Il condomino non può pretendere che il condominio compia interventi utili a rendere allo stesso un uso migliore delle parti comuni

Edoardo Valentino
12 Aprile 2021

Il Tribunale di Brescia rigetta un ricorso d'urgenza depositato ai sensi dell'articolo 700 c.p.c. da una condomina portatrice di handicap. Con la propria domanda giudiziale, detta proprietaria domandava al giudice di ordinare al condominio l'immediata esecuzione di alcuni lavori edili nelle parti comuni volti a consentirle un migliore utilizzo dei servizi condominiali. La ragione del rigetto del Tribunale è da ricercarsi sia nell'impossibilità per il Tribunale di ordinare un facere al condominio, sia al non corretta applicazione dei principi di diritto condominiale in merito alle innovazioni nel ricorso della condomina.
Massima

Il condomino può, ai sensi dell'art. 1102 c.c., realizzare opere sulle parti comuni che, senza arrecare pregiudizio ad altri e allo stabile, gli consentano un uso più intenso della cosa comune. Tali opere restano, però, a carico del condomino e non sono considerate innovazioni ai sensi dell'art. 1120 c.c., sicché, non esistendo un obbligo di realizzazione da parte del condominio, non sussiste alcuna corrispettiva azione giudiziale che possa essere intentata per ottenere un ordine di facere nei confronti dello stesso.

Il caso

Una condomina portatrice di handicap agiva in giudizio con un ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. invocando la tutela giudiziaria avverso una presunta inerzia del condominio nella realizzazione di opere edili sulle parti comuni.

Secondo la prospettazione offerta dalla condomina, infatti, tempo addietro ella avrebbe domandato al condominio la realizzazione di alcune opere alla stessa necessaria per una migliore fruizione delle parti comuni in ragione della propria disabilità.

Queste opere, in particolare, consistevano in:

a) attivazione di un servo scala (progetto in realtà già deliberato dall'assemblea, ma mai eseguito);

b) elettrificazione del portone di ingresso dello stabile;

c) posa di una pedana di accesso per la sedia a rotelle posta in corrispondenza dello scalino esterno dal marciapiede pubblico innanzi al portone d'ingresso;

d) posa di una pedana di accesso per la sedia a rotelle posta in corrispondenza dei gradini esterni nel corridoio interrato di accesso dai garages alle cantine ed ai piani superiori;

e) modifica dell'impianto dell'ascensore con aumento del tempo di apertura delle porte per facilitare le manovre di accesso con la sedia a rotelle.

Affermava nel proprio ricorso la condomina come alcuni interventi, a seguito di suo sollecito, fossero stati effettivamente realizzati (nella fattispecie a, c, d) mentre le altre opere non avevano visto la luce a causa del mancato raggiungimento del quorum nel corso della relativa seduta dell'assemblea condominiale.

A detta della ricorrente, poi, le opere in oggetto non costituivano “modificazioni e/o innovazioni” ma “interventi funzionali” volti a consentire un più ampio godimento delle cose comuni, con adeguamento delle strutture al fine di renderle utilizzabili alle sedie a rotelle.

Le questioni sollevate dalla proprietaria, quindi, erano di due ordini.

In prima battuta, essa domandava al Tribunale un provvedimento che ordinasse al condominio di realizzare i lavori elencati e non ancora posti in essere.

In subordine, invece, essa chiedeva al giudice di condannare il condominio che le aveva - asseritamente - impedito di realizzare le opere in proprio.

Si costituiva in giudizio il condominio, istando per il rigetto del ricorso e affermando come, anche ai sensi dell'art. 2 della l. 13/1989 non sussistesse alcun obbligo per il condominio di realizzare le opere richieste dalla condomina.

Detta norma afferma, infatti, che: “Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118, ed all'articolo 1, primo comma, del d.P.R. 27 aprile 1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dal secondo comma dell'articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile”.

Secondo il convenuto, poi, la condomina non avrebbe avuto interesse ad agire in quanto il condominio non le aveva mai negato la possibilità di realizzare le opere per suo conto.

Riferiva, ancora, il condominio, come la stessa condomina avesse dapprima manifestato l'intenzione di realizzare le opere mancanti (automazione del cancello di ingresso e installazione di alcune pedane d'accesso), ma che essa avesse poi disertato le riunioni con l'impresa che avrebbe dovuto realizzare le opere e, infine, cancellato l'esecuzione delle stesse.

La questione

Il ricorso ex art. 700 c.p.c. è un atto giuridico complesso e specifico.

Esso, denominato ricorso d'urgenza, ha il fine di consentire all'avente diritto di ottenere una tutela giudiziale in tutti quei casi in cui i rimedi tipici previsti dal codice di procedura civile o dalle leggi speciali non garantiscono una tutela adeguata (c.d. principio di residualità).

Al fine della concessione del provvedimento, poi, il ricorso deve essere assistito da due elementi: il fumus boni iuris e il periculum in mora.

Il primo elemento è relativo all'esistenza di un diritto da tutelare: la domanda del ricorrente deve essere assistita da una “parvenza” di ragione, un'azione valida e tutelabile con un rimedio giurisprudenziale.

Quanto al periculum in mora, invece, questo elemento sussiste quando il ricorrente dimostra di essere stato costretto ad agire in via d'urgenza a causa del danno certo che gli sarebbe derivato nell'attesa di una sentenza pronunciata in un giudizio ordinario.

Nel caso in questione, a detta della parte ricorrente, gli elementi sarebbero stati presenti.

Secondo la condomina, infatti, il fumus boni iuris sarebbe stato ravvisabile nella necessità della realizzazione delle opere da parte del condominio per rendere più fruibili le parti comuni (ad esempio, l'ascensore, mediante una maggiore tempistica di apertura delle porte d'accesso).

