Applicazione cumulativa delle misure cautelari: tra principio di legalità e favor libertatis

15 Aprile 2021

La Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo il provvedimento con cui il giudice ha applicato congiuntamente diverse misure cautelari, seppur astrattamente compatibili tra loro. Tale pronuncia si pone in contrasto con le precedenti pronunce dei giudici di legittimità che hanno invece riconosciuto la possibilità per il giudice di applicare cumulativamente diverse misure cautelari. L'articolo si propone di analizzare le diverse posizioni espresse dalla giurisprudenza di legittimità sul punto...
Premessa

Recentemente, la Corte di Cassazione, in virtù del principio di legalità e tassatività delle misure cautelari personali, ha dichiarato illegittimo il provvedimento con cui il giudice, in sede di sostituzione della misura per attenuazione delle esigenze cautelari ai sensi dell'art. 299, comma 2, c.p.p., ha applicato congiuntamente diverse misure, seppur astrattamente compatibili tra loro. Tale pronuncia ha comportato il sorgere di un contrasto giurisprudenziale interno alla stessa Corte Suprema, in quanto si è posta in contrasto con le precedenti pronunce dei giudici di legittimità che, successivamente all'entrata in vigore della l. n. 47/2015, hanno invece riconosciuto la possibilità per il giudice di applicare cumulativamente diverse misure cautelari anche nell'ipotesi prevista dall'art. 299, comma 2, c.p.p. L'articolo si propone di analizzare le diverse posizioni espresse dalla giurisprudenza di legittimità sul punto e di individuare una possibile soluzione a tale contrasto ermeneutico, ripercorrendo, tra l'altro, l'excursus storico-normativo e giurisprudenziale della disciplina sul cumulo delle misure cautelari personali.

Un nuovo contrasto giurisprudenziale sull'applicazione cumulativa delle misure cautelari

Con la sentenza n. 30900/2020, la Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui “in sede di sostituzione della misura cautelare personale con altra meno afflittiva, ai sensi dell'art. 299, comma 2, c.p.p., il giudice non può disporre l'applicazione congiunta di più misure, ostandovi la previsione letterale della norma stessa” (Cass. pen., sez. II, 8 settembre 2020, n. 30900). Pronuncia, questa, che ha inevitabilmente aperto la strada ad un contrasto giurisprudenziale interno alla stessa Corte.

Invero, diversamente da quest'ultima decisione, la Suprema Corte aveva in precedenza riconosciuto “legittimo il provvedimento con cui il giudice, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari, disponga l'applicazione cumulativa di più misure gradate in sostituzione di quella in corso d'esecuzione ai sensi dell'art. 299, comma 2, c.p.p.” (Cass. pen., sez. V, 27 marzo 2020,n. 12777; Cass. pen., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6790). In particolare, la Corte in tali decisioni ha evidenziato come le innovazioni apportate dal legislatore con la l. n. 47/2015 avessero determinato un superamento di ogni limitazione alla possibilità di cumulo delle misure cautelari, realizzabile adesso sia in fase genetica che in fase di sostituzione delle misure applicate. Pertanto, i giudici di legittimità hanno affermato che proprio la valenza sistematica della novella legislativa e la necessità di assicurare una migliore garanzia al principio del “minor sacrificio della libertà personale”debbano condurre ad escludere che la mancata modifica del testo del comma 2 dell'art. 299 c.p.p. comporti l'impossibilità di applicare congiuntamente le misure cautelari nell'ipotesi di attenuazione delle esigenze cautelari. In altri termini, secondo la Corte, seppur il legislatore del 2015 si è limitato a modificare esclusivamente le disposizioni previste dagli artt. 275 comma 3 e 299 comma 4 c.p.p., introducendo in esse la possibilità di applicare cumulativamente diverse misure cautelari, tali innovazioni devono estendersi anche all'ipotesi prevista dall'art. 299, comma 2 c.p.p. Ciò in quanto le nuove disposizioni risultano finalizzate ad ampliare la “gamma graduata delle misure adottabili dal giudice in relazione alle esigenze cautelari del singolo caso concreto e, quindi, ad “assicurare una più pregnante tutela al principio del «minor sacrificio della libertà personale»”e ai principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza.

