni di inosservanze e negligenze, esaminiamo la recente sentenza delle Sezioni Unite.

Il principio di diritto

"Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello". Questo il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite, tornate a pronunciarsi sui criteri di determinazione dello spazio minimo disponibile per ciascun detenuto.

In particolare, i quesiti sottoposti all'attenzione della Suprema Corte riguardavano, innanzitutto, i criteri di computo dei tre metri quadrati, che la Corte EDU indica quale spazio minimo disponibile per ciascun detenuto e che la stessa giurisprudenza condivide. Se questi debbano essere definiti al netto dello spazio occupato da mobilio e strutture, mobili o fisse. Ed ancora, se vada incluso nei tre metri quadrati anche il letto (o letti in caso di più detenuti), singolo o a castello e se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo, possa comunque escludersi la violazione dell'art. 3 CEDU al concorrere di altri “fattori compensativi.

Le Sezioni Unite rispondono agli interrogativi facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte Edu e specificando, definitivamente, che per “spazio disponibile” deve intendersi la “superficie che assicuri il normale movimento nella cella”.

Il presupposto normativo e la Giurisprudenza nazionale e sovranazionale

L'intervento delle Sezioni Unite è stato generato da un ricorso avanzato dal Ministero della Giustizia, avverso un'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza de L'Aquila per violazione di legge e non corretta interpretazione degli artt. 35 e ss. ord. pen., anche con riferimento alle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

L'art. 35-ter ord. pen., contiene un “rinvio mobile” agli indirizzi della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in ordine ai principi espressi all'art. 3 CEDU, che costituiscono elemento integrativo della norma in punto di diritti e garanzie del detenuto.

La giurisprudenza Edu, assume, quindi, una posizione fondamentale nel quadro delle fonti normative, andando a riempire di contenuto la disciplina sulla tutela dei condannati.

Per tale motivo, si ritiene di individuare tre pronunce emblematiche che, per i principi in esse espressi, segnano l'inizio ed il progressivo sviluppo della materia in esame e che hanno dato impulso alla copiosa giurisprudenza nazionale.

Senza dubbio innovativa è stata la pronuncia Suleimovic c. Italia che ha sancito un vero e proprio automatismo della violazione dell'art. 3 CEDU in caso di mancato rispetto del parametro dei tre metri quadrati. Ad essa è seguita la nota sentenza “pilota”, Torreggiani c. Italia la quale ha chiarito che dai tre metri quadrati va detratto lo spazio occupato dagli arredi fissi. Qualora, pertanto, lo spazio disponibile netto fosse inferiore ai tre metri quadrati, esso costituisce elemento fondamentale da valutare, nel giudizio di conformità delle condizioni di detenzione, rispetto al dettato dell'art. 3 CEDU.

Tale pronuncia, inoltre, non si limita a dettare i criteri di computo dello spazio disponibile per ciascun detenuto, ma ha ribadito il principio della carcerazione quale estrema ratio, auspicando al contempo il ricorso a misure alternative alla detenzione ed il ricorso a rimedi preventivi e compensativi.

È dopo tale pronuncia, infatti, che viene modificata la normativa in merito alla tutela dei diritti dei detenuti. Un passo avanti di notevole importanza, riconoscendo finalmente un ristoro (tradotto in diminuzione della pena residua o risarcimento del danno patito) al detenuto i cui diritti fondamentali siano stati violati. Si tratta, pur sempre, di un “rimedio” successivo, a danno già avvenuto. Resta, in ogni caso, ancora disatteso l'obiettivo sostanziale della sentenza Torreggiani, sebbene la stessa Corte Edu abbia valutato adeguate le misure adottate dal nostro Paese.

Alle due pronunce citate si aggiunge da ultimo, la nota sentenza Mursic c. Croazia, della Grande Camera, particolarmente rilevante, e presa a modello dalla giurisprudenza nazionale, poiché introduce una valutazione “multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive” in cui non solo si dà rilievo alla sussistenza di uno spazio minimo inferiore ai tre metri quadrati (la cui violazione costituisce presunzione relativa e, dunque, non più automatica come stabilito nella sentenza Suleimovic) ma anche ad altri fattori tra i quali sicuramente rilevante è il dato temporale (costituito dalla occasionalità e brevità della permanenza in dette condizioni).