Il periculum, invece, sarebbe stato identificato nel fatto che la mancata o incompleta realizzazione del piano delle opere illustrato avrebbe comportato l'impossibilità per la condomina di accedere in piena autonomia alla propria abitazione.

Le soluzioni giuridiche

Con l'ordinanza in commento, il Tribunale di Brescia rigettava il ricorso della condomina.

Il giudice, in particolare, evidenziava l'inconferenza della domanda della ricorrente sia alla luce dell'errato inquadramento delle opere, che degli obblighi incorrenti sul condominio.

Secondo il Tribunale, la condomina avrebbe erroneamente considerato le opere da realizzare come innovazioni ai sensi dell'articolo 1120 c.c., per le quali sarebbe stata necessaria una delibera assembleare con il raggiungimento di maggioranze stringenti per dare corso all'esecuzione dei lavori.

Le opere, tuttavia, non dovevano essere considerate innovazioni, ma - ai sensi dell'art. 1102 c.c. - unicamente modificazioni per l'uso più intenso della cosa comune da parte di un condomino.

A tal fine, la loro realizzazione sarebbe stata consentita anche allo stesso condomino interessato, che se ne sarebbe assunto però sia la responsabilità che gli oneri finanziari.

Dal punto di vista della domanda, poi, il Tribunale chiariva come la condomina non avesse titolo di domandare al condominio un facere, ossia un comportamento attivo consistente nell'obbligo di porre in essere i lavori edili richiesti.

Osservazioni

L'ordinanza del Tribunale di Brescia tratta dell'annosa questione relativa alla differenza tra le innovazioni e le modificazioni della cosa comune, e lo fa in modo corretto.

In poche pagine, infatti, il Tribunale lombardo chiarisce bene alcuni principi di diritto condominiale tutt'altro che scontati.

In prima battuta, e centrale per la controversia, il Tribunale si occupa di differenziare le innovazioni dalle mere modificazioni.

Le prime sono disciplinate dall'art. 1120 c.c. che afferma che “I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni.

I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto:

1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti;

2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, […];

Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino”.

La disciplina delle modificazioni delle parti comuni, invece, è da ricercarsi nell'art. 1102 c.c., nel quale si legge che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

Come si evince dalle norme sopra richiamate, il titolare dell'iniziativa per le modificazioni è anche il singolo condomino, mentre per porre in essere un'innovazione deve esserci la volontà di svariati condomini (ai sensi dell'art. 1136, comma 5, c.c., le innovazioni ordinarie devono essere “approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio”, mentre in caso di eliminazione di barriere architettoniche è sufficiente, ex art. 1136, comma 2, c.c., la maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio).

Dal punto di vista soggettivo, quindi, per le innovazioni è necessario che vi sia un interesse collettivo dei condomini e ciò è evidenziato dalla necessità di ottenere una maggioranza qualificata per la loro realizzazione (v. supra).

Le modificazioni, invece, vedono come elemento soggettivo l'interesse di un solo condomino, il quale agisce al fine di godere (anche in modo maggiore rispetto agli altri) delle parti comuni.

Sempre secondo la prospettazione del Tribunale - che chi scrive condivide - ulteriore differenza risiederebbe dal punto di vista oggettivo.

Laddove le innovazioni comportano la necessità della realizzazione di un'opera trasformativa sulle parti comuni, che incidano sulle stesse modificandone l'originaria funzione e destinazione, le modificazioni non necessitano di innovazioni strutturali e rappresentano il mero esercizio di una facoltà del condomino volta a ottenere una più comoda, razionale e migliore utilizzazione delle res communis.

Nel caso in questione, quindi, il ricorso della condomina veniva correttamente rigettato.

L'azione della controparte, infatti, risultava carente sia dal punto di vista del fumus boni iuris che del periculum in mora.

Stante la qualità degli interventi, consistenti in mere modificazioni consentite dall'art. 1102 c.c., la proprietaria avrebbe ben potuto realizzare in autonomia gli interventi necessari, senza dovere attendere il permesso del voto assembleare.

Sul punto non si può non citare la dottrina (Celeste), la quale afferma che “la libertà del condominio di usare la cosa comune soggiace a due ordini di limitazioni - oltre le quali si sconfina nell'abuso - che, per semplicità, possiamo definire di ordine oggettivo (o qualitativo), ossia attinente alla res, volendo evitare che la funzione della cosa comune sia distolta da quella sua propria (ciò a tutela sia della collettività dei condomini che del singolo, che dal mutamento di destinazione potrebbe subire un disagio o una minorazione dell'uso stesso), nonché di ordine soggettivo (o quantitativo), nel senso che viene posto l'accento sul potere degli altri comproprietari di usare ugualmente la cosa in conformità del diritto di comproprietà del quale anch'essi risultano titolari”.

Quindi, la legittimità dell'uso della cosa comune da parte del singolo partecipante al condominio è subordinata a due condizioni, ed a renderne illecito l'uso basta il mancato rispetto dell'una o dell'altra, anche se si ritiene che, tra i suddetti limiti, quello oggettivo, ossia la non alterazione della destinazione della cosa comune, assume una certa posizione di preminenza, osservando che si può avere salvaguardia degli interessi degli altri condomini soltanto con il rispetto della destinazione impressa alla cosa stessa.

Di converso, osservati questi due limiti, ogni singolo partecipante può trarre dalla cosa comune le utilità che la stessa è in grado di fornire e apportarvi (a sue spese) tutte quelle modificazioni suscettibili del miglior godimento di essa.

In ultimo, non esistendo un obbligo di realizzazione da parte del condominio, non sussiste alcuna corrispettiva azione giudiziale che possa essere intentata per ottenere un ordine di facere nei confronti dello stesso.

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