La stessa Corte ha difatti evidenziato che una diversa interpretazione della normativa, volta ad escludere la possibilità di cumulo delle misure nell'ipotesi di attenuazione delle esigenze cautelari, “metterebbe in luce profili di tensione della disciplina della revoca e della sostituzione delle misure già sul piano della ragionevolezza della differenziazione tra la disciplina della sostituzione per aggravamento delle esigenze cautelari (arricchita dalla possibile applicazione congiunta di più misure) e quella della sostituzione ex art. 299, comma 2, c.p.p. (che di tale possibilità non potrebbe giovarsi)”.

Contrariamente a tale impostazione, come già detto, si pone invece la recente sentenza n. 30900/2020 della Suprema Corte, nella quale i giudici di legittimità hanno invece precisato che la legge di riforma del 2015 ha introdotto soltanto due nuove ipotesi tassative di applicazione congiunta delle misure cautelari, quelle appunto previste dagli artt. 275 comma 3 (che disciplina la fase genetica della misura cautelare) e 299 comma 4 c.p.p. (in tema di sostituzione della misura per aggravamento delle esigenze cautelari). Secondo la Corte, inoltre, stante la ratio ispiratrice della riforma, consistente nella volontà del legislatore di ridurre le ipotesi di applicazione della custodia cautelare in carcere, risulta evidente come la stessa non abbia introdotto un generalizzato potere di applicazione congiunta delle misure cautelari, ma abbia semplicemente esteso le ipotesi nelle quali il giudice possa ricorrere a tale alternativa: ipotesi che restano comunque tassativamente individuate dal legislatore.

La Corte ritiene poi che la soluzione offerta dalle precedenti pronunce di legittimità non sarebbe condivisibile in quanto, seppur basata su un'interpretazione sistematica del dato normativo, “trova un ostacolo insormontabile nella interpretazione letterale della legge che non prevede al citato art. 299, comma 2, c.p.p. la possibilità di applicazione congiunta”. Difatti, evidenziano i giudici, tale rilevo appare “del tutto chiaro ed inequivocabile”, posto che la disposizione in esame prevede la sostituzione della misura in atto con altra” meno afflittiva, così facendo espresso riferimento ad una singola misura applicabile. A sostegno di tale impostazione, la Corte richiama la pronuncia delle Sezioni Unite, il cui contenuto viene ritenuto “del tutto inalterato pur dopo la novella del 2015, secondo la quale “in ossequio ai […] principi di stretta legalità, tassatività e tipicità, deve concludersi che, al di fuori dei casi in cui non siano espressamente consentite da singole norme processuali, non sono ammissibili tanto l'imposizione "aggiuntiva" di ulteriori prescrizioni non previste dalle singole disposizioni regolanti le singole misure, quanto l'applicazione "congiunta" di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili”(Cass. pen., Sez. Un.,30 maggio 2006, n. 29907).

Il contrasto giurisprudenziale sulla disciplina previgente

Per comprendere al meglio la questione in esame appare opportuno ricordare come anche sotto la vigenza della precedente disciplina legislativa si fosse instaurato un contrasto ermeneutico in seno alla Suprema Corte.

Secondo la disciplina previgente, il cumulo delle misure cautelari era applicabile soltanto nei casi previsti dagli artt. 276 comma 1 (disciplinante l'ipotesi di trasgressione delle prescrizioni della misura cautelare applicata) e 307 comma 1-bis c.p.p. (in tema di provvedimenti adottabili nei confronti dell'imputato scarcerato per decorrenza dei termini). Queste, dunque, erano le uniche due ipotesi nelle quali il legislatore ammetteva espressamente la possibilità di applicare cumulativamente le misure cautelari personali.

Così posta la disciplina legislativa, in giurisprudenza si contrapponevano due distinti orientamenti ermeneutici.