Proprio a partire da tale ultima pronuncia, come sottolineato anche nell'ordinanza di rimessione, la posizione della giurisprudenza si è orientata nel senso di detrarre dallo spazio disponibile le strutture fisse che impediscono il normale movimento del detenuto, a differenza di quelle mobili che, invece, possono essere rimosse con facilità. Il quesito, tuttavia, sorge proprio in merito alle strutture fisse in quanto ci si pone il problema dell'inclusione tra le stesse del letto. Sul punto non sono mancate pronunce che hanno ritenuto di escludere dal computo dei tre metri quadrati anche il letto a prescindere che esso fosse singolo o a castello in quanto finalizzato alla sola attività di riposo e, dunque, non funzionale alla libertà del movimento del recluso (cfr. Cass. pen., sez. I, 9 settembre 2016, n. 52819; Cass. civ., sez. III,13 novembre 2018, n. 1564). Diversamente altra parte della giurisprudenza ha ritenuto che i letti singoli sono da ritenersi amovibili al pari di tavolini o sgabelli e, pertanto, non ostativi al libero movimento (Cass. pen.,sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4096).

È evidente, quindi, come la questione sia di assoluta rilevanza coinvolgendo diritti primari e fondamentali della persona, così come sanciti all'art. 3 della Convenzione Edu, e di quanto poco chiara ed univoca ne sia la soluzione. Con la pronuncia in esame, inoltre, le Sezioni Unite sanciscono che la breve durata della detenzione, le dignitose condizioni carcerarie, la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella, mediante lo svolgimento di adeguate attività “se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell'

art. 3 CEDU

derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all'istanza presentata ai sensi dell'art. 35-ter ord.pen.”. Ebbene nemmeno il ricorso a tali “fattori compensativi” può considerarsi risolutivo, in quanto ancora una volta si intende superare il presupposto necessario di oggettive e predeterminate condizioni di detenzione, lasciando al caso per caso le valutazioni circa basilari e minimi requisiti di vita.

In conclusione

Alla luce dell'analisi della giurisprudenza nazionale e sovranazionale svolta, la sentenza in esame, se da un lato pare individuare un punto fermo in un quadro così complesso e fare un passo in avanti verso una maggior tutela dei diritti fondamentali del detenuto, dall'altro ne fa uno notevolmente più ampio in direzione opposta.

Le Sezioni Unite si inseriscono, infatti, in un filone giurisprudenziale per il quale, dallo spazio disponibile non va detratto il letto singolo. È evidente che la Corte sceglie, in questo modo, una soluzione che tutela certamente meno il detenuto.

Eppure, la circoscrizione dello spazio a disposizione di una persona per lo svolgimento dei più elementari movimenti parrebbe un argomento di facile intuizione e risoluzione; come evidenziato, tuttavia, non vi è univocità circa la sua valutazione. Non a livello normativo, in quanto manca un'effettiva determinazione legislativa, né a livello giurisprudenziale, come ne è prova l'intervento delle Sezioni Unite che, comunque, lascia ampia margini di valutazione.

Quanto al dato normativo occorre evidenziare, invero, che pur mancando una norma specifica all'interno dell'Ordinamento penitenziario, la circolare del Dipartimento dell'Amministrazione del 17 novembre 1988, rinviando al D.M. del 5 luglio 1975 del Ministero dalla Sanità, individua la capienza regolamentare delle stanze di pernottamento, disponendo che le stesse debbano avere una metratura pari a 9 mq. per una persona, aggiungendo 5 mq. in più per ogni ulteriore detenuto. Appare evidente come sia notevolmente più ampio, e favorevole, lo spazio destinato al singolo individuo. Certamente una simile previsione non contrasterebbe in alcun modo con le interpretazioni offerte dalla Corte EDU. Come evidenziato dalle stesse Sezioni Unite, il giudice nazionale può applicare criteri differenti, e più favorevoli, poiché è sempre salvo il diritto/dovere di garantire, nel modo più ampio possibile, la tutela di un diritto fondamentale.

Eppure, tale soluzione non trova alcuna applicazione. È proprio il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria ad affermare che tali indicazioni non vengono ritenute vincolanti.

Alla luce di quanto esposto, si può concludere che le indicazioni dell'Amministrazione non sono inderogabili, mentre lo è il limite dei 3 mq. In merito, tuttavia, resta il contrasto sui criteri di valutazione dello spazio anche dopo la sentenza delle Sezioni Unite, che lascia ampi spazi di discrezionalità.

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