Secondo l'orientamento maggioritario, in ossequio al principio di tassatività e legalità delle misure cautelari personali, era da escludersi l'applicabilità cumulativa delle misure cautelari al di fuori delle singole ipotesi previste dalla legge, da considerarsi speciali e non suscettibili di interpretazione estensiva (cfr. Cass. pen., sez. II,29 novembre 2001, n. 641; Cass. pen., sez. III, 4 maggio 2004, n. 37987; Cass. pen., sez. IV, 23 febbraio 2005, n. 32944; Cass. pen., sez. I, 21 ottobre 2009, n. 42891). Una conferma di tale lettura, in particolare, era da rinvenirsi proprio nell'introduzione del comma 1-bis dell'art. 307 c.p.p. ad opera del dl. n. 341/2000, convertito con la l. n. 4/2001. Con tale modifica, difatti, si ammetteva la possibilità per il giudice applicare cumulativamente talune misure cautelari “solo nelle ipotesi di scarcerazione per decorrenza dei termini disposta nei confronti di persona indagata o imputata per uno dei gravi delitti previsti dall'art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., e non in ipotesi diverse, quale quella della scarcerazione per decorrenza dei termini di persona imputata di meno gravi reati e - a fortiori - in fattispecie[ulteriori e diverse] (così Cass. pen., sez. II, 29 novembre 2001, n. 641). Una interpretazione estensiva della norma, dunque, secondo tale impostazione avrebbe comportato una violazione del principio di tipicità delle misure cautelari posto dall'art. 13, comma 2,Cost. e dall'art. 272 c.p.p. (Cass. pen., sez. III, 4 maggio 2004, n. 37987). Da ciò derivava dunque l'illegittimità dei provvedimenti che applicavano un “mixtum compositum” di due diverse misure cautelari in ipotesi diverse da quelle tassativamente previste dal legislatore.

Secondo un'opposta, ma minoritaria, interpretazione, invece, l'applicazione congiunta di misure cautelari tra loro compatibili era invece da ritenersi ammissibile in via generale (Cass. pen., sez. V,14 aprile 2000, n. 2361; Cass. pen.,sez. VI, 30 marzo 2004,n. 23826).

In particolare, si osservava come nessuna norma del codice di procedura penale vietasse espressamente l'applicazione simultanea di due diverse misure coercitive nei confronti di uno stesso soggetto, né tale divieto poteva dedursi dalle singole disposizioni normative disciplinanti tale possibilità, poiché tali previsioni non avrebbero potuto escludere che “l'esigenza di un'applicazione congiunta [potesse] prospettarsi sin dall'inizio, al fine di una più efficace tutela delle esigenze alle quali è preposta altra meno grave misura, ovvero possa essere ravvisata, in un secondo momento, dal giudice del riesame in tema di appello de libertate”. Tale interpretazione estensiva, inoltre, trovava fondamento, secondo i giudici di legittimità, nella necessità di tutela del principio del favor libertatis, sancito legislativamente dall'art. 275 c.p.p., il quale impone “di adeguare costantemente le misure alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare. Sicché, impedire al giudice l'applicazione di simultanee misure coercitive diverse da quelle custodiali equivale a ridimensionare le possibilità di adeguamento delle misure alle esigenze cautelari, con prevedibili effetti sfavorevoli per l'indagato”. È stato difatti evidenziato che qualora il giudice non avesse avuto la possibilità di cumulare misure coercitive non detentive, di fronte a gravi fatti di reato avrebbe inevitabilmente considerato adeguata alle esistenti esigenze cautelari la sola misura custodiale. Conseguentemente, i giudici di legittimità hanno affermato che l'applicazione congiunta di misure coercitive tra loro compatibili deve ritenersi consentita anche fuori dalle ipotesi disciplinate dagli artt. 276 e 307 c.p.p.

L'intervento delle Sezioni Unite

A dirimere il suddetto contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite con la già citata sentenza n. 29907/2006, che ha sostanzialmente accolto l'orientamento ermeneutico maggioritario.

Nel motivare la propria decisione, i giudici di legittimità hanno, in primo luogo, rilevato che il progetto di riforma del codice di procedura penale del 1978 stabiliva, all'art. 265 intitolato “limite alla cumulabilità delle misure”, che "salvi i casi previsti dalla legge, una stessa persona non può essere sottoposta contemporaneamente a più di una misura". La rigidità di tale disposizione risultava poi attenuata da singole norme che eccezionalmente ammettevano l'applicazione congiunta di talune misure cautelati. Il testo del codice poi definitivamente approvato nel 1988, tuttavia, non confermava tale regola preclusiva ma, come hanno sottolineato i giudici, “neppure è dato rinvenire alcuna disposizione che, almeno nella fase genetica di applicazione delle misure cautelari personali, ne preveda espressamente la cumulabilità, configurandosi da parte del legislatore solo una specifica ipotesi di contaminazione dei tipi nella "più blanda" figura della misura domiciliare di cui all'art. 283, comma 4, c.p.p., quale prescrizione "minore e accessoria" all'obbligo di dimora”.

In secondo luogo, la Corte ha poi evidenziato che sia l'art. 275 c.p.p. che l'art. 299, commi 2 e 4, c.p.p. declinavano le misure applicabili dal giudice sempre al singolare – “ciascuna”, “ogni altra”, “con un'altra meno grave”, “con un'altra più grave – rivelando dunque in tal modo “l'intento legislativo di fare riferimento ad una misura coercitiva per volta e non all'applicazione cumulativa delle stesse”. Diversamente, invece, doveva ritenersi per l'art. 276, comma 1, c.p.p., il quale ammette che il giudice, alle condizioni previste dalla legge e sempre che non vi sia un'intrinseca compatibilità tra alcune misure, può disporre, oltre alla sostituzione della misura applicata, anche “il cumulo con altra più grave”.

Infine, i giudici di legittimità hanno evidenziato come la soluzione da loro prospettata apparisse maggiormente coerente con la logica di fondo dell'intera disciplina del sistema cautelare. Difatti, la disposizione generale di cui all'art. 272 c.p.p., che sancisce il principio di stretta legalità in tema di misure cautelari, non deve essere letta come una “mera sottolineatura della necessità di previsione legale, che già scaturisce dalla doppia riserva, di legge e di giurisdizione, dettata dall'art. 13, comma 2, Cost. per ogni forma di compressione della libertà personale, riflettendosi in essa piuttosto il proposito di ridurre a un "numero chiuso" le figure di misure limitative della libertà utilizzabili in funzione cautelare”. In altri termini, in base all'art. 272 c.p.p. “tipiche e nominate sono le figure delle misure cautelari personali, così come tipici e nominati sono i casi, le forme e i presupposti secondo i quali le stesse possono essere adottate”. L'applicazione congiunta di misure cautelari al di fuori delle ipotesi espressamente previste dal legislatore avrebbe dunque comportato la creazione “di una “nuova” misura non corrispondente al paradigma normativo tipico” e, quindi, illegittima.

La nuova disciplina delineata dalla legge n. 47/2015

Considerato il quadro giurisprudenziale appena esposto, non può non essere evidente come la nuova formulazione del comma 3 dell'art. 275 c.p.p., introdotta dalla riforma del 2015, si ponga in netto contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite del 2006, ammettendo anche in fase genetica l'applicazione congiunta delle misure cautelari personali coercitive o interdittive, purché astrattamente compatibili tra loro. Nella stessa direzione, poi, si pone, come già visto, la nuova formulazione dell'art. 299, comma4, c.p.p., benché in sede di aggravamento delle esigenze cautelari. A questo punto si rende allora necessario verificare se tali nuove disposizioni possano assurgere a rango di principi generali, applicabili in ogni fase del procedimento cautelare, ovvero se queste rappresentino, come affermato dalla recente sentenza della Suprema Corte di cui si è detto in apertura, una mera estensione quantitativa delle ipotesi di applicazione congiunta delle misure cautelari.

In primo luogo, appare opportuno evidenziare che dalla lettura della Relazione di accompagnamento alla proposta di legge(presentata alla Camera della deputata Anna Rossomando in sede di discussione sulle linee generali della proposta di legge n. 631-A ed abbinate) può rilevarsi come lo scopo della riforma legislativa fosse quello di rafforzare il principio secondo cui la custodia cautelare in carcere debba configurarsi quale extrema ratio, alla quale cioè ricorrere solo in ipotesi eccezionali. Proprio per tale motivo, si afferma nella relazione, “una disposizione che può essere considerata il cardine dell'intero intervento normativo può essere considerato […] il primo periodo del comma 3 dell'art. 275 c.p.p. […]”, il quale, ammettendo la possibilità di cumulo delle misure cautelari personali, offreal giudice un più ampio ventaglio di alternative al carcere, rendendo più concreto il principio di residualità della restrizione carceraria”. In altre parole, secondo la relatrice, scopo della riforma del 2015 dovrebbe essere quello di permettere effettivamente al giudice di applicare la custodia cautelare in carcere solo qualora le esigenze cautelari del caso concreto siano tali da non poter essere soddisfatte con l'applicazione, anche cumulativa, di altre misure cautelari.

Sulla base di tali considerazioni può apprezzarsi il rilievo operato da una parte della dottrina, secondo la quale la modifica legislativa dell'art. 299, comma 4, c.p.p. possa anche ritenersi superflua, in quanto il principio di diritto fissato dall'art. 275, comma 3, c.p.p. avrebbe trovato comunque applicazione in fase di sostituzione della misura applicata. Ciò in quanto i principi costituzionali di adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare devono essere attuati non solo nel momento della scelta della misura da applicare ma anche nelle fasi susseguenti,imponendo, in ossequio al principio del minor sacrificio della libertà personale, una costante verifica della perdurante adeguatezza della misura in atto” (si veda Vispo, La cumulabilità delle misure coercitive e interdittive nella fase genetica e nelle ipotesi di aggravamento delle esigenze cautelari, in Leg. Pen. online, 1 febbraio 2015, pp. 5-6; D'Arcangelo, Le misure cautelari personali (l. 16 aprile 2015, n.47), Milano, 2015, p. 55).

Una conferma di tale impostazione, inoltre, può rinvenirsi nella scelta del legislatore di inserire la possibilità di cumulo delle misure proprio nella norma dedicata alla disciplina dei criteri di scelta delle misure e, dunque, nell'ambito delle “disposizioni generali” sul sistema delle misure cautelari (artt. 272-279 c.p.p.).

In conclusione

Da tale punto di vista, si può dunque concludere che deve ritenersi ammissibile l'estensione del cumulo delle misure anche all'ipotesi di attenuazione delle esigenze cautelari di cui all'art. 299 comma 2, c.p.p., seppur tale possibilità non risulti prevista espressamente dal legislatore. Se, infatti, prima della riforma del 2015 il legislatore ammetteva tale possibilità solo in via eccezionale, adesso invece sembra ammetterla in via generalizzata, riconoscendo al giudice il potere di applicare cumulativamente le misure cautelari in ogni fase della vicenda cautelare, al fine di scongiurare, per quanto possibile, la massima restrizione della libertà personale del soggetto indagato o imputato. Una diversa interpretazione della normativa, come quella offerta dalla sentenza della Suprema Corte da cui si è preso le mosse, renderebbe non solo anacronistica la disposizione di cui all'art. 299, comma 2, c.p.p. rispetto alla recente evoluzione della disciplina cautelare, ma anche del tutto irrazionale lo stesso sistema cautelare, il quale escluderebbe irragionevolmente il cumulo delle misure nella sola ipotesi di attenuazione delle esigenze cautelari. Così, peraltro, si ostacolerebbe, rendendolo di più difficile attuazione, quel costante adeguamento del presidio cautelare ai principi di proporzionalità e di adeguatezza che le Sezioni Unite hanno stabilito sia effettuato dal giudice durante l'intero rapporto cautelare (Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2011, n. 16085, secondo la quale i principi di proporzionalità e di adeguatezza operano come parametri di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e dell'adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale).

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